I rossi, i bruni e i verdi

Tra i tanti messaggi che circolano in rete, e in particolare modo sui blog di una formazione politica le cui fortune sembrano essere in decisa ascesa, si può leggere quanto segue: “La partigianeria ci ha spacciato la Seconda guerra mondiale come un atto di forza razziale, come una pulizia etnica, seppure queste cose avvenute non era altro che un esproprio di ricchezze da parte dei socialisti tedeschi nei confronti degli ebrei che da sempre comandano il mondo con ricchezza, capacità e cinismo mescolato alla radicalità”. C’è un piccolo universo di significati in questo post: da una parte viene recuperata, e rinverdita a nuova gloria, la tradizione antisemita del nazionalsocialismo; dall’altro, si pongono le basi, quanto meno quelle linguistiche e semantiche, di una sorta di alleanza o, se si preferisce, di saldatura tra tre correnti divise su molte cose ma accomunate da un radicalismo estremo: la vecchia e nuova destra sociale, quella che da sempre cerca un insediamento popolare e lo trova grazie alla crisi economica, indicando nella lotta etnica e razzista il fondamento di una politica «antimondialista»; alcuni segmenti, peraltro crescenti, della sinistra postcomunista, quella però che storicamente si è sempre collocata in rotta di collisione con la tradizione del vecchio Pci e che ha maturato posizione classiste ma anche ribellistiche che oggi faticano a trovare riscontro nel mutamento delle società; il populismo islamista, che ha sostituito l’«andata al popolo» dei vecchi partiti di estrazione socialcomunista e, per l’appunto, populista, con una nuova ideologia che indica nel fondamentalismo religioso la chiave per la «liberazione degli oppressi». Nel mutamento globale che sta coinvolgendo, e in parte pregiudicando, assetti e alleanze consolidate, questo connubio può trovare molte occasioni di accreditamento. Soprattutto, nel suo costituire un nuovo vincolo tra soggetti molto assortiti, tendenzialmente anche in contrapposizione tra di loro ma uniti da un comune richiamo, quello che deriva dalla presunta consapevolezza che la radice della vera lotta, oggi, va cercata (e trovata) nella natura etnica del potere. I verdi islamisti, in tutte le loro declinazioni e osservanze, i rossi vetero e paleocomunisti e i bruni neonazisti, altrimenti impossibilitati a identificare il bandolo di una matassa complicatissima, quello della diseguaglianza planetaria e della mutevolezza delle egemonie politiche e culturali, trovano in una nuova edizione del «socialismo degli imbecilli» (August Bebel) lo strumento per interpretare la contemporaneità. Non basta dire che si tratta di vecchia storia poiché dinanzi al suo ripetersi, soprattutto nella trama cospirazionista, che rimanda ai «Protocolli dei Savi anziani di Sion», l’inquietudine non può che crescere. D’altro canto, ci troviamo dinanzi a quella che va considerata come una vera e propria tradizione, una contronarrazione del mondo che si perpetua da tante generazioni e che trova nella sua persistenza il vero elemento di forza. Ciò che fa dell’antisemitismo un arnese sempre valido è legato soprattutto a due elementi che lo connotano profondamente: permette di interpretare un mondo altrimenti complesso in maniera semplicistica, indicando un colpevole rispetto alle dinamiche che il mutamento mette in moto; istituisce dei legami di reciprocità – e quindi di solidarietà – tra quanti professano il medesimo convincimento. Gli antisemiti “si vogliono bene” perché hanno trovato una spiegazione univoca, oltreché unitaria, ai fatti della vita. Ciò facendo possono sentirsi a pieno titolo vittime, rispecchiandosi gli uni negli altri, e pertanto chiedere un risarcimento a quanti, gli ebrei, sono da essi indicati come la causa dei loro mali. Ciò che rischia in altro modo di essere illineare e incomprensibile, quindi fonte di angoscia, viene così esorcizzato con il classico capro espiatorio. Poiché con il secondo dopoguerra l’antisemitismo spicciolo ha perso legittimità, lo spostamento su un nuovo oggetto di rabbia, una figura collettiva qual è lo Stato d’Israele, ha permesso di mantenere immutate le vecchie avversioni rivestendole di nuovi significati, più presentabili. Pensare che questa dinamica, così come tutte le manifestazioni di pregiudizio, siano il frutto di mera ignoranza dei dati di fatto è tanto nobile quanto vano. In realtà qualsiasi forma di antisemitismo non nasce mai dalla non conoscenza ma piuttosto da un diverso tipo di sistemazione dei dati dell’esperienza sensibile, riorganizzati all’interno di un sistema ideologico che deve a tutti i costi garantire dei significati condivisi e uniformi. In altre parole, è semmai dalla vicinanza e dalla condivisione di momenti significativi che si alimenta, in questo caso, l’avversione. L’ebreo rappresenta l’ignoto della manipolazione, una sorta di alter-ego che dietro la parvenza del prevedibile e dell’accettabile raccoglie e coltiva qualcosa di celato e, quindi, di minaccioso. L’atteggiamento rigidamente e implacabilmente anti-israeliano si manifesta, allora, come la denuncia di quello che sarebbe il vero carattere dello Stato degli ebrei: dietro l’aspetto di una nazione tra le nazioni, la condotta “genocida” perpetrata contro i palestinesi costituirebbe l’avatar delle antiche, radicate pratiche omicide dell’ebraismo, quando i riti (misterici e iniziatici) si compivano con il ricorso al sangue dei gentili. Sui simbolismi, e i loro significati, di tali convincimenti, si è esercitata una letteratura che ne ha decrittato l’impianto (a partire da Furio Jesi con il suo testo fondamentale dedicato a «L’accusa del sangue: la macchina mitologica antisemita»). Rispetto a questa impalcatura, tanto robusta perché integralmente falsa, non c’è risposta razionale che regga. Si è infatti in presenza di una logica alternativa, per così dire, che si sorregge da sé, che resiste a qualsiasi verifica, che istituisce autonomamente quelli che diventano i criteri di un autoriscontro. Il punto che ci interessa ribadire è comunque la traslazione che si è verificata, in questi ultimi quarant’anni, quanto meno dalla guerra del Kippur in poi, di tali temi dall’avversione antiebraica a quella antisionista. In queste ultime settimane, se mai ce ne fosse stato il bisogno, si è avuto modo di verificare come tale fenomeno si sia definitivamente affermato nel senso comune. Per molti aspetti abbiamo riscontrato un ritorno al clima che si registrò nel 1982, durante l’operazione «Pace in Galilea». Ma non è solo la dirompenza di certe manifestazioni a colpire, quasi che la loro apparente estemporaneità coprisse invece un legame ideologico di lungo periodo. È piuttosto la diffusione del risentimento che fa pensare, poiché è certo che vi siano dei soggetti politici che si stanno candidando, in Europa ma anche forse in Italia, a capitalizzarne il ricorso e l’uso. L’antisemitismo, sotto le spoglie dell’antisionismo, può così divenire un rilevante strumento di aggregazione e di organizzazione del consenso tra collettività poste a disagio da quei mutamenti sociali, economici e anche civili che stanno attraversando le nostre comunità nazionali. L’Ungheria di Viktor Orbán ne è un esempio paradigmatico laddove, come peraltro in un caso da manuale, la fragilità di una democrazia che non ha ancora trovato il tempo di decollare si capovolge, esprimendo invece il suo repentino declino. C’è infatti un nesso diretto tra crisi delle democrazie sociali e ritorno dell’antisemitismo. Questo va identificato nel populismo fascistoide che da più di vent’anni si è sostituito a qualsiasi discussione, incapsulando e cristallizzando dentro il discorso sull’«identità» ogni reazione alle trasformazioni in atto. La recrudescenza dell’antisionismo, in quanto maschera “nobile” dell’antisemitismo, sta in questo frangente, di cui ne raccoglie lo spirito più radicale dandogli una forma compiuta. Va da sé che il concetto di populismo, o per meglio dire di nazionalpopulismo, ossia una ideologia che si rivolge al «popolo» ma dando di esso un’accezione antropologica, un significato etnico, sia qui da intendersi in chiave estensiva. Il nazionalpopulismo fascistoide si accredita nel momento in cui le crisi economiche prendono il sopravvento. C’è un nesso diretto tra l’uno e l’altra, perché storicamente la seconda ha alimentato il primo. Tradizionalmente il fascismo, prima ancora che regime, è stato un movimento su base etnicista che ha costruito le sue fortune alimentandosi delle difficoltà indotte dai profondi mutamenti degli assetti e degli equilibri di lungo periodo. I travagli economici e sociali, che stanno attraversano l’Europa, ai quali le leadership liberali sembrano incapaci di dare una risposta, aprono varchi in collettività poste sotto stress, da dove un gran numero di persone, senza rappresentanza politica, in quanto abbandonate a sé, diventano recettive a ideologie di mobilitazione dove la dimensione psicologica fa premio su qualsiasi altro ordine di considerazioni. Il quadro europeo, pur molto frastagliato, presenta purtroppo elementi di fragilità. Non è un caso se è proprio nei paesi che di più e peggio stanno subendo gli effetti della crisi si manifestino fenomeni di reviviscenza nazionalpopulista. La quale si interfaccia con i fondamentalismi religiosi che nell’area del mediterraneo e mediorientale hanno uno spazio sempre più ampio. Abbiamo esordito ricordando la saldatura culturale tra rosso-bruni e “verdi”, ossia gli islamisti. Non si tratta di una connection organizzativa ma di un comune sentire, che celebra il “fallimento” delle democrazie e la necessità, per così dire, di sostituirvi dei nuovi totalitarismi. Se volgiamo lo sguardo oltre i nostri ristretti orizzonti, se guardiamo ai fermenti che attraversano i paesi arabi, se osserviamo le involuzioni di alcuni paesi europei ma se, soprattutto, ci rivolgiamo con la dovuta attenzione alla marginalizzazione economica che sta coinvolgendo segmenti significativi delle nostre società, allora c’è di che pensare. La storia non si ferma mai e neanche si ripete ma ha indirizzi di fondo che, almeno sul medio periodo, possono confermarsi. Da ciò deve derivare non un allarmismo gratuito ma una viva attenzione agli innumerevoli trend socioculturali della nostra modernità di cui l’antisemitismo è un elemento, purtroppo, imprescindibile.

Claudio Vercelli