Qui Roma – La grande ferita del 1982
Domani al Quirinale cerimonia solenne in memoria delle vittime del terrorismo. Nell’elenco tenuto dal Capo dello Stato potrebbe entrare da quest’anno anche il nome di Stefano Gay Taché. Un denso studio in uscita nelle librerie racconta il clima in cui fermentò l’attentato alla sinagoga del 9 ottobre 1982 che portò il terrorismo nel cuore della Capitale e in cui il piccolo Stefano perse la vita.
Due apprezzati storici dell’ebraismo italiano novecentesco: Arturo Marzano, fine studioso del sionismo in Italia (Una terra per rinascere, Marietti 2003), e Guri Schwarz, cui si deve il principale libro sugli ebrei nell’Italia repubblicana (Ritrovare se stessi, Laterza 2004), aprono con questo nuovo volume a quattro mani un importante capitolo della storia degli ebrei italiani negli ultimi decenni del secolo scorso. Fare la storia degli echi e risvolti italiani delle vicende mediorientali – tra fatti, percezioni, memorie, rappresentazioni, idealizzazioni e pregiudizi – è un modo per scrivere la storia degli ebrei in Italia dal 1967 alla prima Intifada (1987 e dintorni), per ragionare del peso della questione ebraica nella politica e nella cultura italiana nell’arco di due intensi decenni, per rileggere la storia d’Italia in anni segnati da svolte e fenomeni come, tra gli altri, il Sessantotto, il terrorismo di destra e di sinistra, la crescita e le trasformazioni dei ruoli dei grandi partiti della Sinistra (Pci e Psi). Questa è anche la storia di come le vicende mediorientali si spostano nel cuore stesso dell’Europa, colpendo tragicamente cittadini israeliani (Monaco 1972) ed ebrei diasporici (numerosi gli attentanti di quei primi anni Ottanta: da Berlino, a Parigi, a Vienna, fino alla morte del piccolo Taché e ai feriti di Roma 1982). La prima guerra del Libano, l’operazione “Pace in Galilea”, svelamento del vero volto della destra israeliana giunta al potere con Menachem Begin dopo decenni di leadership laburista, e le reazioni e gli echi europei e particolarmente italiani di quella tragica stagione in Medio Oriente, fanno cadere un tabu – come questo libro definitivamente accerta – attorno agli ebrei nel discorso pubblico italiano. Il cortocircuito che porta a identificare gli ebrei con la politica israeliana legittima il riemergere di antichi stereotipi antiebraici nella stampa quotidiana, di partito e non, a destra e forse maggiormente – e in modo solo parzialmente inatteso – a sinistra. Una sinistra che già a partire dalla guerra dei Sei giorni aveva in ogni caso ridefinito il proprio sostegno a Israele (su questo è da vedere anche il libro recente di Matteo Di Figlia, Israele e la Sinistra, Donzelli 2012). Con la guerra del Libano anche le comunità diasporiche iniziano a rimettere in discussione il proprio rapporto con lo Stato ebraico e nascono in modo più consistente e riconoscibile movimenti di critica come il celebre appello Perché Israele si ritiri (16 giugno 1982), firmato tra gli altri da Primo Levi e Natalia Ginzburg. Meno scosso appare l’ebraismo italiano di fronte alla prima Intifada alcuni anni più tardi: gli ebrei in Italia e nel mondo sembrano ora in alcuni segmenti maggiormente disposti a criticare Israele, molto meno a mettersi in relazione con il mondo palestinese in rivolta e – certamente nel mainstream delle comunità e delle loro istituzioni – a criticare quelli che lo storico israeliano Ze’ev Sternhell ha chiamato i “miti fondatori” di Israele (la subordinazione alla dimensione nazionalistica di ogni aspetto anche umanitario e universalistico del sionismo, incluso quello socialista). Lo Stato ebraico resta ancora oggi, del resto, per moltissimi ebrei italiani una “terra stillante latte e miele”, indipendentemente dall’evidente fallimento della sua leadership e dalle sue disastrose politiche degli ultimi anni, essenzialmente difensive e militari. Marzano e Schwarz – in un libro da leggere e discutere, su cui occorrerà ritornare con più attenzione – mostrano in ogni caso come Israele rappresenti un’inevitabile cartina di tornasole per studiare in genere il dibattito politico italiano ed europeo e certamente la presenza e il ruolo della questione ebraica che – almeno dai tempi dell’affare Dreyfus, nella Francia di fine Ottocento – costituisce, nei modi e nelle forme in cui è trattata e (per così dire) maltrattata, misura del tasso di tolleranza e democraticità delle società e opinioni pubbliche europee. “Israele” e “gli ebrei”, quindi, per parafrasare il filosofo Jean-François Lyotard, divengono misura della buona e della cattiva coscienza dell’Europa, com’è stato in chiave sia virtuosa che tragica soprattutto nel XX secolo. La domanda inevasa resta, d’altra parte, se gli ebrei siano, al di là di come l’Europa li vive e li rappresenta, li accoglie o li perseguita nel tempo, all’altezza di questo ruolo: se davvero possano costituire una vigile coscienza dell’Europa. Storicamente e periodicamente, anche oggi, penso si possa e si debba dubitarne: ma vale la pena, credo, continuare non dico a pretenderlo (sarebbe storicamente ingenuo) ma almeno a chiederselo.
Simon Levis Sullam
(9 maggio 2013)