L’ambiguità che impensierisce
Oramai la questione è aperta e, se ne può stare certi, terrà banco per i tempi a venire. Come va considerato e sviluppato il tema dei rapporti tra le forze politiche che si sono recentemente affacciate sul proscenio elettorale, ed in particolare il Movimento cinque stelle, con l’ebraismo italiano? Non che il quesito abbia una sua ragione d’essere autonoma rispetto ad altri ordini di considerazione. Perché l’ebraismo – sia quello istituzionale, nelle sue diverse articolazioni, sia tanto più se inteso come l’insieme degli ebrei italiani, in quanto individui – non costituisce una forza politica organizzata, men che meno un insieme che possa essere considerato come un interlocutore partitico. Non almeno a stretto giro. Esistono al suo interno eterogeneità e varietà tali di posizioni da fare sì che non si dia in linea di principio una ipotesi di tal fatta. Non di meno, ed è certamente l’aspetto più importante, poiché in una società democratica e libera qual è la nostra è più che legittimo, se non indispensabile, del parlare di minoranze, se con esse si rimanda all’esistenza vitale di una ricchezza di storie e culture nel corpo della nazione, rimane il fatto che ognuna d’esse è ricomposta, nella preservazione delle sue specificità, all’interno di una comune cittadinanza repubblicana. Dove prevale non il principio di uniformità bensì quello di eguaglianza. Due concetti (con le correlative pratiche che ne derivano) infatti antitetici. L’uniformità presuppone l’appiattimento di ogni soggettività; l’eguaglianza demanda alla necessità che le differenze non costituiscano un muro invalicabile per quanti si trovano in una condizione di sfavore. L’ebraismo italiano, quindi, non è una forza politica, non esprime una posizione necessariamente unitaria, men che meno su un piano ideologico, non è un soggetto da intendersi come un gruppo organico di pressione. Su tale piano è soprattutto qualcosa d’altro, di difficile definizione; una definizione in se stessa aperta, coniugando le percezioni che si hanno di sé con quelle che chi, pur non essendone parte, va esprimendo. Si tratta della forza d’essere minoranza. Fino ad oggi, ossia dal dopoguerra in poi, pur con tutti i distinguo del caso, le forze politiche che si sono alternate al governo, così come in ruoli di rilievo nella gestione della cosa pubblica, hanno rinnovato quel patto di cittadinanza che è la garanzia unica, per le minoranze come per le stesse maggioranze, di non vedere compromesso il tessuto democratico. Con le drammatiche conseguenze che altrimenti ne deriverebbero se tale accordo venisse a mancare. Le minoranze sarebbero peraltro le prime a cadere. Per meglio dire, a precipitare nel vuoto. Per poi vedere seguire, a distanza ravvicinata, le stesse maggioranze. Di esempi ne abbiamo avuti molti, purtroppo, e anche in ragione di ciò seguiamo oggi con apprensione il destino di un paese che sta involvendo nella crisi delle sue istituzioni qual è l’Ungheria di Viktor Orbán, della Fidesz e dello Jobbik. Non è un caso, infatti, se l’antisemitismo lì sia riemerso come dottrina quotidiana, praticata non ai margini bensì all’interno di un discorso pubblico che si è fatto sempre più cupo e livoroso. È il discorso del risentimento che si finge rivincita. L’antisemitismo, nelle società moderne, è come un prisma che segnala la decadenza delle libertà comuni. Non si tratta quindi di un problema per i soli ebrei. Chiama in causa anche i non ebrei, laddove nella limitazione dei diritti, della specificità storica, dell’identità delle minoranze si riflette la compressione degli spazi di pensiero e azione dell’intera collettività. Detto questo, per rimanere ancorati alla concretezza del nostro paese, cosa pensare di una lista politica che predica il cento per cento dei consensi per sé come obiettivo politico primario? Cosa dire di un movimento che si presenta come una sorta di miscela tra palingenesi (rifacciamo tutto da capo, il resto è inutile o superato) e messianesimo (siamo i portatori di una verità che sta al di sopra di tutto e di tutti)? Come comportarsi verso chi dice – e lo conferma nei fatti, giorno dopo giorno – che ciò che occorre in Italia non è un radicale sforzo riformistico ma lo stravolgimento delle regole e la loro sostituzione con le logiche di nuovi poteri a venire, i cui tratti sono tutto fuorché chiari? Quale atteggiamento assumere dinanzi ad un esercizio di democrazia giacobina, che salta a piè pari ogni mediazione, ritenendola inutile, ed invitando i suoi elettori a praticare una presunta democrazia diretta, di taglio virtuale e informatico, dai contorni non meglio definiti? Quale pensiero nutrire verso chi si presenta come incorrotto e incorruttibile, dichiarando che quanto gli sta intorno, ma ad esso non si piega, sia di per sé da divellere come l’onda di piena fa indistintamente con ciò che gli si para dinanzi? Si tratta, a pieno titolo, di una forma di integralismo politico. Sulle sue aggettivazioni possiamo poi discutere. Così come qui si impone non la valutazione in un senso politico della bontà o meno di certe prese di posizione – cosa che compete ad ognuno di noi come elettori – bensì della forma mentale che ciò che si presenta come “nuovo” sulla scena politica va ostentatamente caldeggiando, diffondendolo come verbo tra la popolazione. Poiché il vero nocciolo non è il cercare di capire aprioristicamente quale sia il tasso, reale o ipotetico, concreto o immaginario, di antisemitismo che allignerebbe nella lista di Grillo e Casaleggio. Non bastano in questo caso i post dei social network per formulare un giudizio fondato. Di passata, ci si ricordi che tutte le formazioni democratiche, trascorse e presenti, hanno incorporato in sé alcuni aspetti molecolari, più o meno dichiarati, del discorso antisemitico. Trattandosi, quest’ultimo, di una ideologia mutevole ma persistente, presente non solo come teoria organica ma anche e soprattutto come parte del linguaggio di senso comune. La natura democratica dei partiti e delle rappresentanze politiche sta essenzialmente in questo: nell’incorporare e nel devitalizzare le spinte altrimenti eversive che l’antisemitismo, e i razzismi, portano con sé. Se tale compito viene svolto, allora il fatto che vi siano elettori che, nel dare il loro voto, lo possano motivare anche con un atteggiamento di insofferenza verso gli ebrei, ha scarso o nullo significato. Mentre invece si configura come ben altro se all’origine non c’è chiarezza in merito. E il vero limite da imputare alla Movimento cinque stelle è proprio questo: alla sua interna costituzione di struttura politica, dove fa premio su tutto un esasperato leaderismo cesaristico, si accompagna un’ambiguità di fondo sulla cruciale questione del rispetto del sistema dei rapporti tra maggioranze e minoranze. Ovvero del delicatissimo circuito di pesi e contrappesi che non sono un arcaismo del passato, un impedimento alla libera espressione degli “istinti vitali” della collettività, ma l’unica garanzia che la democrazia non si tramuti in qualcosa d’altro. La questione, richiamata più volte nei mesi scorsi, della mancanza di democrazia interna alla lista di Grillo e Casaleggio, è in tal senso una cartina di tornasole, ancorché risolta con palese fastidio dai suoi maggiori esponenti: si tratta di questioni di casa nostra – obiettano costoro – verso le quali non si ha voce se non come assenzienti a prescindere oppure in qualità di reprobi “traditori”. Quasi a volere dire che esisterebbe, in quel movimento politico come, più in generale, nella società italiana, non una mutevole volontà comune (articolata in una pluralità di posizioni), espressa sovranamente dal popolo, bensì un’unica volontà, di cui la lista, i suoi eletti e, soprattutto, il suo maggiore esponente si incaricherebbero di rendere rappresentanza esclusiva. Magari una volta per sempre. L’esasperato populismo che si richiama alla “gente”, intesa come massa indistinta alla ricerca di una qualche forma di protezione, è il vero nodo cruciale dentro il quale una democrazia affaticata come la nostra rischia di essere strozzata. Già lo si è detto in queste pagine ed ora lo si torna a ripetere. Perché lì c’è lo spazio di un antisemitismo che non sarebbe la pedissequa ripetizione di ciò che già è stato nella nostra storia ma la proposta di un qualcosa d’inedito che potrebbe prima o poi subentrare. Dalle poche parole espresse dal Movimento cinque stelle, per voce del suo massimo esponente, sembra emergere una sorta di insofferenza diffusa e sistematica verso ogni forma di critica a chi glielo fa notare. Con il rischio che il rigoroso rispetto verso le altrui prerogative, i suoi diritti inalienabili, possa tornare invece ad essere il prodotto della concessione, dall’alto, del “vincitore” verso i “vinti”, secondo gli umori del momento. I dubbi sono quindi leciti. Temo che cresceranno, purtroppo. Perché qui il terreno non è già più quello della Costituzione repubblicana. È un oltre. In che cosa possa consistere lo si vedrà di qui ai tempi a venire.
Claudio Vercelli
(24 marzo 2013)