Dossier: A settant’anni dalle leggi razziste
Le leggi della vergogna
e il monito del Parlamento
“Il 16 dicembre 2008 il Presidente della Camera dei Deputati Gianfranco Fini e il Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna hanno rievocato la vergogna delle leggi antiebraiche approvate il 14 dicembre 1938 dalla Camera dei Deputati. La memoria delle persecuzioni e degli orrori che ne seguirono costituiscano monito perenne affinché il Parlamento sia per sempre baluardo della libertà umana e della dignità della persona secondo i principi e le disposizioni della Costituzione della Repubblica”. Questo il testo della targa apposta nella Sala della Regina della Camera dei Deputati a Roma al termine della cerimonia in memoria del 70° anniversario della promulgazione delle leggi razziste.
Hanno preso parte alla cerimonia commemorativa il Presidente della Camera Gianfranco Fini, il Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Renzo Gattegna, lo storico Michele Sarfatti direttore del Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (Cdec), Nedo Fiano, reduce del campo di sterminio di Auschwitz e Zoe Brandizzi, studentessa.
Nella sala affollata dalle moltissime personalità intervenute, fra gli altri i deputati Rosi Bindi (PD),
Emanuele Fiano (PD), Alessandro Ruben (Pdl), il presidente della Comunità ebraica romana Riccardo Pacifici, numerosi consiglieri dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane assieme alla vicepresidente Claudia De Benedetti, molti altri leader ebraici italiani. E infine molti giovani studenti, come non ha mancato di rilevare il Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Renzo Gattegna che nell’evidenziare l’importanza della presenza dei giovani alla cerimonia ha spiegato come la loro presenza abbia conferito alla celebrazione un sapore e un’ importanza particolari perché “a loro dobbiamo cercare di dare gli strumenti per guardare al futuro con speranza, senza il pericolo di incorrere di nuovo negli errori tragici compiuti nel passato, quali quelli che siamo qui oggi a ricordare”.
Dura condanna alle leggi razziste del ‘38 è stata espressa dal Presidente della Camera, Gianfranco
Fini secondo il quale fare i conti con queste leggi oggi “significa avere il coraggio di perlustrare gli
angoli bui dell’anima italiana, il che vuol dire sforzarsi di analizzare le cause che la resero possibile
in un Paese profondamente cattolico e tradizionalmente ricco di sentimenti di umanità e di
solidarietà. Tra queste cause – ha proseguito Fini – c’è certamente l’anima razzista che il fascismo
rivelò pienamente nel 1938 ma che era comunque già presente nella esasperazione nazionalistica
che caratterizzava il regime”. E tuttavia, per Fini, “l’ideologia fascista non spiega da sola l’infamia.
C’è da chiedersi perché la società italiana si sia adeguata nel suo insieme alla legislazione
antiebraica e perché, salvo talune luminose eccezioni, non siano state registrate manifestazioni
particolari di resistenza. Nemmeno, mi duole dirlo, da parte della Chiesa cattolica”. Fra gli elementi
a parziale giustificazione Fini ha individuato il carattere autoritario del regime, una certa
propensione al conformismo e “una possibile condivisione sotterranea e oscura di una parte della
popolazione dei pregiudizi e delle teorie antiebraiche”.
Una forte corrente di commozione è scesa fra il pubblico quando Nedo Fiano, classe 1925,
scampato al campo di sterminio di Auschwitz, ha pronunciato con toni vibranti le ultime parole di
sua madre all’arrivo ad Auschwitz “Nedo, Nedo abbracciami non ci vedremo mai più…”.
“Ci stringemmo con un abbraccio fortissimo e disperato, ha ricordato Fiano, fra centinaia di deportati laceri e sporchi, dopo qualche ora le sue ceneri furono disperse” Un ricordo drammatico, duro, che deve oggi rappresentare, secondo Fiano, il più alto grado di giustizia e mantenere alti i valori di libertà e dignità umana.
Messaggio pienamente raccolto nella testimonianza della giovane Zoe Brandizzi, studentessa di un
Liceo artistico romano, per aver denunciato insieme alla propria classe un professore di storia
dell’arte che aveva pubblicamente e violentemente negato l’olocausto.
Dopo la cerimonia aspre critiche alle parole di Fini sono giunte da parte di padre Giovanni Sale di
Civiltà Cattolica: “Quando Fini dice quello che ha detto sbaglia, evidentemente non conosce questa
pagina di storia nazionale che vede contrapposti Pio XI e Mussolini”.
“Probabilmente, ha affermato il rappresentante cattolico, le affermazioni di Fini sono frutto di una
“svista, di un cercare un correo a delle responsabilità che il presidente Fini vuole in parte coprire
che fanno parte della sua storia, anche se non di quella recente”.
Lucilla Efrati – Valerio Mieli
Montecitorio, Sala della Regina – Convegno “1938-2008 Settant’anni dalle
leggi antiebraiche e razziste, per non dimenticare”
16 dicembre 2008
Fini: “Una pagina vergognosa della storia italiana”
Rievochiamo oggi una pagina vergognosa della storia italiana. Le Leggi antiebraiche e razziste
approvate nel 1938 e che hanno rappresentato uno dei momenti più bui nelle vicende del nostro
popolo. Approfondiremo quel triste capitolo storico con l’aiuto di Renzo Gattegna, Presidente
dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, dello storico Michele Sarfatti e di Nedo Fiano,
testimone dell’orrore di Auschwitz. Una testimonianza sulla necessità di mantenere viva la memoria
di quegli eventi presso i giovani ci verrà dalla studentessa Zoe Brandizzi. Saluto e ringrazio gli
oratori per l’importante contributo che si apprestano a fornire al convegno. Settant’anni fa, gli ebrei
italiani furono colpiti, come uomini e come cittadini, da provvedimenti che stabilirono assurde
discriminazioni nella vita economica e civile; l’allontanamento dagli uffici pubblici, dalle banche e
dalle assicurazioni; o la proibizione di avere dipendenti o di possedere terreni e aziende.
Particolarmente odiose furono le discriminazioni ai danni dei bambini e dei ragazzi o quelle che
prevedevano il divieto dei matrimoni misti. Un esempio tra i tanti Rita Levi-Montalcini, Premio
Nobel e Senatore a vita. A causa del “Manifesto della razza” dovette abbandonare patria, famiglia ,
affetti, sicurezze e lavoro; l’ospedale presso cui lavorava. Tutto. E trovare rifugio in Belgio,
attrezzando in cucina un piccolo laboratorio di fortuna. Poi, l’invasione nazista; il rifugio ancora in
Italia,a Firenze; sulle colline di Asti e infine a Torino. La professoressa Levi-Montalcini fu tra
quanti – con le parole di Primo Levi- “sperarono di poter sopravvivere per poter raccontare”. Con la
memoria di questa infamia dobbiamo fare i conti, dopo settant’anni, come nazione e come cittadini.
Farli senza infingimenti e senza ambiguità. Il fatto che tali provvedimenti siano stati approvati a
Montecitorio provoca un sentimento di tristezza, pur nell’ovvia considerazione che la Camera dei
deputati della Repubblica italiana non ha nulla a che vedere con l’Assemblea che il fascismo aveva
svuotato di qualsiasi contenuto democratico. La circostanza verrà ricordata in una lapide che sarà
scoperta in questa Sala al termine del convegno. Vogliamo che il ricordo della vergogna di
settant’anni fa sia di ammonimento per difendere e promuovere sempre i valori libertà e dignità
della persona sanciti dalla Carta costituzionale italiana. Oggi fare seriamente i conti oggi con
l’infamia storica delle Leggi razziali significa avere il coraggio di perlustrare gli angoli bui
dell’anima italiana. Il che vuol dire sforzarsi di analizzare le cause che la resero possibile in un
Paese profondamente cattolico e tradizionalmente ricco di sentimenti d’umanità e solidarietà. Tra
queste cause c’è certamente l’anima razzista che il fascismo rivelò pienamente nel 1938, ma che era
comunque già presente nell’esasperazione nazionalistica che caratterizzava il regime. Segni
inequivocabili di razzismo s’erano già manifestati nella politica coloniale. Vale la pena ricordare la
campagna propagandistica – “faccetta nera” – che fu lanciata subito dopo la guerra d’Etiopia contro
quella che era definita la “piaga del meticciato”. Un Regio Decreto del 1937 vietò le “relazioni
matrimoniali” tra gli italiani e quelli che erano chiamati i “sudditi delle colonie africane”. L’odiosa
iniquità delle Leggi razziali si rivelò in modo particolare a quegli ebrei che avevano aderito al
fascismo. Tra i nomi più noti c’è quello di Guido Jung, che era stato ministro delle Finanze tra il
1932 e il 1935. Oppure quello di un intellettuale come Ettore Ovazza, che aveva partecipato alla
fondazione del Fascio di Torino e che nel 1937 aveva confutato un libello antisemita di Paolo
Orano. Ma l’ideologia fascista non spiega da sola l’infamia. C’è da chiedersi perché la società
italiana si sia adeguata, nel suo insieme, alla legislazione antiebraica e perché, salvo talune
luminose eccezioni, non siano state registrate manifestazioni particolari di resistenza. Nemmeno da
parte della Chiesa cattolica. A giustificazione potremmo addurre il carattere autoritario del regime –
che certo non tollerava manifestazioni di esplicito dissenso – oltre naturalmente alla propaganda
pervasiva e al controllo totale dell’informazione e ancor più dell’educazione e dell’istruzione
esercitato per un quindicennio. Però dovremmo anche riconoscere che alla base della mancata
reazione della popolazione ci furono altri elementi che può risultare scomodo riconoscere. Penso
alla propensione al conformismo. Penso ad una possibile condivisione – sotterranea e oscura, negata
ma presente – di una parte della popolazione dei pregiudizi e delle teorie antiebraiche. Penso
soprattutto a una vocazione all’indifferenza più o meno diffusa nella società di allora. Proprio “Gli
Indifferenti” si intitolava il romanzo d’esordio di Moravia, pubblicato nel 1929, con il quale lo
scrittore dipingeva quella che a lui appariva già allora come l’inerzia morale della società borghese
italiana di fronte all’essenza della persona umana. Lo ricordo perché rileggere gli scrittori può
servire a cogliere quelle significative sfumature sociali che possono talvolta sfuggire al meritorio
lavoro scientifico degli storici. Denunciare la inequivocabile responsabilità politica e ideologica del
fascismo non deve insomma portare a riproporre lo stereotipo autoassolutorio e consolatorio degli
“italiani brava gente” . La memoria – ha scritto Elena Loewenthal – non è di per sé uno “scudo
inossidabile di fronte al male”. Non lo è se non sappiamo trasformarla in esperienza storica
produttiva di insegnamenti. Ciò non significa ignorare o trascurare il coraggio di quegli italiani che
seppero opporsi alla barbarie del razzismo e dell’antisemitismo, soprattutto dopo il ’40 nel tempo
orribile della Shoah. I nomi di alcuni di quei valorosi sono noti. Pensiamo a Giorgio Perlasca.
Oppure al questore di Fiume, Giovanni Palatucci, che salvò cinquemila ebrei e che pagò il suo
coraggio e la sua straordinaria umanità con l’internamento a Dachau, dove morì a soli 36 anni.
Oppure al Console di Salonicco, Guelfo Zamboni, che sottrasse centinaia di ebrei al terribile destino
della deportazione. A queste personalità straordinarie dobbiamo aggiungere tanti altri italiani,
sconosciuti ma non meno straordinari, che si prodigarono per salvare gli ebrei spesso a rischio della
propria vita. Vale la pena ricordare che le storie di tanti di quegli umili eroi sono raccolte in un bel
libro uscito all’inizio del 2006 per cui ho avuto l’onore di scrivere la prefazione: “I giusti d’Italia”,
curato dal direttore del centro ricerche dello Yad Vashem, Israel Gutman. Tutte quelle storie
costituiscono motivo di legittimo orgoglio per l’intero popolo italiano. Ricostruire con rigore la
vergogna delle Leggi razziali, guardare senza reticenza dentro l’anima italiana non serve soltanto
per raccontare il passato nella sua completezza. Serve anche e soprattutto a preservare il nostro
popolo dal rischio di tollerare in futuro, tra inerzia e conformismo, altre possibili infamie contro
l’umanità. Ha detto il presidente Napolitano, commemorando nel gennaio scorso il Giorno della
Memoria che “bisogna ricordare gli atti di barbarie del nostro passato per impedire nuove barbarie,
per costruire un futuro che si ispiri a ideali di libertà e di fratellanza fra i popoli”. Ammoniva Primo
Levi che un orrore accaduto nel passato può sempre riaccadere nel futuro. Magari non nelle stesse
forme e non con gli stessi pretesti ideologici. Dobbiamo avere la consapevolezza che il fanatismo
nemico dei diritti dell’uomo, che purtroppo agisce ancora oggi in tante parti del mondo, può
dilagare nel torpore delle democrazie. Per questo dobbiamo mantenere sempre desta e vigile la
coscienza dei cittadini. Una democrazia vigile e attenta deve saper contrastare con efficacia
l’antisemitismo nelle vecchie e nuove forme ideologiche che questo oggi assume. C’è
l’antisemitismo esplicito dell’estrema destra e del neonazismo. C’è quello mascherato da
antisionismo dell’estremismo no-global e dell’ultrasinistra. E c’è quello, ammantato di pretesti
pseudo-religiosi, dell’islamismo radicale. E’ un antisemitismo, quest’ultimo, che tende ad assumere
spesso gravi forme terroristiche, come accaduto recentemente a Mumbai, dove i terroristi hanno
assaltato anche il Centro ebraico facendo otto vittime. Le Istituzioni devono impedire che, di fronte
a questi fenomeni, si producano fenomeni d’assuefazione nell’opinione pubblica. Un campanello
d’allarme lo ha lanciato recentemente Angelo Panebianco, quando ha notato, sempre a proposito
della tragedia di Mumbai, che presso gli europei tende a manifestarsi indifferenza nei confronti
dell’antisemitismo presente in buona parte del mondo islamico, come se fosse inevitabile, quasi
naturale. Oggi, come settant’anni fa, un’ideologia che sopprime i diritti dell’uomo e propugna
l’annientamento di uno Stato e lo sterminio di un popolo può produrre grandi tragedie e sofferenze
nella complicità silenziosa di una società distratta e indifferente. Come ci ha insegnato Hannah
Arendt, il mistero della propagazione del male è un mistero banale. In uno dei suoi libri più famosi,
che si intitola appunto “La banalità del male”, scritto a proposito del processo ad Adolf Eichmann
che si celebrò a Gerusalemme nel 1960, la filosofa così descrisse l’imputato, reo di aver pianificato
materialmente la deportazione degli ebrei nei campi di sterminio: “Le azioni erano mostruose, ma
chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso. Solo grigio e incolore”. Sono parole
che devono scuotere ancor oggi le nostre coscienze, perché il male si può riprodurre. Per questo è
un dovere ricordare l’infamia di 70 anni fa. Ricordare. Cioè ri excorde. Riportare al cuore. Perché
accanto al giudizio della storia ci sia il dovere morale di una profonda indignazione.
Gianfranco Fini – Presidente della Camera dei Deputati
Gattegna: “La Memoria serve per guardare al domani”
“E’ per me un grande onore prendere la parola, in rappresentanza degli ebrei italiani, in questa
cerimonia che la Camera dei Deputati ha promosso per ricordare il settantesimo anniversario delle
leggi antiebraiche e razziste del 1938.
Quelle leggi furono lo strumento giuridico che permise la completa emarginazione degli ebrei dalla
vita civile italiana e rese formalmente legittimo un antisemitismo estraneo alla cultura e ai
sentimenti di gran parte del Paese. Per gli ebrei italiani, piccola minoranza che si era identificata
con la causa risorgimentale e nazionale, quelle leggi furono il tradimento dello Stato alla cui nascita
avevano contribuito e per il quale molti avevano combattuto. Quelle leggi furono all’origine di
discriminazioni e umiliazioni che trasformarono gli ebrei italiani da cittadini in perseguitati.
La ringrazio, signor Presidente, per avermi offerto questa opportunità.
Sono sinceramente lieto che tra i presenti, in una giornata dal valore simbolico così forte, siano
presenti alcuni ragazzi delle nostre scuole. Si tratta di una presenza che conferisce a questa
celebrazione un sapore ed un’importanza particolari.
Il ricordo di quanto avvenuto negli anni bui che precedettero e seguirono l’emanazione delle leggi
razziali, infatti, costituisce un tassello fondamentale nella formazione della nostra Repubblica,
basata su una Costituzione che sancisce con chiarezza l’importanza di valori quali la libertà,
l’eguaglianza, la dignità umana e la solidarietà sociale.
Ma il valore della memoria, tanto più se riferito ad eventi tanto drammatici, subirebbe un pericoloso
vulnus se noi lo considerassimo un punto di arrivo, fine a se stesso.
Penso di interpretare lo spirito di tutti i presenti, invece, affermando che noi siamo qui oggi, in
quest’aula, per ricordare il passato, guardando al futuro. Perché consideriamo la memoria uno
strumento, indispensabile e dalle potenzialità a volte sottostimate, per migliorare la nostra società e
per individuare gli obiettivi che vogliamo raggiungere.
Per questo, quando parliamo di obiettivi, di futuro, non possiamo che guardare ai nostri figli, ai
nostri nipoti, ai giovani che oggi sono qui, che ci guardano e ci ascoltano. A loro dobbiamo cercare
di dare gli strumenti per guardare al futuro con speranza, senza il pericolo di incorrere di nuovo
negli errori tragici compiuti nel passato, quali quelli che oggi siamo qui a ricordare.
Memoria e futuro, quindi, devono costituire un binomio inscindibile, perché si completano e si
sostengono reciprocamente.
E’ scritto nella Torah, al capitolo 30 del Deuteronomio: “ Guarda, io ho posto davanti a te oggi la
vita e il bene, la morte e il male ….. tu scegli la vita”.
Sono passati ormai settant’anni da quel 14 dicembre 1938, quando la Camera dei Deputati del
Regno d’Italia approvò all’unanimità le leggi di conversione dei decreti che avevano introdotto le
norme razziste e antiebraiche. Non si trattò certo di un fulmine a ciel sereno. I segnali di un sistema
che si stava deteriorando e che stava perdendo di vista alcuni valori fondamentali erano visibili da
tempo.
Tuttavia, la promulgazione delle leggi razziali colse gli ebrei, salvo poche eccezioni, increduli e
impreparati; molti pagarono con la vita il ritardo con il quale compresero la gravità del pericolo.
Pochi ebbero la lucidità di comprendere che lo Stato italiano stava pianificando ed attuando un
processo che, partendo dalla negazione dei diritti fondamentali, sarebbe arrivato alla negazione del
diritto a vivere. Molti si rifiutarono di credere che lo stesso Stato nel quale avevano creduto, al cui
progresso avevano contribuito, per il quale molti avevano generosamente e valorosamente
combattuto nelle battaglie risorgimentali e nella Prima Guerra Mondiale, stava perpetrando un
cinico e atroce tradimento. Il tradimento nei confronti di una Comunità e di una minoranza religiosa
che, integrata in Italia da oltre venti secoli, smise da un giorno all’altro di essere tale, per
trasformarsi, in forza di legge, in una “razza”, distinta biologicamente dal resto del popolo italiano.
Del resto l’approvazione delle leggi razziali avvenne all’unanimità, prima per acclamazione e poi
con votazione a scrutinio segreto. Sembra incredibile, ma neanche nel segreto dell’urna i
Parlamentari ebbero la forza e la dignità per opporsi a provvedimenti tanto aberranti. Questo era il
clima che si respirava nell’Italia del 1938. Questa era la classe dirigente che decideva le sorti del
nostro paese.
In proposito, però, mi preme ricordare come il rapporto di fratellanza tra gli ebrei e il resto della
popolazione italiana non venne mai interrotto completamente. Vi furono persone che rifiutarono di
uniformarsi alle condotte imposte dal regime, anche a rischio della propria incolumità e che per le
loro idee e per il loro eroico comportamento sono stati insigniti del titolo di “Giusti fra le Nazioni”.
Essi salvarono l’onore dell’Italia.
Nonostante il pesante clima di intimidazione che si stava diffondendo in quegli anni, l’approvazione
delle leggi razziali costituì un momento di cesura, un punto di non ritorno che segnò irreversibilmente la storia del nostro paese, causandone anche un profondo impoverimento dovuto all’emarginazione prima e all’allontanamento e all’eliminazione fisica poi, di importanti rappresentanti della vita politica, economica e culturale del Paese.
Ogni interpretazione riduttiva della loro gravità è infondata. La storia ha dimostrato la stretta
connessione tra le leggi razziste e la Shoà.
Alessandro Galante Garrone ha scritto: Non dobbiamo mai dimenticare, quando prendiamo in esame le leggi antisemite del ’38 e le liste degli israeliti che furono burocraticamente compilate in attuazione di quelle leggi, che la suprema infamia del grande olocausto degli ebrei è cominciata in Italia proprio con quelle leggi, e con tutto quello che le accompagnò e le seguì. Tra queste leggi del 1938-39 e l’ecatombe di alcuni anni dopo c’è una diretta continuità.
A settanta anni di distanza, quelle leggi ci appaiono lontane, assurde, estranee alla nostra cultura e
alla nostra coscienza democratica.
Primo Levi, di fronte alle domande degli studenti ai quali cercava di spiegare cosa fosse e a cosa
avesse portato la barbarie nazifascista, diceva che talvolta non si deve comprendere, perché
comprendere è quasi giustificare, perché comprendere un comportamento umano significa, anche
etimologicamente, contenerlo, contenerne l’autore, mettersi al suo posto, identificarsi con lui. Credo
che in questo senso le leggi razziali, oltre ad essere aberranti, siano incomprensibili.
Ma, proseguiva Primo Levi, se comprendere è impossibile, conoscere è necessario per capire quali
siano state le cause, perché ciò che è accaduto può ritornare.
Tuttavia, dobbiamo guardare avanti con fiducia. Nel dopoguerra, negli anni della rinascita dopo la
dittatura fascista, l’Assemblea Costituente è stata presieduta da un ebreo, Umberto Terracini, che
aveva pagato con anni di prigionia la sua opposizione al regime. E oggi alcuni deputati ebrei
siedono in questo Parlamento, rappresentando, con tutti i loro colleghi, l’intera nazione italiana.
Si tratta di conquiste fondamentali. E i vincitori di queste battaglie non sono soltanto gli ebrei, ma
tutto il popolo italiano.
Oggi il nostro paese sta attraversando un periodo storico nel quale si sono affermati e consolidati la
tutela ed il rispetto dei diritti umani fondamentali.
La nostra Costituzione Repubblicana costituisce un robusto telaio sul quale è stato tessuto un
sistema di norme che garantiscono la libertà, l’eguaglianza e la dignità di ciascuno di noi.
Ma non dobbiamo abbassare il livello di guardia; dobbiamo continuare a vigilare, perchè il germe
dell’odio e del razzismo non può essere mai considerato definitivamente sconfitto.
Le leggi antiebraiche di settanta anni fa appartengono al passato, ma costituiscono ancora oggi un
monito contro l’antisemitismo, contro il razzismo, contro il pregiudizio, contro l’indifferenza. Un
ricordo e un ammonimento di cui la società, ogni società, ha costantemente bisogno.
Renzo Gattegna – Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Sarfatti: “Antisemitismo e abolizione della democrazia andarono di pari passo”
Signor Presidente della Camera dei Deputati, Signor Presidente dell’Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane, autorità, onorevoli, amici, Onorevole Fini, La ringrazio di avermi proposto di ricordare la storia di quegli eventi e La ringrazio ancor più delle riflessioni con le quali ha aperto questo incontro.
Settanta anni or sono, il 14 dicembre 1938, in questa Istituzione, allora totalitariamente asservita
alla dittatura fascista e al dittatore Benito Mussolini, i deputati dapprima acclamarono – in piedi,
con vivissimi generali prolungati applausi – e poi votarono all’unanimità la conversione in legge dei
regi decreti-legge antiebraici varati nei mesi precedenti dal Consiglio dei ministri e recanti la firma
del re Vittorio Emanuele III di Savoia. Mussolini era presente alla seduta. Erano assenti i deputati
classificati “appartenenti alla razza ebraica”.
In quella stessa seduta del 14 dicembre 1938 la Camera dei deputati deliberò all’unanimità il
proprio scioglimento e l’istituzione di una Camera dei Fasci e delle Corporazioni, non più elettiva.
Vi fu quindi contemporaneità perfetta tra introduzione dell’antisemitismo di Stato e abolizione
dell’ultimo elemento di democrazia, ormai del tutto svuotato ma formalmente ancora esistente. E
anche in questa occasione tale contemporaneità non segnala casualità, bensì la profonda simbiosi
esistente tra vitalità della democrazia e vitalità della uguaglianza e della parità. Del resto Claudio
Treves, anch’egli membro di questa Camera fino all’esilio, sui propri giornali aveva tempestivamente annunciato il pericolo incombente, scrivendo nel dicembre 1923: “Quando trionfa il dispregio della Libertà, torna … il potere temporale e torna l’antisemitismo” e poi nel dicembre 1928: “La battaglia contro l’ebreo comincia fascisticamente in Italia. Logico del resto. La tolleranza ripugna al totalitarismo del sistema”. E nell’agosto 1919 il giornale dei Fasci di combattimento di Milano aveva descritto Treves con queste parole: “… faccia deforme, spalle sbilenche, occhio porcigno, voce chioccia, sorriso eternamente beffardo. Ebreo, è il tipo più idoneo per accentuare contro la sua razza la diffidenza e l’antipatia”.
Presentando ai suoi colleghi deputati il principale dei decreti-legge antiebraici, quello datato 17
novembre 1938 e intitolato Provvedimenti per la difesa della razza italiana, il relatore affermò: “la
nostra razza deve essere preservata da ogni e qualsiasi contagio che ne possa comunque menomare,
e dal lato fisiologico e dal lato psicologico, la sua essenza puramente ed esclusivamente italiana”.
Presentando il decreto-legge datato 15 novembre 1938 e intitolato Per la difesa della razza nella
scuola italiana, lo stesso relatore asserì: “si è provveduto ad eliminare in modo assoluto l’ebraismo
dalla scuola, onde lasciare a questa il suo profilo e la sua essenza esclusivamente italiani”. Il relatore (non importa qui precisarne il nome, dato l’unanime caldo consenso dei deputati alla legislazione antisemita) aveva bene espresso i due pilastri dell’azione antiebraica fascista nel 1938: disebraizzare e allo stesso tempo arianizzare la scuola, l’amministrazione pubblica, il corpo dei vigili del fuoco, le banche, le borse, le rivendite di tabacchi, il teatro alla Scala, i nomi delle vie cittadine, le società sportive, eccetera eccetera.
La persecuzione varata nel 1938 colpì i diritti dei cittadini ebrei, nel 1943 subentrò la terribile fase della persecuzione delle vite. Il mio Istituto, il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, conserva e divulga appunto la documentazione di ciò che accadde; così io ho potuto riunire l’intero corpus della legislazione antiebraica; Liliana Picciotto ha raccolto nel Libro della Memoria i nomi degli ebrei vittime del capitolo italiano della Shoah; Marcello Pezzetti pubblicherà a gennaio le memorie di quelli sopravvissuti. Le attuali ricerche del CDEC vertono principalmente sul tema degli italiani non ebrei che oggi definiamo “giusti”, ma i colpi della crisi economica stanno falciando ahimè lo sviluppo di quegli studi e lo stesso funzionamento dell’Istituto. Tra i pochi che si opposero alla marea montante dell’antisemitismo del 1938 vorrei menzionare il socialista deamicisiano Giulio Casalini, il cui mensile L’igiene e la vita fu più volte sequestrato e infine soppresso proprio perché incolpato di “atteggiamento antirazzista”; il liberale Benedetto Croce, che rifiutò di compilare un formulario di autoclassificazione “razziale”, sottraendosi – così affermò – “all’atto odioso e ridicolo insieme di protestare che non sono ebreo proprio quando questa gente è perseguitata”; il comunista Giuseppe Gaddi, esule in Francia, che scrisse: “Il giovane operaio o il giovane impiegato di Milano non può risolversi a considerare come un essere inferiore la piccola dattilografa milanese che dopo una visita alla sinagoga va a ballare con lui, come lo studente non può risolversi a considerare come una nullità il grande professore che lo ha educato e salutare invece come un grande scienziato il fascista che occupa la sua cattedra per il solo merito del ‘puro sangue ariano’ che scorre nelle sue vene”.
Signor Presidente, noi storici sappiamo che vi furono cittadini che si pronunciarono contro le leggi
antiebraiche e contro il razzismo, ricevendo ammonizioni e altri provvedimenti di polizia, ma dobbiamo tristemente dirci che non sono ancora stati studiati.
Gli ebrei d’Italia furono fortemente colpiti dai princîpi delle leggi prima ancora che dai loro contenuti. Oltreché essere antiumane, le teorizzazioni fasciste sull’esistenza di una razza italiana e sulla non appartenenza ad essa degli ebrei italiani, calpestavano lo spirito e il significato del processo risorgimentale e di quello emancipatorio, svoltisi in stretta e complessa simbiosi. Spirito e significato che bene si esplicitavano – per fare un solo esempio – nella “professione di fede” scritta nel 1911 da un ebreo italiano, capitano di artiglieria: “amare immensamente la mia Patria e desiderarla grande, forte, rispettata e temuta”. Ebbene, nel 1938 il re e i governanti di quella Patria espulsero dall’esercito quell’ufficiale, divenuto ormai generale. Suo figlio, rifugiatosi in quel 1938 in Inghilterra per studiare e lavorare, nel 1940, al momento dell’entrata d’Italia in guerra, si arruolò sotto la bandiera britannica e nel 1943 – prima ancora del 25 luglio – rientrò clandestinamente in Italia come operatore radio, fungendo poi da collegamento tra la Resistenza e i liberatori angloamericani.
E’ alla luce di tutto ciò che io sostengo che se mai la Patria può trovare la morte, ebbene ciò da noi avvenne nel 1938, quando gli italiani non ebrei Mussolini e Vittorio Emanuele III esclusero gli italiani ebrei dalle forze armate e dall’intera vita nazionale. E, proseguendo la riflessione, se mai la Patria può ritrovare la vita, ebbene ciò da noi accadde nel settembre 1943, quando le forze antifasciste accolsero da uguali gli italiani ebrei nel nuovo esercito nazionale costituto dalle bande partigiane.
Nel settembre 1923, commentando la riforma Gentile che imponeva il cattolicesimo a fondamento
dell’istruzione elementare, il rabbino capo di Roma Angelo Sacerdoti affermò: “E’ lecito ritenere che, fra non molti anni, agli Ebrei verrà ad essere precluso l’esercizio dell’insegnamento nelle pubbliche scuole”. Quindici anni più tardi il regime fascista concretizzò le previsioni di Treves e Sacerdoti. All’antigiudaismo cattolico si erano ormai intrecciati e poi sovrapposti l’antisemitismo nazionalista, quello cospirazionista, quello esoterico e infine quello razzistico-biologico. E fu quest’ultimo a contrassegnare le leggi persecutorie: ciascun italiano fu assegnato all’una o all’altra “razza” sulla base del “sangue” posseduto: uomini e donne erano solo pacchi postali sigillati trasportanti materiale genetico dalla generazione precedente alla successiva. Lo stesso tipo di razzismo era già applicato ai danni dei neri, mentre diverso come categoria ma simile come radicalità era il razzismo attuato contro gli slavi al confine orientale.
Le norme antiebraiche italiane non furono blande. E non furono disapplicate. Gli ambulanti ebrei che persistevano a vendere vennero multati o internati. Gli alti funzionari dello Stato ebrei furono dimessi. Dalla Fiat furono cacciati prima i dirigenti e poi gli operai. Nelle scuole non si accennò più al pensiero di Karl Marx e i cinematografi bandirono i film dei fratelli Marx. Nei manuali di preparazione ll’insegnamento elementare fu inserito un capitolo su razzismo e antisemitismo.
Anche in questo frangente il fascismo dimostrò – ahinoi – di non essere un regime-barzelletta, bensì
uno Stato-partito capace di dominio.
L’ingresso in guerra nel giugno 1940 impedì al fascismo di realizzare il suo obiettivo di espulsione di tutti gli ebrei dalla penisola; anche a causa di ciò la persecuzione venne aggravata. Dal settembre 1943 nell’Italia centrosettentrionale uomini aventi divisa tedesca o divisa italiana braccarono e arrestarono gli ebrei schedati, isolati e impoveriti. Chiunque fosse l’arrestatore, essi venero caricati su treni destinati principalmente al centro di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Mussolini sapeva e condivideva. Solo dopo molti mesi e dopo troppi morti le forze combattenti italiane e alleate poterono riportarci libertà, democrazia, uguaglianza. Quelle stesse di cui oggi godiamo.
Signor Presidente, Signori tutti, questo è ciò che accadde settanta anni or sono, questo è il nostro
passato collettivo. Da lì veniamo. Di esso dobbiamo essere consapevoli. Grazie per l’attenzione.
Michele Sarfatti – direttore della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea
Fiano: “Ricco di anni, prigioniero del passato”
Signor presidente, signori, signore.
<< Nedo, Nedo, abbracciami. Non ci vedremo mai più!>>. Queste le parole dilanianti che mi gridò
mamma singhiozzando. Le braccia tese appena discesa dal vagone della morte, sulla rampa del
campo di di sterminio di Auschwitz-Birkenau, dopo una settimana di sofferenza, di paura e di
sporcizia.
Ricordo ancora, distintamente, gli sbuffi di vapore della locomotiva, che ci aveva trascinato in
quell’inferno ed uno strano odore nell’aria. Per pochi istanti ci stringemmo in quell’apocalisse, con
un abbraccio fortissimo e disperato.
Ricordo che il volto di mamma, bagnato di lacrime, quei suoi occhi verdi verdissimi, sembrava
uscito da una doccia. Attorno a noi centinai di deportati, laceri e sporchi urlavano disperatamente
cercando i loro congiunti finiti chissà dove. Attorno gli SS ci divisero e mamma fu mandata con
tanti altri a morire nel forno crematorio numero due. Penso che dopo quattro o cinque ore le sue
ceneri furono rovesciate nella Vistola.
Io e mio padre fummo invece prescelti per l’impiego lavorativo, ma papà fu ucciso dopo circa due
mesi per le condizioni disumane del durissimo lavoro, in una cava di pietra. La mia atroce storia si
concluse poi con la liberazione, 11 mesi dopo nel campo di Buchenwald alla fine della guerra.
Dopo settant’anni, la lapide di cui abbiamo parlato, ricorda finalmente le famigerate leggi razziste
del 38 emanate dal fascismo, contro circa 40 mila cittadini italiani di fede ebraica, colpevoli di
credere in un Dio diverso. Quelle infami leggi, credetemi, furono un terremoto uno tsunami a causa
del quale il mondo ci crollò addosso e la nostra esistenza non fu più la stessa del passato.
Ricordo che appena tredicenne, mi trovai in quei giorni sconvolto, in presenza di una situazione
assolutamente diversa da quella in cui avevo vissuto. Fummo infatti messi tutti al bando, vituperati
e depredati. Nelle nostre famiglie scomparve la serenità e il sorriso di un tempo. Ci mancò
purtroppo la solidarietà di tanti amici e conoscenti, ci sentimmo soli in quel tempo sconvolgente e
perdemmo da una momento all’altro tutti insieme gli amici vicini e lontani.
Non avevamo quasi nessuno con cui dividere il nostro dolore, la nostra paura. Espulsi dal lavoro,
dalle scuole soli e braccati. Mamma cominciò rapidamente a incanutire e anche i suoi occhi
verdissimi avevano ormai una luce diversa.
Cacciati dalle scuole, dalle biblioteche, dal lavoro, dallo studio, dalle professioni privati del
telefono, della radio, requisite le nostre auto e moto, oggetto di insulti sulla stampa alla radio e
perfino in talune vetrine dei negozi fiorentini. Per strada non pochi ci tolsero il saluto, altri ci
salutavano freddamente. Pochi, veramente pochi, solidarizzarono con noi. E per 5 anni fummo
afflitti dal silenzio e dall’indifferenza dei molti, dei più. Finché il 16 ottobre 1943 alle prime luci del
mattino, cominciarono la caccia all’uomo nell’ex ghetto di Roma e furono trascinati via con violenza
dalle loro case circa 1000-1022 ebrei, caricati poi sui carri bestiame e mandati a morire per gas nel
campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau.
A fine guerra ne tornarono 16, seguirono mesi e mesi di violenze di arresti di deportazioni finché
tutta la mia famiglia di 10 persone fu catturata e mandata a morire. 8000 furono gli ebrei italiani
deportati in totale, “eravamo randagi in tutto” dice Pessoa. Persino nel nostro animo, ci sentivamo
al ponente di tutte le emozioni e la nostra vita ci pareva come una giornata di pioggia lenta, in cui
tutto e senza colore e in penombra.
Ci sentivamo terribilmente vicini al cuore della tristezza, avevamo freddo avevamo paura, avevamo
fame, eravamo rimasti abbandonati a noi stessi nella desolazione di sentirci vivere. Eravamo
maestri del nulla capaci di conservare un qualche equilibrio nel vuoto più totale. La verità ci
mancava, avevamo preso congedo da lei senza nemmeno volerlo.
Vedete, la mia commozione, a me trema il cuore, perché quel passato mi abita la mentre, mi fruga
nel corpo e spesso ritorno nel buio della notte in quell’inferno. Eravamo abitati dalla fame,
dall’orrore dei forni crematori, di cui se ne parla sempre fuggevolmente, e dall’odore della carne
umana che ad Auschwitz bruciava giorno e notte che invadeva il lager. Spesso il passato ritorna
ancora prepotente, aggressivo, palpabile, duro, assassino.
Per la prima volta nella storia si intendeva eliminare completamente un popolo dalla faccia della
terra. Gli ebrei erano colpevoli di esistere. Tornati miracolosamente da quelle tenebre e da quelle
fiamme, ci sentiamo impegnati a tutelare i valori fondamentali del nostro convivere felice, perché
l’uomo deve essere sacro all’uomo comunque e sempre.
Lo scorrere del tempo è impietoso. Guardarsi indietro, quando si allungano le ombre del passato
mischiare ambizioni, speranze, soddisfazioni, successi e insuccessi, significa giudicare anche se
stessi.
Sono ricco di anni e ancora prigioniero del passato. Credo ancora fortemente nell’uomo, ma voglio
essere la voce di chi non ha più voce e spesso ho una gran voglia di piangere, perché certe ferite
continuano ancora a sanguinare. Davanti alla lapide che vederemo, impegniamoci ad operare perché
il passato non vada perduto, ma venga consegnato alle nuove generazioni, affinché mai più
prevalgano il silenzio e l’oblio.
In questo mondo ancora preda un po’ dovunque di guerre, violenze, rivolte e persecuzioni,
dobbiamo tenere alti, sopra ogni cosa, i valori fondamentali dell’uomo alla libertà, alla dignità e alla
vita. “Oggi quando gran parte dei protagonisti degli scampati, e degli assassini di quel tempo
lontano sono scomparsi, il ricordo è il più concreto atto di giustizia che ci sia consentito”, come ha
detto Landsman.
Questo significa soprattutto non dimenticare, il passato non va perduto, bisogna farlo vivere, perché
niente possa essere dimenticato, perché niente possa essere perdonato, perché nessuno possa essere
perdonato se dimentica. Abbiamo la grave responsabilità di andare avanti.
Grazie.
Nedo Fiano – testimone, deportato nel campo di sterminio di Auschwitz
Brandizzi: “Noi giovani abbiamo il dovere di ricordare il razzismo”
Desidero ringraziare, insieme alla mia classe, la quarta C del Liceo artistico Ripetta di Roma, il
Presidente della Camera per averci invitato non solo ad ascoltare, ma anche a parlare della vergogna
del razzismo, qui nella sede del Parlamento italiano che è l’istituzione basilare della nostra
democrazia.
Perché abbiamo il dovere di ricordare il razzismo, che solo 70 anni fa nel nostro paese fu teorizzato
e legalizzato, con l’approvazione di specifiche leggi di discriminazione degli ebrei? Abbiamo il
dovere di ricordare, perché abbiamo appreso con stupore e con indignazione che c’è ancora chi nega
la realtà storica dell’olocausto.
Abbiamo il dovere di ricordare, perché il ripudio del razzismo è una condizione essenziale della
democrazia, che è fondata sull’uguaglianza e sulla pari dignità delle persone, e perciò sul valore di
tutte le diverse identità. Perché quelle leggi di 70 anni fa non furono una pagina isolata della nostra
storia, ma avallarono atteggiamenti razzisti presenti allora e purtroppo possibili ancora oggi nella
nostra società.
E perché il razzismo, se non se ne comprende l’immoralità, se è al contrario sorretto
dall’indifferenza, rappresenta una tentazione sempre ricorrente e un pericolo in grado di minare le
radici della nostra democrazia. Solo se ricorderemo e rifiuteremo questi orrori del passato, generati
dall’ignoranza, dalla stupidità, dalla paura e dall’odio per il diverso, potremo sperare in un futuro in
cui tutti gli esser umani possano vivere in pace nel mondo rispettando tutte le differenze, grazie alle
quali ciascun essere umano è un individuo diverso dagli altri, ma anche una persona uguale alle
altre.
Siamo qui perché nella nostra classe c’è stato un avvenimento abbastanza spiacevole: il nostro
professore di storia dell’arte, ha negato l’esistenza dell’Olocausto, ha negato questa realtà storica, e
sono stati presi provvedimenti in merito.
Zoe Brandizzi – studentessa del Liceo artistico Ripetta di Roma
Gattegna: “In quel periodo non ci fu la condanna aperta del nazismo”
«In quel periodo non ci fu una presa di posizione della Chiesa di aperta condanna del nazismo, di opposizione al genocidio degli ebrei. L’intervento di Gianfranco Fini conteneva una frase di constatazione che è difficile contestare». Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, si dice d’accordo con le parole usate dal presidente della Camera nel suo intervento.
Fini ha criticato la società italiana dell’epoca che non ebbe la forza di reagire e ha tirato in ballo anche la Chiesa cattolica. Perché le sue parole sollevano polemiche e fanno discutere? «Credo che queste polemiche siano inutili, siano il frutto di posizioni aprioristiche. Queste posizioni che non servono. Quello che serve piuttosto è un approfondimento di carattere storico sul molo avuto dalla Chiesa.
Devono ancora essere aperti degli archivi da cui possono emergere ulteriori elementi di verità: se si riuscisse a portare avanti gli studi sugli archivi si potrebbe forse arrivare ad avere una memoria condivisa. La ricerca storica deve essere approfondita, senza preconcetti e senza tesi precostituite».
Chi critica le parole del presidente della Camera sostiene che invece ci fu una condanna da parte della Chiesa e una reazione alla promulgazione delle leggi razziali. Quale è la sua opinione?
«La reazione all’antisemitismo avvenne a livello individuale. C’è stata un’opera di salvataggio degli ebrei da parte di singoli cattolici e le iniziative di alcune istituzioni, ma quello che non è mai stato pubblicato finora è un’esplicita e ufficiale condanna del nazismo e del genocidio da parte della Chiesa di allora». Renzo Gattegna
Paola Coppola, La Repubblica 17 dicembre 2008
Luzzatto: Se vuole provare il contrario il Vaticano tiri fuori le carte
«Invece di contestare le affermazioni, del tutto condivisibili, della terza carica dello Stato, il Vaticano farebbe meglio a rendere pubblici dei documenti che dimostrino il contrario. Ma se non l’hanno fatto fino ad oggi, dubito che lo faranno in futuro». A sostenerlo è una delle figure più autorevoli dell’ebraismo italiano: Amos Luzzatto, già presidente dell’unione delle comunità ebraiche italiane.
Professor Luzzatto, come valuta le affermazioni del presidente della Camera, Gianfranco Fini sull’adeguamento della Chiesa alle Leggi razziali?
«Nel merito condivido il giudizio formulato dal presidente della Camera. Quello dei silenzi e delle ambiguità della Chiesa sulle Leggi razziali, è un problema che personalmente ho sollevato più volte, ricordando in particolare che già all’uscita dei provvedimenti razziali emanati dal regime fascista, l’unica sostanziale espressione di condanna del Vaticano è stata rilevare che quei provvedimenti antisemiti erano un vulnus al Concordato, perché contrastavano la validità dei matrimoni religiosi fra ariani e non ariani. Altre proteste ufficiali, tranne la frase di Pio XI “siamo tutti spiritualmente semiti” non ne conosciamo. E questa è li premessa per il più duro e tragico silenzio durante lo sterminio. Mi lasci aggiungere che ritengo molto importante che questo severo e fondato, giudizio sull’atteggiamento reticente della Chiesa verso le Leggi razziali, sia stato formulato dalla terza carica dello Stato».
Resta la contrarietà della Santa Sede.
«Mi ascolti bene: il giorno che il Vaticano potesse o volesse produrre documenti che dimostrino il contrario da quanto ricordato da Fini, quel giorno sarei l’uomo più felice sulla terra. Ma se finora quei documenti non li hanno prodotti, temo proprio che non ce ne siano».
Insisto. Radio vaticana ha contestato come ccnon vere» leconsiderazioni dei presidente della Camera.
«Lo ribadisco: invece di gridare alle bugie, che tirino fuori documenti contrari. Non basta indignarsi. Si è detto che Pio Xl aveva fatto preparare una enciclica sull’unità del genere umano. Sta di fatto che quella enciclica non è mai stata pubblicata. E a proposito di silenzi, vorrei dire un’ultima cosa…».
Quale, professor Luzzatto?
«In una occasione così solenne come quella di oggi (ieri, ndr.) mi sarei atteso che a parlare fosse qualche personalità di primo piano della Santa Sede. Così non è stato, e di ciò me ne rammarico. Perché dimostra che quel vulnus non è venuto meno, 70 anni dopo».
U. De Giovannangeli, L’Unità 17 dicembre 2008
“Il regime si ispirò ad un opuscolo dei Gesuiti”
Negli anni a ridosso dell’emanazione delle leggi razziali, non furono le posizioni del papa Pio XI ma quelle contenute in un opuscolo dei Gesuiti del 1891, «ripescato politicamente e propagandisticamente dal regime fascista», a tracciare «le linee-guida per la soluzione della questione ebraica», così come la intese il fascismo con le sue leggi razziali. Lo si sottolinea nel volume “Codice breve del razzismo fascista – La «questione razziale»” di Nicola Magrone, magistrato e studioso di questioni costituzionali. Il volume (432 pagine, edizioni «Dall’interno-Sudcritica») costituisce un’analisi del «sistema istituzionale» che rese possibile l’emanazione delle leggi razziali e contiene la raccolta integrale e commentata delle leggi e delle circolari emesse dal regime fascista e dalla repubblica di Salò; si occupa anche delle leggi «riparatrici» dello Stato italiano, in gran parte non ancora del tutto attuate. L’opuscolo dei Gesuiti del 1891 si chiamava “Della questione giudaica in Europa” ed era stato pubblicato con tutte le autorizzazioni dell’autorità ecclesiastica: dal regime fascista fu riscoperto e fatto circolare ristampandolo a più riprese dal ’38 in poi. Nell’opuscolo – ripreso in quegli anni da Civiltà cattolica – si colgono a piene mani – scrive Magrone tra l’altro – il peggio del pregiudizio cattolico nei confronti degli ebrei e, insieme, le linee d’azione suggerite nella lotta al giudaismo, fatte sostanzialmente di inflessibile
condanna e di «aperture premiali» (in cambio della conversione)». Bisognerà attendere il Venerdì Santo del 1959 per «sorprendere» i fedeli: fu solo da allora infatti – scrive Magrone – che nella liturgia del giorno non si disse più «perfidi Judaei» ma solo «Judaei».
Gazzetta del Mezzogiorno – 17 dicembre 2008
Fini processa la Chiesa per le leggi razziali
[…] Secondo il professor Francesco Malgeri, docente di storia contemporanea alla Sapienza di Roma, si tratta di «un’affermazione eccessiva», Anzi, ricostruisce in un’intervista a Radio Vaticana, «le reazioni ci furono e furono immediate, basti pensare all’articolo sull’Osservatore Romano nel quale si denunciava un provvedimento che innanzitutto veniva a colpire il Concordato». Sottoposta alla
dittatura fascista, che con i Patti Lateranensi aveva sancito l’esclusione dei cattolici dalla vita pubblica, “la Chiesa cattolica, a suo modo, resistette come una forza debole quale era in una realtà di regime autoritario. E poi resistette durante l’occupazione tedesca con l’aiuto agli ebrei”, ricorda Andrea Riccardi, ordinario di Storia contemporanea a Roma Tre e fondatore della Comunità di Sant’Egidio. Però , dice, quello del presidente Fini è «un buon testo», tranne per il punto in cui accenna alla Chiesa perché “bisogna valutare le condizioni, le possibilità: la Chiesa del 1938, del 1943, non era la Chiesa di oggi”. […]
Andrea Morigi, Libero, 17 dicembre 2008
La “provocazione di Fini”
[…]Parole che calano come un macigno sul magmatico terreno del dibattito storicopolitico italiano, caldo ancora delle polemiche sul presunto silenzio di Pio XII sulla Shoah e della ferma presa di posizione delle gerarchie vaticane, Il cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano, dichiarava poche settimane fa che la discussione sul presunto silenzio di Pio XII, imputato di insensibilità di fronte alla
Shoah, è «strumentale, come indicano con chiarezza le sue origini radicate nella propaganda sovietica già durante la guerra, una propaganda poi travasata in quella comunista durante la guerra fredda e infine rilanciata dai suoi epigoni». Curioso che tra gli epigoni oggettivi di questa vulgata ci sia oggi i leader di An. […]
Riccardo Paradisi, Liberal, 17 dicembre 2008
Leggi razziali, la Chiesa reagì
[…]Le parole del presidente della Camera relative alla presunta correità della Chiesa hanno suscitato immediatamente numerose critiche di esperti. Ma Fini ha confermato il suo giudizio. «Alcune polemiche, ha ribadito durante la presentazione di un libro insieme a Walter Veltroni, sono fatte solo per il gusto di fare polemica, se dovessi riscrivere l’intervento che ho letto a Montecitorio in occasione dell’anniversario dell’approvazione delle leggi razziali lo riscriverei così come l’ho pronunciato». E per
giunta ha sostenuto che il convincimento da lui espresso gli «pareva addirittura banale», tanto che non credeva «di sollevare polemiche», in quanto nelle sue affermazioni si sarebbe riferito ad un documento del Vaticano del 2000 sulla Chiesa e gli errori del passato. Nonostante le critiche dei politici più documentati, anche Veltroni si è accodato alle considerazioni di Fini, qualificando le sue affermazioni
come «una verità storica, una verità palmare» su cui sarebbero incomprensibili le polemiche. «C’è qualcuno ha poi generalizzato il leader del Pd che può dire che nel 1938 abbia fatto tutto quello che poteva fare per evitare l’orrore delle leggi razziali?
La verità è che ci si è assuefatti». «Nessuno si senta offeso, ha insistito Veltroni azzardando – questo è un giudizio storico condiviso anche dagli storici della Chiesa.
L’orrore delle leggi razziali avrebbe meritato una rivolta che però non ci fu». Il presidente del Senato, Renato Schifani, infine ha ribadito «la condanna senza riserve» delle leggi razziali ma ha pronunciato parole stranamente ambigue sul merito delle accuse alla Chiesa fatte da Fini: «il mio ruolo limita la possibilità di addentrarmi in analisi di tipo politico e storiografico». Ha aggiunto che «molti e da diverse parti La replicaallora sbagliarono». […]
Pierluigi Fornari, L’Avvenire, 17 dicembre 2008
La Replica – Sale: ” Pio XI si batté in ogni modo”
[…] Così Agostino Giovagnoli, docente di Storia contemporanea all’Università Cattolica, commenta le dichiarazioni del presidente della Camera Gianfranco Fini, nel 70° anniversario della promulgazione delle leggi razziali, secondo il quale nemmeno la Chiesa le contrastò. «Il segno di dissenso da parte della Chiesa fu molto forte ricorda Giovagnoli, Pio XI fu volutamente aspro accusando gli italiani di seguire i tedeschi su una strada sbagliata». Memorabile, secondo lo storico, anche «la dura omelia contro le leggi razziali del cardinale Schuster, allora arcivescovo di Milano, su richiesta del Papa stesso». Il gesuita Giovanni Sale, storico della Civiltà Cattolica, ricorda poi la celeberrima enciclica Mit brennender Sorge del 14 marzo 1937, con cui Pio XI condannò «il nazionalismo esasperato e il culto della razza,
nonché le aberrazioni del nazismo e le dottrine anticristiane da esso sostenute».
Enciclica che denunciava, senza mezzi termini, le «rivelazioni arbitrarie che alcuni banditori moderni vorrebbero far derivare dal così detto mito del sangue e della razza», e minacciava l’ira divina contro «colui» che predicava o permetteva che fossero predicate tali aberranti dottrine. Il Papa, rinfresca la memoria padre Sale, durante un’udienza concessa agli operatori belgi delle radio cattoliche, nel settembre 1938, affermò che «l’antisemitismo è inammissibile. Noi disse siamo tutti spiritualmente se- miti». Qualche mese prima, il 29luglio, a Castelgandolfo, rivolgendosi agli alunni del Collegio romano di Propaganda Fide, aveva dichiarato in aperta polemica con il Manifesto della razza che «il genere umano non è che una sola e universale razza di uomini. Non c’è posto per delle razze speciali. La dignità umana consiste nel costituire una sola e grande famiglia, il genere umano, la razza umana.
Questo è il pensiero della Chiesa». Pio XI si impegnò «per bloccare innanzitutto l’emanazione della legge e non potendo ottenere questo, per ridurre al minimo gli effetti nocivi e discriminatori nei confronti degli ebrei, naturalmente dal pulito di vista diplomatico e nei limiti di ci che poteva fare. Alla fine fu sconfitto su tutta la linea e Mussolini ebbe la meglio. Però fu l’unico in quel tempo che si oppose con le sue forze e nell’ambito della sua competenza alle leggi razziali». Insomma, «quando Fini dice quello che ha detto sbaglia, evidentemente non conosce questa pagina di storia nazionale che vide contrapposti Pio XI e Mussolini». Da parte sua, chiosa infine il gesuita, «la Civiltà Cattolica, sempre su indicazione di Pio XI, contrastò con forza la teoria neopagana e anticristiana dell’antisemitismo razzista. E fu l’unica rivista italiana che si oppose, già nell’agosto 1938, alla legislazione razziale». […]
Andre a Galli, L’Avvenire, 17 dicembre 2008
l’Analisi
Il presidente della Camera ha ragione da vendere L’opinione pubblica non reagì a quell’orrore
Gianfranco Fini non è certo lontano dal vero quando afferma che la promulgazione delle leggi razziali non suscitò particolari reazioni nell’opinione pubblica. Infatti pur tenendo conto che sotto il regime dittatoriale le manifestazioni di protesta non erano consentite, sarebbe comunque esagerato sostenere che i provvedimenti antisemiti abbiano impressionato più di tanto gli italiani. D’altra parte a differenza della Polonia e della Germania in Italia non esisteva un «problema ebraico». Gli ebrei erano così pochi (meno di quarantamila su quarantaquattro milioni di abitanti), che la loro presenza non solo non era neppure avvertita ma molti ignoravano persino il significato della parola antisemitismo. C’è semmai da sottolineare che queste leggi provocarono molti gravi episodi di sciacallaggio. Molti speculatori acquistarono infatti a prezzi stracciati i beni che gli ebrei erano costretti a vendere. Mentre da parte
loro molti docenti universitari invece di solidarizzare con i 96 colleghi ebrei costretti a dimettersi, si affrettarono a spartirsi cinicamente le loro cattedre rimaste vacanti.
[…]
Arrigo Petacco, Quotidiano Nazionale, 17 dicembre 2008
a cura di Lucilla Efrati