25 aprile – 1945, la primavera della libertà

Schermata 2014-04-24 alle 13.56.50La primavera-estate del 1945 e il ritorno alla libertà. Sono appuntamenti sempre molto sentiti a Milano quelli in cui si ricorda la Liberazione dal nazifascismo, ogni anno celebrata in piazza da migliaia di persone. Quelle giornate, per alcuni, ebbero un sapore ancora più speciale: gli ebrei milanesi, che uscivano non soltanto dal buio della guerra, ma dall’incubo della persecuzione, delle leggi razziste, della deportazione, per ritrovare diritti e dignità. A condividere i loro ricordi sono per Pagine Ebraiche tre persone dalle storie diverse: Emanuele Cohenca, che durante la guerra rimase nascosto a Milano; Paola Sereni, che adolescente trovò rifugio in un paesino delle Marche, e poi trascorse l’inverno 1944-1945 a Roma prima di tornare nel capoluogo lombardo; Gustavo Latis, che riuscì a superare con il fratello la frontiera con la Svizzera e lì rimase fino alla Liberazione. Ma il rientro fu doloroso: suo cugino era infatti quel Giorgio Latis che fu uno degli ultimi partigiani uccisi negli scontri a Torino il 26 aprile, mentre la famiglia di Giorgio non fece mai ritorno da Auschwitz. Nei racconti, la gioia, l’emozione indicibile della consapevolezza di avercela fatta, traspaiono vibranti anche a tanti decenni di distanza, ma si sbiadiscono quando viene rievocata l’ansia per i propri cari di cui non si aveva notizia, e che in certi casi non sarebbero tornati. Fu in quei giorni, che si cominciò a prenderne atto.

(Nell’immagine, uno scatto risalente al 25 aprile 1945, in via Eupili con un soldato della brigata ebraica, pubblicata grazie all’accordo strategico fra Archivio fotografico della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea Milano e Archivio della redazione giornalistica UCEI)

Rossella Tercatin twitter @rtercatinmoked

Emanuele Cohenca: “La sirena all’alba e il mio Shabbat dei miracoli”

cohencaLa libertà suonò all’alba: una sirena prolungata alle 5 del mattino. Sono passati 69 anni da quei momenti, ma l’emozione rimane. A descriverla è Emanuele Cohenca, classe 1931, leader storico della Comunità ebraica di Milano, per tanti anni membro del Consiglio e attivo nel Tempio di via Guastalla. Nel rievocare quelle giornate il signor Cohenca ricorda alcuni momenti chiave, a partire dal quel segnale che li svegliò il 25 aprile, diverso da quelli che preannunciavano i bombardamenti. Poi l’incontro con il nonno, la preghiera sulle rovine della sinagoga distrutta e infine la vista dei carri armati con la Stella di Davide. A simboleggiare che l’incubo era davvero finito. “I nostri Maestri dicono che le cose non succedono per caso” sottolinea sorridendo Cohenca, mentre racconta cosa significò riacquistare la libertà “dopo venti mesi di terrore, braccati, in fuga tra diversi nascondigli, due volte sfuggiti alla cattura, una per pochi minuti, l’altra per pochi metri. E soprattutto per una serie di incredibili coincidenze”. Con i genitori e la sorella Lina, Emanuele era nascosto a Milano e dunque ricorda ora per ora cosa accadde nel capoluogo lombardo. “Abitavamo in via Mercadante, zona Corso Buenos Aires. Il 24 aprile avevano saputo dalla radio che gli alleati avevano sfondato le linee tedesche. Milano era in sciopero e il clima surreale, i mezzi pubblici erano fermi, le fabbriche, i negozi chiusi, tutti sbarrati in casa. Così eravamo andati a letto. Alle 5, la sirena”. Qualche ora più tardi, in quella che è oggi una delle vie dello shopping, i Cohenca vedono passare le prime camionette partigiane con le bandiere. “Ma facevano segno a tutti di stare a casa con le finestre chiuse, c’era paura dei cecchini. Poi arrivarono i ragazzi che distribuivano i giornali ex clandestini. E tuttavia rimaneva il timore che i tedeschi potessero infliggere un ultimo colpo di coda”. Piccoli dettagli di ore ancora convulse “Tenevamo la vasca da bagno piena d’acqua e con i miei risparmi avevo comprato candele e fiammiferi. Ricordo anche la sensazione che provai passando davanti a una caserma della Wehrmacht, vedendo la sentinella di guardia che se ne stava lì disarmata. Nonostante tutto non la odiai”. Poi ci fu la grande gioia di riabbracciare il nonno, nascosto a Varese, e un giro speciale per la città in carrozza, con l’anziano Aristide in piedi a cassetta, che annunciava con orgoglio “Fate largo che passa Mordekhay” (nome del padre di Emanuele), il titolo che il signor Cohenca ha scelto per il libro in cui condivide la sua testimonianza sugli anni della guerra. La famiglia sapeva che la sinagoga di via Guastalla era stata distrutta da una bomba. Eppure, sabato 28 aprile, il cuore li chiama laggiù sulle macerie. Non sono i soli: nella devastazione, altri ebrei si ritrovano, e in numero sufficiente per recitare la preghiera completa dello Shabbat. Un ultimo episodio non può essere omesso nel racconto di Emanuele sulla primavera‐estate più bella, fatta del tornare a riappropriarsi della casa che era stata occupata da altri, del riprendere gli studi a ritmo record, per dare gli esami di terza media e poi quelli di ammissione alla seconda superiore (“E passai con la media dell’8,8!”), della possibilità di celebrare, finalmente il Bar‐mitzvah. “Il 29 aprile mentre eravamo per strada, improvvisamente la folla si mise a correre in direzione di Piazza Cinque Giornate. Si vociferava che gli Alleati stessero entrando in città. Li seguimmo. E ci ritrovammo davanti a carri armati con la Stella di Davide. Dalla svastica alla Stella di Davide” racconta con un nodo in gola. “Gridavamo ‘shalom, shalom’. La gioia, l’emozione che provammo in quel momento, furono tali da compensare tutta la paura e le sofferenze”.

“Fu la festa delle campane” Il racconto di Paola Sereni

sereniCampane, rintocchi festanti da ogni luogo. Paola Sereni, indimenticabile preside della Scuola ebraica di Milano, dove ha insegnato 35 anni, ne aveva 17 quando le note della libertà spezzarono la quiete della campagna dove si era rifugiata. La famiglia Sereni era lontana da capoluogo lombardo quando per Paola, i genitori e i fratelli la guerra finì, con quasi un anno d’anticipo rispetto al Nord Italia. “Ci eravamo nascosti in un piccolo centro delle Marche, Montottone, dove ci fingevamo semplici sfollati, con l’aiuto di una famiglia di laggiù, Giuseppe e Lucia Breccia, insieme ai loro figli – ricorda la professoressa – L’inverno 1943‐1944 era trascorso abbastanza serenamente. Avevamo anche fatto amicizia con i ragazzini. Poi i partigiani della zona fecero un’azione contro i tedeschi e loro decisero di colpire il paese per rappresaglia. Solo per miracolo non si trasformò in un’altra Marzabotto: i nazisti avevano già ucciso diverse persone, quando le suppliche del parroco riuscirono a dissuaderli dal proseguire”. Il padre e i fratelli di Paola, che come uomini rischiavano di più, nel frattempo erano rimasti nascosti in una stanza segreta. Poi le due famiglie, dieci persone, decisero che non era più sicuro stare in paese e si rifugiarono in un casolare in campagna, isolati dal mondo. “Eravamo lì da diversi giorni, non c’era luce, non c’era radio. Sapevamo che gli alleati stavano arrivando, ma non quanto ci avrebbero impiegato. E poi all’improvviso, il suono delle campane a festa, da ogni singola Chiesa del circondario. Impazzimmo di gioia, ci furono baci, abbracci, congratulazioni” ricorda, con commozione. “Bisogna esserci passati, per capire cosa significhi vivere un momento del genere”. Come spesso accade la grande Storia si intrecciò alle storie delle persone: il fratello più piccolo di Paola scappa per andare incontro all’esercito liberatore e in famiglia sale l’ansia. “Passammo quelle ore in trepidazione, non sapevamo cosa gli fosse accaduto”. Ma tutto va bene, e in estate i Sereni si trasferiscono a Fermo. “Furono mesi meravigliosi. Noi ragazzi studiavamo per dare gli esami necessari a rientrare a scuola, ma finalmente eravamo liberi, di andare in giro, di fare amicizia, di essere come gli altri. Una banda di giovani felici e spensierati, che per raggiungere il mare, si arrampicava per un passaggio sulle camionette dell’esercito alleato. C’era un’unica ombra: l’angoscia di non sapere cosa fosse accaduto a tutti i nostri cari rimasti al nord”. L’anno successivo, i Sereni lo trascorrono a Roma, dove i ragazzi frequentano la scuola. Poi nell’estate del ’45, il rientro a Milano, con un viaggio faticoso in un’Italia distrutta. Fra la gioia di ritrovare chi ce l’aveva fatta e la presa di coscienza di ciò che era accaduto.

“Quella città da ricostruire” L’impegno di Gustavo Latis

latisCon il fratello Vito è stato uno dei protagonisti della ricostruzione della Milano devastata dalla guerra e animatore, a partire dal 1946, dell’Associazione libera studenti architetti che collabora con personaggi come Bruno Zevi, Gillo Dorfles, Giulia Veronesi. Gustavo Latis, 94 anni, ricorda la Liberazione soprattutto come il ritorno alla normalità. Espulso dal Liceo Parini l’anno della maturità dopo la promulgazione delle Leggi razziste, l’architetto racconta che, in fondo, lui fu fortunato. “Mi presero a lavorare come allievo scenografo alla Scala, in nero naturalmente, e poi con mio fratello Vito e mia sorella Marta creammo una compagnia di marionette. Ricordo quando mettemmo in scena una riduzione del Canto di Natale di Charles Dickens…”. Tra i protagonisti del progetto nomi come Giorgio Strehler e Franca Valeri. Autore dell’opera era il cugino di Gustavo, Giorgio, suo coetaneo. Un nome che si intreccia inesorabilmente ai ricordi legati alla Liberazione. Unitosi ai partigiani, Giorgio fu ucciso negli ultimissimi scontri con i nazifascisti a Torino, fra il 25 e il 26 aprile del 1945, medaglia d’argento al valor militare alla memoria. I suoi genitori e sua sorella erano stati respinti alla frontiera dai gendarmi svizzeri e furono deportati ad Auschwitz, dove morirono. “Solo per miracolo a me non accadde lo stesso – racconta Gustavo – Io e mio fratello Mario oltrepassammo il confine, ma le guardie volevamo rimandarci indietro. Mario si impuntò, disse che lui da lì non si muoveva, che avrebbero dovuto portarci via di peso. Fecero qualche telefonata, e alla fine ci consentirono di passare”. In Svizzera Gustavo fa il bracciante agricolo. Qualche settimana dopo la Liberazione, rientra nella Milano semidistrutta e ha fretta di mettersi al lavoro. “Mi iscrissi ad Architettura al Politecnico e il primo anno diedi 19 esami. Mi laureai in due anni e mezzo. Intanto lavoravo con mio fratello Vito che era già architetto avviato. L’atmosfera in un certo senso era gioiosa, c’era tanto lavoro, tanta speranza”. Via Manzoni, via Boccaccio, via Tibaldi, via De Amicis… sono tanti i palazzi che i Latis ricostruiscono. A decenni di distanza, Gustavo non ha dubbi. “Milano è una bella città” sottolinea, esprimendo però le sue riserve sulla moda di costruire grattacieli “Sono costosi, è difficile la manutenzione, e non hanno il giusto rapporto con la natura”. A raccogliere il testimone dell’impegno del padre per la città, sono i sei figli. Uno di loro si chiama Giorgio.

Italia ebraica, maggio 2014

(24 aprile 2014)