melamed, film – La mia vita da zucchina

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Tutti sanno cosa è un dolore. Da adulti accade di provarlo. Per una persona che scompare, per un amore non ricambiato, per una delusione o più spesso per un abbandono. Sono dolori a volte indelebili. Poi ci sono i dolori provati da bambini. Non tutti li ricordano; o meglio: da adulti preferiamo scordarli. Una volta diventati grandi è difficile rammentare davvero i dolori lancinanti che abbiamo provato da bambini, quei dolori sottili come lame che ci lasciavano esterrefatti, attoniti, smarriti. Dolori di un’intensità mai più provata. A volte duravano poco, o non troppo a lungo, perché anche da bambini si dimentica presto, o si vuol dimenticare, dato c’è tutta la vita davanti, o almeno così si pensa da un certo punto in poi. In verità, si sperava allora di diventare grandi e di dimenticare. 
Tutto quel groviglio di emozioni, ricordi, paure, mi assale appena mi siedo al cinema e cominciano a scorrere le immagini di un bambino che fa volare un aquilone fuori dalla finestra della sua mansarda. Tutto questo io l’ho già visto, anche se non ho mai visto questo film. Ha la testa tonda, due grandi occhi che sporgono dal viso; i suoi capelli sono blu. Si tratta di un lungometraggio d’animazione intitolato La mia vita da zucchina, opera di Claude Barras, ancora nelle sale. Un film straordinario. Quello che colpisce è la forma stessa dei personaggi: sono dei pupazzi di plastilina filmati con tecnica stop-motion, ovvero fotogramma per fotogramma. Questo dà ai protagonisti del film un’aura incantata. Tutto è rallentato, eppure tutto è in movimento, così che le parole che pronunciano i protagonisti hanno il tempo di scivolare dentro l’orecchio degli spettatori e di arrivare ai loro cuori. Sembra quasi impossibile che un film girato in questo modo possieda una raffinatezza nei gesti e una fluidità nei movimenti. Eppure è così. L’effetto deriva dalla combinazione di parole e forma. 
Icare, il protagonista, un ragazzino dai capelli azzurri, quello che fa volare l’aquilone nella prima scena, è quasi inespressivo, catatonico. Nella sua fissità sono gli occhi a palla, con quel bianco intorno alle pupille, a fornirgli espressività, insieme alle parole. Ha disegnato sull’aquilone il ritratto di un uomo e quello di una gallina. Come spiegherà poco dopo, si tratta di suo padre e di una delle “pollastrelle” – termine francese che sta per prostitute – dietro cui il genitore correva – questo dice la madre di Icare. Ha corso tanto che alla fine se n’è andato. Mentre Icare se ne sta in soffitta a far volare il suo aquilone, la madre è seduta in poltrona davanti alla televisione. Parla al telefono con un uomo, cui rinfaccia di non amarla più. Beve lattine di birra che s’accumulano sul pavimento. Le stesse lattine che Icare ha impilato in soffitta per realizzare una sorta di torre. Disperata e rabbiosa, la madre, dopo l’ennesima conversazione con l’uomo, sale lungo la scala dopo che Icare ha fatto cadere una lattina vuota verso il basso. Sale per picchiarlo. A questo punto apprendiamo che Icare è chiamato dalla madre Zucchina, come dire testa vuota, ma che è anche un epiteto con un preciso valore affettivo, o almeno così suona alle nostre orecchie, come a dire: patatina, cipollina, carotina. La madre è molto arrabbiata e anche alticcia. Icare provoca la chiusura della botola della soffitta, e la madre cade all’indietro. Nella scena seguente Icare è seduto davanti a un poliziotto con baffi che batte sul computer il verbale dell’interrogatorio. Una stanza spoglia, con quel ticchettio che è quasi il rumore dell’indifferenza, e la bacheca vuota alle spalle dell’agente con alcuni post-it appesi. Lo squallore della stanza è quasi insopportabile. La madre è morta e ora Icare è solo al mondo. 
L’inizio è fulminante. Sprofondo nella poltrona cercando riparo da quel dolore che comincia a filtrare dallo schermo e incolla tutti gli spettatori in sala. Tratteniamo tutti il fiato. Come andrà a finire? Ora sappiamo che Zucchina è il nome con cui Icare vuol essere chiamato. Il suo stigma. La forma del suo dolore e insieme della sua identità. L’unico segno tangibile dell’amore materno. Un amore frainteso, ma che non lo abbandona mai, e ne forma l’identità interiore. Al poliziotto Icare-Zucchina ha detto che la madre beveva, ma faceva anche un purè molto buono: basta per salvarla, anche se cattiva e manesca. Barras, l’autore del film, è un disegnatore di fumetti; si è già cimentato con la realizzazione di alcuni corti. Lo coadiuva in questo dolente lungometraggio la regista Céline Sciamma. È lei l’autrice dei dialoghi: scarni, essenziali, efficaci. Sono le parole dette dai personaggi, unite all’altrettanto essenzialità delle scenografie, a rendere plausibile questa fiaba per adulti – ma anche per bambini: ce ne sono diversi in sala, attentissimi. 
La macchina del poliziotto su cui sale Zucchina diretta all’orfanotrofio – in realtà è una casa-famiglia, la versione contemporanea degli orfanotrofi di Dickens – è stilizzata: angoli acuti, automobilina giocattolo abitata dai due pupazzi. Icare durante il trasferimento tiene in mano il filo dell’aquilone che volteggia dietro l’auto, mentre l’agente guida. Malinconia a zaffate. Difficile resistere. La scenografia è appena accennata là sullo sfondo. Sembra un disegno da bambini. Sono così anche i personaggi: possiedono qualcosa d’infantile, sono la realizzazione tridimensionale di uno schizzo di bambino. Gli occhi rotondi, poi i capelli, tutto possiede qualcosa di soffice, paffuto, ma anche di solido. Sono pupazzi con cui abbiamo giocato tanto tempo fa, e si muovono come persone vere. O almeno così mi pare. 
Il poliziotto lo introduce nella casa-famiglia. Qui Zucchina trova altri bambini come lui. Tutte storie dolorose: pedofilia, abbandono, madri rimpatriate, padri assassini o ladri, genitori drogati. Un campionario d’infanzie drammatiche. Sono anche dei piccoli carcerati, dei deportati in questa casetta, che sembra quella delle bambole, e che ha una forma che conosciamo già. La direttrice con quegli occhiali rovesciati, la sala mensa, le camere da letto, il cortile, la direzione. Qualcosa che ho già visto, o immaginato o forse sognato. Tutto sa di caffelatte e minestrone. Non è un carcere, ma è ugualmente un luogo di dolore. Non lo infliggono gli adulti – nessun “cattivo” tra gli istitutori, anzi. Ci sono un maestro decisamente simpatico, che insegna la storia degli uomini primitivi, e una assistente molto carina. Sono piuttosto i rapporti tra i bambini a creare quella sensazione carceraria. Uno dei bambini, un maschietto con i genitori tossicodipendenti, è il boss della combriccola. Poi ci sono altre piccole vite disgraziate, tutte commoventi.
Dopo un po’ che guardo il film – le azioni sono lente e abbastanza lunghe, il contrario di altri film in circolazione, come Oceania –, mi rendo conto che sono proprio gli occhioni ad attrarmi. Non è un caso. Oggi i pupazzi che vanno per la maggiore, tutti animali, hanno gli occhi molto grandi: suscitano tenerezza, invitano all’empatia. John Berger, che se ne andato da poco, l’ha spiegato benissimo in un suo libro sugli animali: antropomorfismo e antropocentrismo.
La commozione è al culmine quando arriva Camille, una bambina che ha assistito all’omicidio della madre da parte del padre, che l’ha uccisa insieme all’amante e si è poi suicidato. La porta lì la zia. Questa sì cattiva. Somiglia a una sessantottina malvissuta. O forse no. Sono solo io che la vedo così, probabilmente. È lei la vera malvagia del film. Oggi Crudelia De Mon è così: pittata e truccata in viso, gonna corta, modi sommari, volgare. Zucchina s’innamora di Camille. Dopo un po’ capiamo che è ricambiato. Lui è sdolcinato e sentimentale, lei più contenuta. Il dolore dell’inizio si stempera pian piano. Certo il senso di doloroso abbandono dell’inizio non lascia mai lo spettatore. Lo tiene all’amo per gran parte del film. Comincio a sperare in un happy end. Ce lo meritiamo. 
Ci hanno fatto anche ridere, Barras e Sciamma, parlando di sesso visto dai ragazzini. Passaggio delicatissimo durante una gita sulla neve. Il maestro e l’assistente si amano. E dopo poco lei aspetta un figlio. Non vado avanti nel raccontare la storia; non va bene, svelerei troppo. Dico solo questo: il finale è dolce-amaro. Anche qui ci sono i sommersi e i salvati. Ma l’amore vince sempre, basta saperlo miscelare con la malinconia. L’amore malinconico è il massimo, anche se lascia aperta la strada ai dolori lancinanti, ma ne è anche il rimedio, in qualche modo. 
Per girare questo film che conosce momenti di esilarante comicità – anche questa malinconica –, che fa ridere i bambini in sala, sono occorsi otto mesi di riprese. Per ottenere, dice la scheda del film, quattro secondi di film al giorno, hanno utilizzato 62 scenografie, 53 marionette di cui 9 solo per Icare-Zucchina. Poi altri sei mesi di postproduzione. Una pazienza infinita. Per questo il film dura un’ora. Ma sembra molto di più: almeno il doppio. Non perdetelo, non solo perché è bellissimo dal punto di vista estetico – dettagli curatissimi – ma perché è un modo per ritornare di colpo a quel periodo lontano, remoto, in cui eravamo bambini. Anche se non si smette neppure un momento di essere adulti guadandolo – come potrebbe essere altrimenti? –, ci sono attimi in cui la lama sottile del dolore s’infila tra costola e costola, una fitta alla stomaco, un dolore nel petto. Momenti. Poi si torna adulti, ma per sessanta minuti, o poco più, si è andati e venuti da là, dalla Terra di Nessuno – l’Isola-che-non-c’è, l’hanno chiamata.
Aggiungo un’informazione: il film, che è stato presentato all’ultimo Festival di Cannes (sezione Quinzaine des Réalisateurs), nasce da un libro di Gilles Paris, Autobiographie d’une courgette, in italiano pubblicato da Piemme. Ne era già stato tratto un film con attori in carne e ossa nel 2007, diretto da Luc Béraud. Barras ha cambiato la trama in vari punti traendone un capolavoro di poesia: l’abbandono raccontato con la plastilina. 

Marco Belpoliti, doppiozero.com

(13 gennaio 2017)