melamed, lettera dei 600 – La lingua della vita

lettera 600
Il dibattito di questi giorni sullo stato della competenze linguistiche degli studenti universitari e sulla messa in stato di accusa della scuola italiana è l’occasione per ragionare insieme a Marco Rossi Doria, insegnante ed esperto di politiche educative e sociali e già sottosegretario all’Istruzione, sullo stato della questione ed è anche un modo per riprendere temi e problemi già affrontati da Doppiozero.
La “lettera dei 600” docenti universitari e intellettuali sulla crisi della formazione degli studenti italiani ha avuto una vasta eco. Mi sembra che non aggiunga nulla di nuovo in termini di analisi e piuttosto si concentri sulle responsabilità della scuola, in modo perfino poco intellettualmente onesto. La mia impressione è che manchi una riflessione più ampia sulla società e su come questa, nelle altre sue agenzie di socializzazione, abbia abdicato al ruolo educativo. Ne risulta in questo modo un’accusa molto giudicante che si rovescia sulla sola scuola e sugli insegnanti…

Vorrei non parlare dei toni della lettera dei 600 alla quale ho risposto su Repubblica dell’8 febbraio invitando a un lavoro comune che ha bisogno di responsabilità condivise, molto larghe.
Anche perché, dopo la lettera dei 600, si è visto un levarsi di posizioni responsabili e propositive su come affrontare quella che De Mauro chiamava la de-alfabetizzazione degli italiani, da parte della Società di linguistica italiana, dalla professoressa Lo Duca e tanti e tante che hanno firmato il suo appello.
Esprimo, invece, una vera preoccupazione per le ripetute manifestazioni, in ogni campo, di una a-responsabilità di una parte troppo estesa delle nostre classi dirigenti rispetto a compiti enormi e che necessitano, con tutta evidenza, non di accuse ma di esame e proposte comuni. Un problema molto serio del Paese. Forse è questione che nasce da lontano. Penso alle parole di Leopardi sul “carattere degli italiani”, penso a quanto, lungo i secoli, possa avere pesato il Concilio di Trento. Ma, al di là della genesi antica e del ripresentarsi sulla scena nazionale di questa questione, la capacità di assumere responsabilità e compiti comuni è, in Italia, esercizio di minoranze, anche larghe, competenti, serissime ma messe continuamente da parte, in pericolo, ai margini. È continuamente sotto attacco, più che in altri paesi, la competenza umana di esaminare le responsabilità in modo pacato, serio, aperto, accettando che si è sempre parte di un medesimo campo di indagine e di auspicabile azione positiva. Attenzione: sono cose indispensabili alla coesione di una comunità nonché alla crescita economica, educativa, sociale, politica, civile, etc. Prevale lo scaricabarili. E questo ha un significato politico: rende più difficile provare ad assumere insieme responsabilità finalizzate a riparare la casa comune. Oggi, con una intensità maggiore che in passato, i media vecchi e nuovi, il dibattito politico, molti argomenti anche di commentatori colti evitano l’analisi complessa, cercano il capro espiatorio, rinunciando così a scrutare il paesaggio in modo rigoroso, scegliendo la banalizzazione delle risposte rispetto all’analisi e poi alle possibili proposte da dibattere, ricercate secondo i paradigmi della complessità, anche nel confronto aspro che, tuttavia, deve essere bene istruito. A volte tale approccio, approssimativo quando non sciatto, si ammanta anche di dietrologie e cultura del sospetto. È il modo con il quale persone o gruppi incapaci o indisponibili ad “uscire da se stessi” per capire l’altro e il mondo rispondono alle normali frustrazioni e alla fatica dell’essere adulti e dunque di dovere riparare artigianalmente le cose, mettendo insieme prospettive e visioni differenti. In fondo anche questo è un tema “educativo”: una parte molto rumorosa del Paese – e che si culla in questo rumore – e delle sue élites (!) non è cresciuta, è restata al di qua della responsabilità adulta, che implica assumere la propria parte, guardare alle complessità, trovare soluzioni riparative insieme agli altri, faticare a trovare soluzioni realistiche nelle condizioni date e non nel mondo “delle colpe altrui”, etc.

Viene inoltre da aggiungere che a mancare nella nostra società sono in modo vistoso proprio le competenze linguistiche degli adulti, cioé proprio di generazioni che hanno frequentato la scuola quando, secondo i critici, questa “funzionava”…

“Quando questa funzionava”, fermiamoci su questo punto. Sì, ci sono i nostalgici del tempo che fu con la scuola che fu. Ne ho parlato nel mio libro, scritto con Giulia Tosoni, La scuola è mondo. È un tema assai complesso e mi scuso se semplifico.
La nostalgia sulla scuola che fu, nell’addossare la colpa a una cosa o l’altra e nel sognare un ritorno, elude l’esame complesso del perché non c’è più quella scuola e non esamina il nuovo paesaggio educativo italiano né mostra curiosità per le proposte, pur possibili, di autentico nuovo rigore nell’apprendimento ma nelle nuove condizioni del Paese. Invece, trova a priori dei colpevoli nella fine del latino, della durezza degli studi, fondati dall’idealismo italiano e garantiti dalla scuola gentiliana. “Se si tornasse lì tornerebbe tutto a posto”, sembra suggerire. Non voglio ora citare quel che Gentile pensava di matematica o fisica o scienze…. Rimaniamo sulle trasformazioni profonde della scena sociale e antropologica del Paese. La caduta del principio di autorità ha certamente anche ragioni culturali e in parte deriva dalla messa in discussione del “padre simbolico”, etc. ma nasce anche dal mutare profondo del paesaggio educativo che a sua volta origina da fatti sociali macroscopici e, in particolare, da una diminuzione drastica di bambini e ragazzi – uno squilibrio demografico drammatico. E questo pone ogni bambino al centro di un’attenzione adulta smisurata, il che ha modificato le capacità quotidiane di misurarsi con il limite, la frustrazione, le norme. Ha reso debole il super-io – direbbero gli psicanalisti – che era alla base della scuola trasmissiva: stavi buono e attento anche perché c’erano i castighi, a scuola e parimenti a casa.
Lo spiega bene Gustavo Pietropolli Charmet cosa succede oggi quando a scuola non ci si va più per principio di dovere costruito in famiglia ed entro la comunità ma per il piacere di stare nel gruppo dei pari. A chi vuole tornare alla scuola “che funzionava”, riferendosi, in fondo, a quella di prima del 1962 e della riforma della scuola media, è importante ricordare che, nel 1961 per ogni 100 persone con meno di 14 anni ve ne erano 38,9 con più di 65, nel 1971 erano 46,1, nel 1981, 61,7, nel 1991, 92,5, nel 2001, 127,1 e oggi 153 (!), mentre la media europea, già altissima se si guarda il mondo, è 96. Questo è successo. Ebbene, questo significa che ogni bimbo e ragazzo d’Italia – tranne i poveri e i migranti, che, fortunatamente alzano la media – è, intanto concepito da papà e mamme che sono ultra trentenni e che concentrano proiezioni e attese, a lungo meditate, su un solo figlio che è circondato anche da 4 nonni viventi e zii e zie che non fanno figli, etc.
I ragazzini arrivano a scuola e sono i re e le regine che, per la prima volta, fanno esperienza meravigliosa dell’essere ogni giorno “insieme a pari” ma, al contempo, di dovere dividere cura, attenzione, etc. dopo avere vissuto relazioni povere di regole, spesso dentro “famiglie adolescenti” (non per età ma per mancata “tenuta adulta” dei genitori) come spiega bene Massimo Ammanniti.
E queste famiglie collusive cercano, spesso in modo scomposto, le regole dalla scuola per i propri figli ma, al contempo, li difendono dalle regole della scuola stessa assumendo la loro parte emotiva che vuole risposte a bisogni immediati. La scuola, a sua volta, dà per scontato che le regole si sono stabilite a monte di sé, come era al tempo nel quale la maggioranza dei prof. andava a scuola (la media di età dei docenti italiani è tra le più alte del mondo). Ma non è più così. Perché i nostri padri e madri erano d’accordo con i prof, “a prescindere” come diceva Totò. Ora non più. E allora bisogna dedicare tempo a un nuovo patto tra adulti. E, intanto, questa socialità dei ragazzi – che sostituisce ogni altra relazione tra pari che una volta era in famiglia, per strada, nel caseggiato, etc. – può essere fonte di avventura apprenditiva. A condizione, però, che venga valorizzata la ricerca, il laboratorio, etc. con al centro il gruppo di ragazzi che lavorano in modo cooperativo. Perché si impara meglio e anche perché non si può più contare sul vecchio principio di autorità che era la base della scuola che fu.
Ecco: non è che se la scuola ridiventasse come nel 1961 – con la bacchetta magica o grazie a qualche editto dall’alto – si risolverebbe tutto questo. È necessaria la fatica politica – per una volta in senso proprio e alto – di un nuovo grande patto sociale. E un tempo lungo, intanto bisogna ricostruire il presidio del limite grazie alla ricostruzione esplicita di quel patto implicito tra adulti docenti e adulti genitori, per concorde adesione. Bisogna sostituire l’impossibile scuola trasmissiva con la scuola laboratoriale rigorosa. Una cosa che si cerca di fare in tante scuole grazie a un lavoro straordinario di migliaia di docenti, che i nostalgici non vedono.
Insomma: la nostalgia del tempo che fu non si misura con le trasformazioni avvenute, impedisce questo approccio complesso, trova il colpevole e si lava la coscienza. In ciò, impedisce anche la ricerca di un nuovo rigore.

Colpisce una certa approssimazione in chi constata il deficit formativo degli studenti universitari, senza tenere conto che quello che i docenti universitari suggeriscono di fare e non trovano, in realtà è previsto ad esempio dalle Indicazioni nazionali

Questo è il segno più evidente della mancanza di prospettive, anche nella direzione auspicata della ripresa di rigore nell’apprendimento della lingua, che deriva proprio da un approccio nostalgico e che tende a cercare facili capri espiatori anziché ricostruire responsabilità condivise. Infatti, quando i 600 dicono che le Indicazioni nazionali per il curricolo non sono rigorose e vanno sostituite, sbagliano perché, invece, lì vi è, appunto, un esempio di ricerca di nuovo rigore nelle nuove condizioni. Non si guarda al lavoro fatto, non interessano i segnali promettenti. Franco Lorenzoni, su questo punto, ha scritto assai bene: “Gli obiettivi che le Indicazioni prescrivono riguardo alla lingua sono alti e assai difficili da raggiungere. Viene data importanza alle diverse funzioni cardini della lingua – oralità, scrittura, ampliamento del lessico, elementi di grammatica e di sintassi – e per l’acquisizione di ciascuna competenza viene fornita una dettagliata descrizione di come favorirne lo sviluppo in classe. Riguardo alle verifiche, forse molti firmatari ignorano che da diversi anni nelle classi 2° e 5° della primaria e in 3° media le prove Invalsi danno conto ad allievi e insegnanti del grado di preparazione linguistica e matematica. Tali dati rilevano, tra l’altro, che la scuola primaria si pone a un buon livello rispetto alle classifiche internazionali, mentre è dopo che cominciano ad aggravarsi i problemi. Riguardo all’esile proposta avanzata è dunque difficile credere in sincerità che la questione si possa risolvere con qualche prova di verifica in più o con momenti di controllo da parte di insegnanti di grado superiore”.

Si chiede, nella lettera dei 600, maggior determinazione e rigore nei termini di una volontà politica, in particolar modo rispetto alla verifica, ma l’impressione è che la pars costruens sia vaga, in particolare nei confronti di chi dovrebbe agire e, soprattutto, come se l’università non fosse parte del sistema educativo, ma ne fosse in qualche modo estranea…

La pars costruens spetta alla politica. E quando ci si assume responsabilità pubblica si deve tenere conto delle critiche aspre, delle responsabilità di ciascuna parte, del quadro di insieme. Vi sono tanti linguisti che, per fortuna, assumono tale prospettiva nell’interesse nazionale, con un approccio molto serio, del quale abbiamo avuto testimonianze in questi giorni successivi all’appello. Abbiamo potuto vedere che i 600 ricoprono uno spazio non prevalente sul tema decisivo e complesso della ri-alfabetizzazione dell’Italia. Lo spirito giusto è quello delle parole di vari lustri fa, di Francesco Sabatini, allora presidente dell’Accademia della Crusca: “Non ci stancheremo mai di ripetere che se alla scuola dobbiamo attribuire tanta responsabilità specifica in questo campo, sarebbe vuoto esercizio retorico o, peggio, modo di oscurare molteplici altre responsabilità il continuare a non vedere la catena che lega allo stesso carro almeno altri due soggetti comprimari: l’università e i governi… Alla prima spetta con assoluta evidenza il compito di preparare in modo appropriato la classe degli insegnanti; ai secondi spettano i compiti, ineludibili ma troppo spesso elusi di assicurare una decorosa condizione socio-economica ai docenti e, fatto per nulla secondario, di verificare la rispondenza della formazione degli aspiranti insegnanti alle funzioni che li attendono nelle aule. Per quanto riguarda l’insegnamento dell’italiano, bisogna dirlo francamente, si ignora il fatto che la preparazione universitaria degli insegnanti nell’area specifica della linguistica italiana è stata, per lungo tempo, del tutto assente e poi ha continuato ad essere assai limitata”.

Così, per quanto riguarda la complessa questione della verifica, essa va posta su più piani e con metodo. Proprio a partire dalle Indicazioni si può convenire su compiti comuni. La competenza sofisticata dei docenti va posta nuovamente al centro dell’attenzione politica. Con esami obbligatori di lingua e grammatica all’università per chi insegnerà e con adeguati investimenti a sostegno della formazione dei docenti. Le verifiche delle conoscenze degli alunni vanno rese rituali. La riflessione sulle competenze linguistiche va posta come questione di tutte le discipline. E va potenziata l’analisi di ciò che fanno le scuole che ottengono buoni risultati nella lingua: il loro successo è la più importante lezione per battere la de-alfabetizzazione.

Il ricorrente attacco a Tullio De Mauro e alla linguistica democratica, annoverato tra le cause del “degrado”, configura una posizione conservatrice e non tiene conto della storia dell’educazione in questo paese, di come si sia ampliamente allargato il numero di persone che hanno frequentato la scuola pubblica e dei grandi successi di questa nella trasformazione del paese. Si può affermare che c’è stato un miracolo educativo dai sessanta ai settanta che un po’ ha fatto della scuola un veicolo di mobilità sociale e emancipazione e che poi questa finestra si è chiusa? La posizione dei 600 in questo senso esprime a mio avviso un punto di vista estremamente conservatore e implicitamente classista…

Bisogna ogni volta, con testarda cura, partire dal lavoro vivo delle scuole e non dal proprio recinto. L’intellettuale è colui o colei che esamina con cura rigorosa le cose a partire dai dati, da chi opera e insieme a chi opera, entro i contesti della realtà, salvando quel che va bene, riconoscendo le fatiche di agire entro contesti complicati, riparando lì dove si deve. De Mauro è uno dei più straordinari esempi di questo approccio che richiede la partecipazione, l’accogliere i paradigmi della complessità e una sorvegliata onestà intellettuale, capace di confronto generoso. Egli riconosceva le molte complesse cose accadute tra scuola e società nella seconda metà del secolo scorso e fino alla sua morte, denunciando le criticità con spirito di proposta. Le tante persone che si occupano, lontano dalla nostalgia, dell’alfabetizzazione in Italia, sanno bene che, dopo la legge della scuola media unica del dicembre 1962, si ebbe un’esplosione democratica in senso alfabetizzante. Furono costruite migliaia e migliaia di aule scolastiche, i patronati scolastici sostennero le migliaia di alunni che non avevano i mezzi, le scuole vennero istituite in tutti i comuni, compresi quelli di montagna, in tutta Italia. Fu reclutato nuovo personale docente, centinaia di migliaia di persone, furono messi su 15000 corsi di alfabetizzazione popolare per analfabeti e semi-analfabeti anche adulti, fu abbassato da 60 a 40 il limite degli alunni per classe.

Bisogna ricordarsi che le persone con la licenza media erano in Italia solo 1.380.000 nel censimento del 1951, che queste aumentarono di 550.000 unità in un decennio ancor prima dell’avvio della scuola media unificata (censimento del 1961), sospinti dal boom economico (che richiedeva maggior sapere); ma che – dopo l’avvio della scuola media unificata, al censimento del 1971, passati soli 7 anni scolastici (!) i ragazzi con la licenza della nuova scuola media raggiunsero i 3.384.000 e nel 1981, dopo 17 anni scolastici, oltre i 6 milioni. Il tasso di quattordicenni in possesso di licenza media passò, nei dieci anni successivi, dal 46,8% all’82,3%. Eravamo diventati un paese europeo in pochi anni.

Poi c’è stato l’emergere di nuove criticità nel vasto panorama, purtroppo, dell’analfabetismo funzionale – che De Mauro ha subito individuato e combattuto. In molti, insieme a lui, abbiamo visto quanto fosse importante quella grande finestra aperta e quanto è necessario che essa rivenga aperta, in forme nuove, per contrastare la nuova de-alfabetizzazione. È un lavoro “dal basso e dall’alto”. De Mauro sosteneva i maestri di strada e, al tempo stesso, il lavoro istituzionale indispensabile a rilanciare il lavoro per includere attraverso la lingua italiana. L’università che “si occupa del mondo” sa che maestre e maestri si accorgono subito quanto il numero di parole a disposizione di ciascun bambino sia profondamente e ingiustamente diverso. Si impari una nuova parola ogni ora, ma questo non è vero per tutti. La ricchezza del lessico dipende dalla potenza linguistica familiare, da quanto ascolto ricevono in casa i bambini e da quanto tempo è stato dedicato loro con domande, dialoghi e conversazioni ricche di vocaboli e argomentazioni. De Mauro riconosceva tutto questo. Altro che nostalgia e accusa: analisi, lavoro con le scuole, aiuto alla riparazione istituzionale. Quando andai a parlare più volte con lui delle Indicazioni nazionali, tale approccio lo si toccava con mano quando studiava ogni passaggio, curava la stessa lingua delle indicazioni insieme a me e a altri.

Per battere il nuovo analfabetismo funzionale c’è, per fortuna, un punto dal quale partire. Ed è che in tanti docenti dedichiamo grandi energie a insegnare a ascoltare, leggere, scrivere correttamente, ad aumentare le parole conosciute e a utilizzarle bene e ad accompagnare a formulare le domande che vengono dal discutere e dall’esplorare il mondo. Era certamente più facile quando nelle famiglie e nelle comunità resisteva il presidio del limite e si poteva contare su un’alleanza educativa tra adulti. È più difficile insegnare lessico e grammatica mentre ci si deve dedicare anche al lessico e alle grammatiche del rispetto e alla ri-creazione dell’attenzione per arte, scienze, letteratura di fronte a fenomeni di desertificazione culturale che hanno carattere generale, non certo attribuibile alla sola scuola.
Poi, è una sfida esaltante ma anche impegnativa fare i conti ogni giorno con media che hanno trasformato gli stessi modi di imparare: organizzazione della memoria, presenza simultanea di molti codici, compresenza di procedure analogiche e logiche, relazione immediata tra produzione costruita e fruita.

Questa è la prima generazione di docenti che ha perso il monopolio delle conoscenze e dei mezzi per trasmetterle. E che deve insegnare a distinguere, scegliere, confrontare, in mezzo a un mare di informazioni complesse e contraddittorie, valutando il sapere che i propri alunni hanno acquisito in moltissimi modi, anche lontano dalla scuola. Il cruciale tema della lotta alla de-alfabetizzazione non può essere separato da tutto questo. Poi, lo sappiamo, nelle scuole convivono molte cose. Troppo spesso la didattica trasmissiva, senza laboratorio, mortifica la curiosità e le straordinarie potenzialità esplorative ed espressive dei ragazzi minando la motivazione e si sottovaluta il come si parla e si scrive. Al contempo, moltissimi docenti sanno curare – insieme – curiosa ricerca, conoscenze di base solide, metodo di lavoro, padronanza della lingua. Ed è possibile imparare a farlo. Ma per anni la formazione degli insegnanti era passata da diritto-dovere a opzionale. E sia il Ministero che le Università non hanno davvero raccolto la grande lezione sul come si impara a insegnare che veniva da Mario Lodi o Emma Castelnuovo o dalle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica compilate da Tullio De Mauro dopo un grande lavoro cooperativo tra docenti di scuola e di università. Sono prevalse le ricette con la lista degli esercizi o l’elenco dei micro-obiettivi e gli schemi di lezione. E, invece, la vera competenza docente si costruisce come un sapiente artigianato con una ricchezza di strumenti didattici. Ma questo è un processo che implica imparare a prendere la lingua della vita, come ci ha insegnato Tullio e quella di più arti e discipline, usarne la potenza nel ricco lavoro in classe e curarne, al contempo, le forme.

Enrico Manera per doppiozero

(24 febbraio 2017)