Voci a confronto
Sul l’Unione informa di ieri abbiamo letto una interessante segnalazione di Alberto Cavaglion che mi sembra opportuno riprendere. Anche in questo caso, come in numerosi altri, abbiamo assistito a una palese ed esplicita manifestazione di antisemitismo che non ha ricevuto la minima attenzione da parte del giornalista che ha registrato l’episodio: non solo a caldo – come in fondo può succedere – ma neanche in seguito, nel corso delle riflessioni in studio, con Michele Santoro. Ed io mi chiedo: dare credito a chi ci assicura che sulle piazze della rivolta non ci sono estremisti di alcun genere, o affidarci alla nostra memoria storica e temere, molto presto, un mondo arabo/islamico “ripulit” anche degli ultimi rimasugli dei milioni di ebrei che per millenni lo avevano popolato, e reso completamente judenrein? L’ultima volta che ci siamo fidati degli ottimisti, tale fiducia ci è costata 6 milioni di morti.
Piero Ostellino firma oggi un articolo molto interessante per il Corriere: è necessario che sorga, nei paesi del medio oriente, una classe media che, sola, potrà portare ad una situazione di pace. Il paradosso della situazione è tuttavia che, se arrivano enormi masse in fuga in Europa, si potrebbe avere un passo avanti nella situazione a sud del Mediterraneo, e uno indietro a nord. Sarebbe il suicidio dell’Europa, intuito da Oriana Fallaci già nel 2001; chiediamoci almeno, oggi, se chi viene in Europa vuole dialogare con noi. Di grande interesse anche le parole di John Bolton pubblicate su Liberal: in Tunisia gli USA furono colti di sorpresa, in Egitto si mossero solo con tanta retorica, in Libia hanno scelto il silenzio. Bolton individua poi 4 grandi temi sui quali si dovrà discutere in America: l’intelligence è del tutto inadeguata, ed è anche colpita da una forte riduzione di fondi, i cittadini americani si sono ritrovati in una situazione di grande rischio come avvenne nel 79 (rivoluzione in Iran ndr), con tanti paesi in crisi gli USA sono incerti nella comprensione degli avvenimenti (in Egitto cambiarono 4 volte la loro posizione), e infine si mostrano impreparati di fronte a una eventuale, prossima crisi. Luigi Spinola scrive sul Riformista che Bob Gates, “ministro della difesa” USA, afferma che un intervento americano in Libia non corrisponderebbe agli interessi della superpotenza; ma, chiude Spinola, Medeleine Albright, in contrasto con le teorie politiche di Gates (e di Colin Powell) si chiedeva a che cosa possa servire avere uno splendido esercito se poi non si può usarlo.
La situazione in Libia rimane incerta, ed incerti sono anche i paesi occidentali che, al momento, non hanno scelto una linea da seguire. Gian Micalessin scrive sul Giornale che la Francia e la Gran Bretagna stanno spingendo per la imposizione di una no fly zone sulla Libia, e, mentre la Cina sembra aprire uno spiraglio a tale soluzione, Obama, che sente il rischio per la propria carriera all’avvicinarsi delle prossime elezioni, è il primo a non volerla. Un eventuale embargo sarebbe in gran parte inutile, come fu già nel 91, quando furono solo Cina e India, aggirandolo, che ne trassero vantaggi. Sul campo i ribelli, pur riforniti di armi, mancano di esperienza, e se gli aiuti americani dovessero arrivare transitando per l’Arabia Saudita, sarebbero gli integralisti, come successe in Afghanistan, a trarne profitto. In tale situazione, scrive Martha Nunziata su Liberal, l’Italia può solo inviare aiuti sanitari e vettovaglie, e, con l’ONU bloccata dal rischio veti, sembra che si potrebbe muovere solo la NATO (e con molte difficoltà). Su Repubblica Alberto Stabile firma un interessante articolo nel quale ricorda i duri contrasti che, nel corso degli anni, hanno opposto Gheddafi ai vari leaders arabi; le liti cominciarono già nel 70 con re Hussein che cercava di giustificarsi, dopo il settembre nero, di fronte alla Lega araba, e durarono con tutti gli altri leaders fino a quando cacciò Arafat dalla Libia; quando, anni dopo, il dittatore palestinese cercò un riavvicinamento e mandò dal Libano, per tentare una trattativa, l’imam Mussa Sadr, Gheddafi (e chi se non lui?) lo fece semplicemente sparire.
In questa situazione generale, scrive Roger Cohen su Repubblica, è bene non dimenticare che, solo tre mesi fa, Gheddafi veniva accolto alla London School of Economics col nome di “Fratello”; è ben vero che ora quel rettore si è dimesso, ma basta questo? E, scrive ancora Cohen, nel suo articolo intitolato, non a caso, “La primavera araba e l’inverno occidentale”, si deve ricordare che il vice-presidente USA Biden, lo scorso 27 gennaio dichiarava ancora che Mubarak “non è un dittatore”. Ma a Cohen, che giustamente accusa i paesi occidentali di aver flirtato per anni con questi dittatori per interesse, viene voglia di chiedere se non dovrebbe muovere la stessa accusa anche a tante testate, tra le quali quella per la quale scrive (Repubblica). Quanto poi alla fiducia che lui mostra di avere nei movimenti di lotta che stanno manifestandosi in Libia, dico apertamente che vorrei davvero potergli dare ragione, ma i fatti non me lo permettono. A dimostrazione di questa mia incapacità trovo, sulle stesse colonne, un articolo a firma Fr. Caf. nel quale si scrive che le donne (ahinoi poche) che hanno cercato di manifestare per l’8 marzo al Cairo sono state bloccate e non sono potute arrivare alla piazza Tahrir, impedite da quegli stessi uomini che esse stesse avevano sostenuto nei giorni scorsi. Non è questo un segnale importante sul quale dobbiamo riflettere tutti? Dimitri Buffa, su L’Opinione, scrive che, mentre Gheddafi sembra riprendere in mano la situazione, scendono in campo le spie: a Djerba il neo presidente tunisino ha riunito i propri servizi con quelli europei, e forse in Libia è arrivato il Mossad. Ma quale fiducia si può avere in certi servizi (lasciamo magari da parte il Mossad)? Il nostro generale Santini, ricorda Buffa, ancora il 3 febbraio affermava che in Libia non vi era pericolo alcuno di cambiamenti. Se questa è la realtà dei servizi italiani, quelli degli altri paesi occidentali non sembrano stare molto meglio.
Per venire alla situazione che maggiormente interessa Israele, sul Financial Times si legge un articolo di James Blitz che riprende le posizioni del ministro degli Esteri britannico Hague: bisogna aumentare le pressioni per giungere alla pace, perché la strada per arrivare ai due stati è sempre più stretta. Sostiene Hague che si devono fissare le condizioni per arrivare alla trattativa, e questo solo un mese dopo che l’Inghilterra (con la Francia) all’ONU aveva affermato di essere pronta a dichiarare illegali gli insediamenti, e mentre si accinge anche ad elevare a livello di missione diplomatica a Londra la delegazione palestinese. Matteo Bernabei firma su Rinascita un articolo dal titolo: “Le bugie di Lieberman su una pace impossibile”. Chi leggerà le sue parole troverà che è Israele che nel corso degli anni ha sempre frapposto ostacoli, è Lieberman che manipola l’opinione pubblica e afferma cose lontane dal vero, è Israele che nel 2006 (sic!) ha aggredito Gaza, oramai avviata alla normalità, sono solo i coloni che creano problemi nella West Bank, e la moratoria di 10 mesi era del tutto inutile. Le bugie che sono invece proprio di Rinascita comprendono ancora affermazioni quali: Israele opera in alcune zone del Libano meridionale come se fosse suo, e mantiene i palestinesi in povertà per evitare che si formi una classe media (l’esatto contrario di quanto affermato a più riprese dal ministro degli Esteri israeliano in questi giorni in Italia). Criticabile anche l’Herald Tribune che parla della prima partita di football nello stadio di Ramallah; scrive il giornalista Rob Hughes che il presidente del comitato olimpico palestinese è stato 17 anni nelle prigioni israeliane (come, ricorda, fu imprigionato Nelson Mandela in quelle sudafricane). Fatah vuole giocare, Hamas vuole la lotta, ma chi vuole la pace? I palestinesi, ovvio, non certo Israele, che pure dovrebbe prendere lezione dalla squadra Bnei Sakhuin, squadra di città a maggioranza araba, che ha un capitano arabo e che nel 2004, dopo aver vinto la coppa di Israele, entrò nelle competizioni europee. Ma non sono i palestinesi, piuttosto, a dover imparare da Israele, allora? Mah.
Anche in Iran ci sono brutte novità: le manifestazioni sono molto deboli e facilmente controllate da Ahmadinejad, e Rafsanjani, che aveva il diritto di nominare (e anche eventualmente di destituire) il successore del leader religioso, è stato sostituito dall’anziano Mohammed Reza Mahdavi Kani; tale notizia la si ritrova sul Messaggero, su una breve del Financial Times e nell’articolo di Vanna Vannuccini su Repubblica. Raccomando infine la lettura di Andrea Mancia che, sul Foglio, spiega la situazione delle università (e anche delle scuole superiori) americane che, a causa di una legge del ‘65, ricevono enormi contributi dall’Arabia Saudita e, in cambio, finiscono per sostenere le teorie del wahabismo. 100 miliardi di dollari sono arrivati in 35 anni, e Harvard è in testa tra gli istituti che ne hanno beneficiato (il Foglio ne fa un lungo elenco). Il risultato di questi finanziamenti è che si pubblica, anche coi soldi dei contribuenti americani, che gli attentatori dell’11/9 sono vittime del genocidio palestinese, e simili amenità. Chi poi beneficia di questi soldi sono anche certe persone chiamate ad esprimere le loro idee antioccidentali, da Noam Chomsky a Robert Fisk ed a Michael Lerner.
Emanuel Segre Amar
9 marzo 2011