melamed, salute – Il dolore dei bambini

Nonostante ormai si sappia che i bambini fin dalla ventitreesima settimana sentono lo stimolo doloroso e che fino ai tre anni un dolore protratto può creare danni irreversibili, il dolore dei bambini continua a essere banalizzato; il terremoto che investe una famiglia con un bimbo inguaribile e l’importanza, anche con i bambini, di una comunicazione onesta; il ritardo nell’accesso alle cure palliative e la carenza di hospice pediatrici nel nostro paese.
Fran­ca Be­ni­ni, pe­dia­tra in­ten­si­vi­sta, ane­ste­si­sta, è re­spon­sa­bi­le del Cen­tro re­gio­na­le di ri­fe­ri­men­to per la re­gio­ne Ve­ne­to per la te­ra­pia del do­lo­re, le cu­re pal­lia­ti­ve pe­dia­tri­che e l’ho­spi­ce pe­dia­tri­co”Ca­sa del Bam­bi­no” di Pa­do­va.

Lei da an­ni de­nun­cia una ba­na­liz­za­zio­ne del do­lo­re in am­bi­to pe­dia­tri­co.
Il do­lo­re è un pro­ble­ma vec­chio co­me il mon­do. Og­gi il do­lo­re è as­so­cia­to al­la fra­gi­li­tà, al­la pau­ra, al­l’an­sia, e quan­do si trat­ta di bam­bi­ni non osia­mo nem­me­no no­mi­nar­lo. Que­sto mo­do di ap­proc­cia­re il do­lo­re, che è cul­tu­ra­le, si as­so­cia a un’i­dea del­la me­di­ci­na co­me scien­za sal­vi­fi­ca. No­no­stan­te si par­li tan­to di qua­li­tà del­la vi­ta e del­l’as­si­sten­za, re­si­ste l’i­dea che una me­di­ci­na che non sal­va la vi­ta ha po­co va­lo­re.
Ec­co al­lo­ra che noi qui ci tro­via­mo di fron­te a due gros­si pro­ble­mi. Il pri­mo è che par­lia­mo di un ar­go­men­to sco­mo­do co­me il do­lo­re, e il se­con­do è che par­lia­mo del bam­bi­no. Mes­si as­sie­me, que­sti due in­gre­dien­ti fan­no una bom­ba.
Il bam­bi­no che ha do­lo­re, il bam­bi­no che sof­fre, in­ne­sca a li­vel­lo so­cia­le, ma an­che pro­fes­sio­na­le, una for­te rea­zio­ne emo­zio­na­le, che pe­rò fa fa­ti­ca a tra­dur­si in un’a­zio­ne ade­gua­ta. Ep­pu­re i nu­me­ri ci so­no. La let­te­ra­tu­ra in­ter­na­zio­na­le ci di­ce che l’80% dei bam­bi­ni che si tro­va­no in am­bi­to ospe­da­lie­ro han­no do­lo­re; in al­cu­ni set­ting (on­co­lo­gia, reu­ma­to­lo­gia) si ar­ri­va al 100%. Sap­pia­mo inol­tre che è un sin­to­mo pe­ri­co­lo­so: cam­bia la pro­gno­si, cam­bia la du­ra­ta del ri­co­ve­ro, cam­bia tut­to. Sap­pia­mo in­fi­ne che un do­lo­re non cu­ra­to nei pri­mi tre an­ni di vi­ta pro­vo­ca un mec­ca­ni­smo di dar­wi­ni­smo, una mo­di­fi­ca­zio­ne strut­tu­ra­le e per­ma­nen­te del si­ste­ma ner­vo­so cen­tra­le e pe­ri­fe­ri­co, pro­vo­can­do al­te­ra­zio­ni di so­glia di va­lu­ta­zio­ne del do­lo­re nei pe­rio­di suc­ces­si­vi. No­no­stan­te tut­to que­sto, il do­lo­re nel bam­bi­no re­sta un sin­to­mo scon­ta­to.
Da una ri­cer­ca su più di tren­ta pron­to soc­cor­so pe­dia­tri­ci, è emer­so co­me una va­lu­ta­zio­ne ade­gua­ta del do­lo­re ven­ga fat­ta so­lo nel­l’8% dei bam­bi­ni; la va­lu­ta­zio­ne è poi se­gui­ta da un ade­gua­to con­trol­lo nel 32% dei bam­bi­ni. In ge­ne­ra­le, si sti­ma che so­lo il 25% dei bam­bi­ni ita­lia­ni ab­bia un’op­por­tu­na mi­su­ra­zio­ne e va­lu­ta­zio­ne del do­lo­re quan­do ac­ce­de in ospe­da­le e me­no del 30% ri­ce­va una cor­ret­ta te­ra­pia. Tut­to que­sto no­no­stan­te il fat­to che ab­bia­mo a di­spo­si­zio­ne me­to­di e stra­te­gie per cor­reg­ge­re il do­lo­re nel 98% dei ca­si.
C’è an­che il do­lo­re pro­vo­ca­to dal­le in­da­gi­ni, dal­le dia­gno­si. Que­sto è un do­lo­re fa­ci­lis­si­mo da ge­sti­re per­ché lo de­ter­mi­nia­mo noi, lo pro­vo­chia­mo noi. Al­lo sta­to at­tua­le po­treb­be es­se­re con­trol­la­to nel 100% dei ca­si. Te­nia­mo pre­sen­te che il do­lo­re che ac­com­pa­gna le pro­ce­du­re a vol­te an­go­scia più del­la pa­to­lo­gia. Al­lo­ra io di­co: ma­ga­ri non si può cam­bia­re il de­cor­so del­la ma­lat­tia, ma cam­bia­re l’im­pat­to di tut­to quel­lo che de­ter­mi­na do­lo­re al­l’in­ter­no del­la pa­to­lo­gia è già un cam­bia­men­to enor­me sul­la qua­li­tà del­la vi­ta di quel bam­bi­no e di quel­la fa­mi­glia. Se noi riu­scia­mo a ras­si­cu­ra­re i ge­ni­to­ri che il lo­ro bim­bo non sen­ti­rà ma­le, che si sve­glie­rà tran­quil­lo, la lo­ro an­sia si ri­dur­rà e que­sto ri­tor­ne­rà a boo­me­rang sul­la qua­li­tà del­la vi­ta del bam­bi­no. Que­sto è fat­ti­bi­lis­si­mo.
In­som­ma, gli stru­men­ti ci so­no, è pro­prio un pro­ble­ma cul­tu­ra­le: nel­la pri­ma età del­la vi­ta fi­no al­l’e­tà pe­dia­tri­ca, ma for­se an­che nel­l’e­tà adul­ta, il do­lo­re non vie­ne va­lu­ta­to de­gno di es­se­re trat­ta­to. Per­ché? Per­ché il do­lo­re è sal­vi­fi­co, il do­lo­re non in­ci­de, il do­lo­re è un sin­to­mo sa­cro, ser­ve a ca­pi­re co­me van­no le co­se, ec­ce­te­ra ec­ce­te­ra.

Co­me si mi­su­ra il do­lo­re dei bam­bi­ni?
Al­lo­ra, per ca­pi­re se un bam­bi­no ha do­lo­re, bi­so­gna ap­pun­to mi­su­rar­lo. Esi­sto­no dei me­to­di sem­pli­cis­si­mi, che por­ta­no via qual­che mi­nu­to. Il bam­bi­no più gran­de può par­te­ci­pa­re di­ret­ta­men­te al­la de­fi­ni­zio­ne del­la quan­ti­tà del pro­prio do­lo­re. Al di sot­to dei tre an­ni ci so­no del­le sca­le che per­met­to­no al­l’o­pe­ra­to­re di da­re un pun­teg­gio va­lu­tan­do il vi­so, il mo­vi­men­to, il to­no mu­sco­la­re. So­no dei ter­mo­me­tri del do­lo­re. Co­me noi mi­su­ria­mo la feb­bre, pos­sia­mo be­nis­si­mo cer­ca­re di mi­su­ra­re il do­lo­re. Se una mam­ma vie­ne in ospe­da­le di­cen­do che il fi­glio ha la feb­bre al­ta, ac­cor­ria­mo a con­trol­la­re. Se ar­ri­va una mam­ma e di­ce: mio fi­glio ha do­lo­re, il ri­cor­so al ter­mo­me­tro del do­lo­re è mol­to più li­mi­ta­to.
Ma se non fac­cio una rac­col­ta dei da­ti, non lo mi­su­ro, la mia te­ra­pia sa­rà ba­na­le.
Ab­bia­mo un nu­me­ro an­co­ra mol­to al­to di pa­zien­ti, sia a li­vel­lo ospe­da­lie­ro che ter­ri­to­ria­le, il cui do­lo­re vie­ne ba­na­liz­za­to. Da­gli ul­ti­mi stu­di che ab­bia­mo fat­to al­l’in­ter­no del grup­po di ri­cer­ca Pi­per (Pain In Pe­dia­tric Emer­gen­cy Room) so­no usci­ti dei da­ti dram­ma­ti­ci: i bam­bi­ni, quand’an­che ven­go­no trat­ta­ti, ri­ce­vo­no una do­se li­mi­ta­tis­si­ma di far­ma­ci. Il pro­ble­ma più gran­de è il sot­to­do­sag­gio di far­ma­ci. Il me­di­co sa che quel bim­bo ha ma­le, ne co­no­sce la cau­sa, e tut­ta­via usa i far­ma­ci più blan­di. Bi­lan­cian­do i pos­si­bi­li ef­fet­ti col­la­te­ra­li e il fat­to che il pic­co­lo con­ti­nui ad ave­re un po’ di do­lo­re pre­fe­ri­sce che con­ti­nui ad ave­re un po’ di do­lo­re. Più pic­co­lo è il bam­bi­no, mi­no­re è l’u­ti­liz­zo dei far­ma­ci, e in al­cu­ni ca­si si de­ci­de di non usar­li pro­prio e di sta­re a ve­de­re co­me il sin­to­mo evol­ve. Ma que­sta è una pre­cau­zio­ne che non ha al­cu­na ra­gion d’es­se­re. Co­me sia­mo in gra­do di usa­re gli an­ti­bio­ti­ci (co­no­scia­mo il do­sag­gio pro-chi­lo), e ge­stir­ne gli ef­fet­ti col­la­te­ra­li, la stes­sa co­sa de­ve ac­ca­de­re per tut­ti i far­ma­ci, com­pre­si gli anal­ge­si­ci. In Ita­lia mo­le­co­le mol­to sem­pli­ci co­me pa­ra­ce­ta­mo­lo e ibu­pro­fe­ne non ven­go­no uti­liz­za­te in ma­nie­ra ap­pro­pria­ta. C’è pro­prio un pro­ble­ma gra­ve di ap­pro­pria­tez­za d’u­so dei far­ma­ci.

Lei si è im­pe­gna­ta mol­to per l’in­tro­du­zio­ne del­le cu­re pal­lia­ti­ve pe­dia­tri­che. A che pun­to sia­mo?
Qui il pro­ble­ma cul­tu­ra­le di­ven­ta de­ter­mi­nan­te, se è dif­fi­ci­le par­la­re di do­lo­re, par­la­re di in­gua­ri­bi­li­tà è im­pos­si­bi­le. A li­vel­lo so­cia­le si fa fa­ti­ca ad ac­cet­ta­re que­sto ti­po di per­cor­so. So­prat­tut­to nel­l’I­ta­lia del Nord, quan­do una fa­mi­glia ha un bam­bi­no in­gua­ri­bi­le, l’e­si­to è l’i­so­la­men­to. È di­ver­so al Sud, do­ve esi­ste una ca­pa­ci­tà di ac­co­glien­za di­ver­sa, il pro­ble­ma di una fa­mi­glia di­ven­ta for­se il pro­ble­ma di tut­ti. E poi c’è tut­to il pro­ble­ma di ti­po eco­no­mi­co e so­cia­le che ne de­ri­va per­ché que­ste fa­mi­glie so­no obe­ra­te da bi­so­gni a cui non sem­pre rie­sco­no a ri­spon­de­re. Si di­ce che i bam­bi­ni in­gua­ri­bi­li so­no po­chi ri­spet­to agli adul­ti. Giu­stis­si­mo. Pe­rò il bam­bi­no ha del­le pa­to­lo­gie e del­le pro­ble­ma­ti­che di­ver­se, una pro­spet­ti­va di vi­ta mol­to più lun­ga, coin­vol­ge in ma­nie­ra dram­ma­ti­ca la fa­mi­glia e tut­to il con­te­sto, per cui pur es­sen­do un pro­ble­ma di nic­chia, di­ven­ta un pro­ble­ma enor­me.
Si è cal­co­la­to che un bam­bi­no in­gua­ri­bi­le in qual­che mo­do por­ta cir­ca tre­cen­to per­so­ne a cam­bia­re la pro­pria vi­ta, po­co o tan­to che sia. Se con­si­de­ria­mo che in Ita­lia ci so­no al­me­no cir­ca tren­ta­mi­la bam­bi­ni eleg­gi­bi­li al­le cu­re pal­lia­ti­ve, pos­sia­mo ren­der­ci con­to del­la mi­su­ra del fe­no­me­no.
Pur­trop­po a osta­co­la­re una dif­fu­sio­ne del­le cu­re pal­lia­ti­ve c’è an­che que­st’i­dea che in­te­res­si­no so­lo il bam­bi­no mo­ren­te, per cui fi­no a che non c’è la man­na­ia in­com­ben­te non si fa nien­te. Ma non è as­so­lu­ta­men­te ve­ro! Le cu­re pal­lia­ti­ve pe­dia­tri­che si oc­cu­pa­no del­la qua­li­tà del­la vi­ta del bam­bi­no in­gua­ri­bi­le. Fi­no a quan­do? Fi­no a quan­do muo­re. È un con­cet­to com­ple­ta­men­te di­ver­so. In­ten­dia­mo­ci, non si­gni­fi­ca che le cu­re pal­lia­ti­ve pe­dia­tri­che si oc­cu­pi­no del­la cro­ni­ci­tà: si oc­cu­pa­no dei bam­bi­ni che han­no una ma­lat­tia in­gua­ri­bi­le, con una com­ples­si­tà as­si­sten­zia­le im­por­tan­te. Pe­rò, ri­pe­to, il pro­ble­ma non è il bam­bi­no che muo­re, ma è tut­ta la vi­ta che pre­ce­de que­sta mor­te e che con­di­zio­na la fa­mi­glia, la so­cie­tà, la scuo­la, gli ami­ci, i fra­tel­li, i non­ni, per un pe­rio­do che può es­se­re an­che di due, tre, quat­tro an­ni.
Le cu­re pal­lia­ti­ve del­l’a­dul­to stan­no par­ten­do ades­so con la par­te non on­co­lo­gi­ca, so­prat­tut­to in ri­fe­ri­men­to al­la Sla e al pa­zien­te an­zia­no. Ec­co, te­nia­mo pre­sen­te che nel bam­bi­no, l’on­co­lo­gi­co rap­pre­sen­ta il 18-20%; il ven­ta­glio è mol­to am­pio: ci so­no le ma­lat­tie cro­mo­so­mi­che, le ma­lat­tie neu­ro­mu­sco­la­ri, le ma­lat­tie ner­vo­se, le ma­lat­tie car­dia­che, bam­bi­ni ex pre­ma­tu­ri gra­vi con esi­ti im­por­tan­ti, esi­ti di in­fe­zio­ne, esi­ti di trau­mi, ma­lat­tie del­le qua­li non ab­bia­mo la dia­gno­si, tan­tis­si­me… C’è una gam­ma di pa­to­lo­gie che in­ne­sca­no pro­ble­mi di­ver­si e ri­spo­ste as­si­sten­zia­li al­tret­tan­to di­ver­se.

Una dia­gno­si di in­gua­ri­bi­li­tà pro­vo­ca un ter­re­mo­to in una fa­mi­glia.
Le fa­mi­glie smet­to­no di pen­sa­re per tre-quat­tro me­si. Do­po co­min­cia­no a rior­ga­niz­zar­si. La rior­ga­niz­za­zio­ne com­por­ta di so­li­to che la mam­ma smet­te di la­vo­ra­re, il pa­pà ab­ba­stan­za fre­quen­te­men­te de­ve cam­bia­re la­vo­ro; mu­ta­no com­ple­ta­men­te i pro­get­ti di vi­ta, dal­le co­se sem­pli­ci al fa­re un mu­tuo, com­prar­si una ca­sa… vie­ne tut­to con­ge­la­to. Il con­to di que­sto “con­ge­la­men­to” lo pa­ga­no si­cu­ra­men­te i ge­ni­to­ri, ma an­che i fra­tel­li. È im­por­tan­tis­si­mo con­di­vi­de­re, par­la­re e da­re del­le op­por­tu­ni­tà ma­ga­ri di­ver­se a que­sti bam­bi­ni o ra­gaz­zi, al­tri­men­ti ti per­di il fu­tu­ro di quel­la fa­mi­glia per­ché ma­ga­ri il bam­bi­no ma­la­to poi muo­re, pe­rò gli al­tri fi­gli cre­sco­no, e si tra­sci­na­no que­sto por­ta­to di estre­ma dif­fi­col­tà e sof­fe­ren­za.

Di­ce­va che per il bam­bi­no è im­por­tan­tis­si­mo po­ter ri­ma­ne­re a ca­sa…
Fin quan­do può, il bam­bi­no de­ve sta­re a ca­sa. Pur­ché ci sia una re­te at­tor­no. Che si­gni­fi­ca che so chi chia­ma­re an­che la not­te di Na­ta­le. Noi ab­bia­mo ri­dot­to in ma­nie­ra esor­bi­tan­te il nu­me­ro dei ri­co­ve­ri dei pa­zien­ti che ab­bia­mo in ca­ri­co, pe­rò ser­ve un si­ste­ma che fun­zio­ni ven­ti­quat­tro ore su ven­ti­quat­tro, con del­le ri­sor­se com­pe­ten­ti. In ca­so con­tra­rio, per­fi­no io che fac­cio que­sto la­vo­ro da 35 an­ni, se mio fi­glio aves­se que­sto ti­po di pro­ble­ma e fos­si so­la con mio ma­ri­to, non lo por­te­rei a ca­sa, per­ché vor­rei po­ter fa­re la mam­ma e non pre­oc­cu­par­mi di ca­te­te­ri e ven­ti­la­to­ri. In as­sen­za di un’al­ter­na­ti­va ade­gua­ta, l’o­spe­da­le dà si­cu­rez­za, ci to­glie l’an­sia; cer­to, il con­to lo pa­ga poi il bam­bi­no: noi gli riem­pi­re­mo la stan­za di di­se­gni e gio­cat­to­li, ma non gli chie­de­re­mo mai: “Vuoi ve­ni­re a ca­sa”, per­ché sa­reb­be una per­di­ta su tut­ti i fron­ti.
In Ve­ne­to ra­gio­nia­mo su un cen­tro di ri­fe­ri­men­to per un’a­rea va­sta che coor­di­na e ge­sti­sce un’as­si­sten­za spe­cia­li­sti­ca per tut­ti i bam­bi­ni di quel ter­ri­to­rio. A ca­sa in­nan­zi­tut­to, in ospe­da­le spe­ria­mo po­co, op­pu­re in ho­spi­ce pe­dia­tri­co.
C’è un ho­spi­ce pe­dia­tri­co a Pa­do­va, che, ri­pe­to, non è “il po­sto do­ve i bam­bi­ni ven­go­no a mo­ri­re”, è piut­to­sto una strut­tu­ra di ri­fe­ri­men­to, ven­ti­quat­tr’o­re al gior­no, con una cen­tra­li­na si­mil-118, che fa un po’ da om­brel­lo, da pa­ra­ca­du­te a que­sti pa­zien­ti. I bam­bi­ni en­tra­no in ho­spi­ce se han­no un pro­ble­ma, una vol­ta ri­sol­to tor­na­no a ca­sa. C’è poi un’é­qui­pe ter­ri­to­ria­le, sem­pre nel cir­cui­to del­l’ho­spi­ce, che se­gue le fa­mi­glie a ca­sa, at­ti­va i ser­vi­zi nel­le va­rie fa­si di ma­lat­tia, dal far­ma­co a do­mi­ci­lio al ven­ti­la­to­re, fi­no al­l’or­ga­niz­za­zio­ne del per­cor­so sco­la­sti­co; bi­so­gna poi pre­pa­ra­re gli al­tri ra­gaz­zi, gli ami­ci, i com­pa­gni, spie­gan­do la si­tua­zio­ne. Co­me di­ce­vo, c’è il pro­ble­ma dei fra­tel­li, a cui va spie­ga­to co­sa sta suc­ce­den­do. Ci si oc­cu­pa an­che del la­to eco­no­mi­co del pro­ble­ma.

Vi pre­oc­cu­pa­te an­che dei pro­ble­mi eco­no­mi­ci del­la fa­mi­glia!?
Cer­to! Se que­sta fa­mi­glia ha dei pro­ble­mi eco­no­mi­ci, si con­tat­ta l’as­si­sten­te so­cia­le, si ve­de quel­lo che si può fa­re. A vol­te la leg­ge 104, che pre­ve­de la pos­si­bi­li­tà di ri­ma­ne­re a ca­sa tre gior­ni al me­se, non ba­sta; eb­be­ne, più di una vol­ta sia­mo an­da­ti dal ti­to­la­re per chie­de­re del­le de­ro­ghe, e de­vo di­re che nes­su­no ha mai det­to di no.
La pre­sa in ca­ri­co è fat­ta di co­se con­cre­te e di po­che pa­ro­le. Se ser­ve at­ti­via­mo il vo­lon­ta­ria­to; al­cu­ni grup­pi Lions del Ve­ne­to ci han­no aiu­ta­to tan­tis­si­mo nel­le pic­co­le e gran­di co­se. Poi c’è la no­stra as­so­cia­zio­ne “L’i­so­la che c’è”, che si met­te vi­ci­no al­la fa­mi­glia e cer­ca di tro­va­re tut­te quel­le so­lu­zio­ni che ma­ga­ri le isti­tu­zio­ni non pos­so­no as­si­cu­ra­re. Si co­strui­sce una gri­glia at­tor­no a quel pa­zien­te, con l’o­ne­stà di ri­co­no­sce­re: que­sto pos­sia­mo far­lo, que­sto no, su que­st’al­tro ci im­pe­gnia­mo a tro­va­re una so­lu­zio­ne.
Il no­stro obiet­ti­vo è non so­lo di la­scia­re i bam­bi­ni a ca­sa, ma an­che di far fre­quen­ta­re lo­ro la scuo­la il più pos­si­bi­le; ci so­no si­tua­zio­ni in cui l’in­se­ri­men­to di­ven­ta trop­po com­ples­so, al­lo­ra si fa la scuo­la a do­mi­ci­lio, con la pos­si­bi­li­tà che i com­pa­gni ven­ga­no a ca­sa…

Par­lia­mo del­la co­mu­ni­ca­zio­ne. Co­sa è giu­sto di­re al bam­bi­no?
I ge­ni­to­ri so­no i no­stri in­ter­lo­cu­to­ri, e quin­di a lo­ro non si può non di­re co­me stan­no le co­se. De­ve es­se­re una co­mu­ni­ca­zio­ne one­sta, chia­ra, e so­prat­tut­to una co­mu­ni­ca­zio­ne con­ti­nua­ti­va, nel sen­so che con un sin­go­lo col­lo­quio non fai nien­te. È un pro­ces­so che se­gue il per­cor­so del­la ma­lat­tia. Ci so­no due mo­men­ti. C’è il mo­men­to del­la co­mu­ni­ca­zio­ne del­l’in­gua­ri­bi­li­tà che è una pri­ma fa­se. Qui non vo­glio nean­che par­la­re di ac­cet­ta­zio­ne per­ché non è ac­cet­ta­bi­le. Si trat­ta di riu­sci­re a con­vi­ve­re con quel­la sto­ria, con quel­la si­tua­zio­ne, che si­gni­fi­ca an­che re­set­ta­re com­ple­ta­men­te i pro­pri pia­ni fu­tu­ri.
Poi c’è la dia­gno­si di ter­mi­na­li­tà, quan­do la mor­te di­ven­ta più vi­ci­na, o “pro­ba­bil­men­te” più vi­ci­na. An­che que­sto va det­to ai ge­ni­to­ri per­ché in quel mo­men­to cam­bia­no le co­se e de­vi con­di­vi­de­re le te­ra­pie, le scel­te, i per­cor­si: stia­mo a ca­sa, non stia­mo a ca­sa, co­min­ci a par­la­re dei de­si­de­ri del bam­bi­no.
Co­sa di­re al bam­bi­no? La dia­gno­si di in­gua­ri­bi­li­tà in una ma­nie­ra o nel­l’al­tra va co­mu­ni­ca­ta. Per­ché so­lo co­sì puoi es­se­re one­sto con lui, met­ter­ti al­la sua al­tez­za. Non puoi pren­de­re in gi­ro un bam­bi­no di­cen­do che è gua­ri­to, quan­do ma­ga­ri si ve­de su una car­roz­zi­na, man­gia­re da un bu­co, per­de­re i ca­pel­li, en­tra­re e usci­re dal­l’o­spe­da­le. L’o­ne­stà se­con­do me è con­di­tio si­ne qua non per riu­sci­re a la­vo­ra­re in que­ste si­tua­zio­ni. La co­mu­ni­ca­zio­ne non de­ve es­se­re “ru­ba­ta” dal bam­bi­no, de­ve es­se­re de­di­ca­ta a lui, te­nen­do con­to dei suoi tem­pi, del­la sua età, del­la sua si­tua­zio­ne. In al­cu­ni ca­si il bam­bi­no sce­glie il pro­prio in­ter­lo­cu­to­re. Può es­se­re che io non gli piac­cia e vo­glia sen­tir­si di­re que­ste co­se da un’al­tra per­so­na. An­che in que­sto ca­so de­v’es­se­re una co­mu­ni­ca­zio­ne ri­pe­tu­ta, ma non in­va­si­va.
De­ve es­se­re an­che una co­mu­ni­ca­zio­ne che la­scia del­le spe­ran­ze. For­se io so­no pu­sil­la­ni­me, e mi fa pau­ra il buio to­ta­le, ma una vi­ta sen­za spe­ran­za è un dram­ma. Vo­glio pen­sa­re che in ogni mo­men­to del­la vi­ta si pos­sa spe­ra­re qual­co­sa, ma­ga­ri cam­bia l’o­biet­ti­vo del­la spe­ran­za, ma qual­co­sa si può sem­pre spe­ra­re, an­che so­lo di tor­na­re a ca­sa, di ve­de­re gli ami­ci. Non so­no i gran­di de­si­de­ri.
Il bam­bi­no poi ha una ca­pa­ci­tà in più, che se tu rie­sci a dar­gli l’ef­fet­to del­la nor­ma­li­tà lui è nor­ma­le, vi­ve sen­za tan­ta re­tro­spet­ti­va: è l’im­ma­nen­te, il qui e ora a fa­re la qua­li­tà del­la sua vi­ta. Il bam­bi­no ha que­sta ca­pa­ci­tà dram­ma­ti­ca, che al­l’a­dul­to man­ca, di vi­ve­re nel­l’og­gi, di usa­re il tem­po nel­la ma­nie­ra mi­glio­re pos­si­bi­le. Tu gli dai uno spil­lo, uno scioc­chez­za e lui rie­sce a tro­va­re il po­si­ti­vo in qual­sia­si co­sa. I bam­bi­ni poi so­no stra­va­gan­ti, spes­so ti fan­no la do­man­da nel mo­men­to in cui me­no te lo aspet­ti: stai gio­can­do con lui e ti ar­ri­va la do­man­da pro­prio men­tre sta­vi pen­san­do a tut­t’al­tro…
Nel­l’a­do­le­scen­te in­ve­ce il set­ting è im­por­tan­te. La co­mu­ni­ca­zio­ne de­v’es­se­re fat­ta da chi se­con­do lui ha in ma­no la sua ma­lat­tia in quel mo­men­to. Può es­se­re il me­di­co, ma spes­so so­no le in­fer­mie­re. De­ve in­stau­rar­si un mec­ca­ni­smo di fi­du­cia. Poi i ge­ni­to­ri me­dia­no, ri­spon­do­no ad al­tre do­man­de: po­trò an­da­re al­l’a­si­lo, pos­so fa­re il ba­gno, pos­so usci­re?

Da che età si può dir­lo a un bam­bi­no?
Si co­min­cia a par­la­re lo­ro pre­stis­si­mo, dai tre-quat­tro an­ni. Af­fin­ché pos­sa­no par­te­ci­pa­re di­ret­ta­men­te al pro­ces­so de­ci­sio­na­le in­ve­ce bi­so­gna aspet­ta­re i set­te-ot­to an­ni. Pe­rò già a tre an­ni ti chie­do­no: “Per­ché que­sto?”, “Per­ché quel­lo?” e tu de­vi da­re del­le ri­spo­ste.
Per noi ope­ra­to­ri esi­sto­no del­le stra­te­gie, ma co­me in tut­ta la me­di­ci­na al­la fi­ne si trat­ta di tro­va­re il pro­to­col­lo giu­sto per quel pa­zien­te. Ogni vol­ta si crea un ve­sti­to su mi­su­ra per quel bam­bi­no.
La co­mu­ni­ca­zio­ne non è so­lo quel­lo che io di­co a lui, è an­che quel­lo che lui mi ri­spon­de, la fac­cia che fa, co­me si com­por­ta. Se mi sie­do per ter­ra con lui e do­po cin­que mi­nu­ti si al­za e va a pren­de­re un gio­cat­to­lo da un’al­tra par­te, vuol di­re che in quel mo­men­to la co­mu­ni­ca­zio­ne è chiu­sa.
Che do­man­de fan­no? Le più di­spa­ra­te: “Cam­mi­ne­rò?”, “Co­me si scri­ve la mia ma­lat­tia?”, “Per­ché non mi chie­di se ho ma­le?” o an­co­ra: “Ma per­ché og­gi non mi hai vi­si­ta­to?”. Che può vo­ler di­re che sto be­ne, op­pu­re che sto ma­lis­si­mo.
Di­ver­so il di­scor­so del­la ter­mi­na­li­tà. Io non ve­do la ne­ces­si­tà di di­re a un bam­bi­no che sta mo­ren­do. In­ten­dia­mo­ci, bi­so­gna sem­pre ri­spon­de­re al­le do­man­de che lui fa: “Sta fun­zio­nan­do la te­ra­pia?”, “No, non sta fun­zio­nan­do”, que­sta è one­stà. Ma da qui a di­re: “Pre­pa­ra­ti che stai mo­ren­do” sia­mo lon­ta­nis­si­mi. Cer­chia­mo di far­gli ca­pi­re che è in una si­tua­zio­ne di in­gua­ri­bi­li­tà per per­met­ter­gli di ri­par­ti­re, ma nel­la ter­mi­na­li­tà ci si li­mi­ta a ri­spon­de­re al­le sue ri­chie­ste. De­vo an­che di­re che i bam­bi­ni non lo chie­do­no qua­si mai. Fra i cin­que e i sei an­ni, ti di­co­no: “Sto per mo­ri­re, ec­co, so­no mor­to!”. Ed è il mi­to di Pe­ter Pan, del­la mor­te che va e vie­ne. Gli ado­le­scen­ti han­no tan­ti pen­sie­ri, pe­rò una do­man­da fran­ca, “Sto per mo­ri­re?”, nel­la mia sto­ria di me­di­co pen­so di aver­la sen­ti­ta non più di due vol­te, ed era un mez­zo per usci­re da un’em­pas­se per­so­na­le, in cui si fa­ce­va­no la do­man­da e si da­va­no an­che una ri­spo­sta. In 35 an­ni non mi è in­ve­ce mai suc­ces­so di ri­ce­ve­re una ri­chie­sta di sui­ci­dio as­si­sti­to.

Le fa­mi­glie pe­rò spes­so non vo­glio­no che il bam­bi­no sap­pia.
Far fin­ta che il pro­ble­ma non esi­sta de­ter­mi­na a ca­sca­ta il di­sa­stro nel­la fa­mi­glia.
Ri­cor­do la sto­ria di Al­ber­to, un bam­bi­no di 8 an­ni. Al pri­mo col­lo­quio i suoi ge­ni­to­ri mi dis­se­ro: “Lui non de­ve sa­pe­re, nes­su­no de­ve sa­pe­re. Fi­no a che ce la fac­cia­mo, dob­bia­mo re­ci­ta­re, non vo­glia­mo che nes­su­no sap­pia del­l’ag­gra­va­men­to di no­stro fi­glio”. Po­co tem­po do­po tut­ti gli ami­ci li ave­va­no la­scia­ti so­li. La non co­mu­ni­ca­zio­ne la­scia un se­gno.
Quan­do il bim­bo è ar­ri­va­to in ho­spi­ce la pri­ma vol­ta, mi han­no ri­ba­di­to la non vo­lon­tà del­la con­di­vi­sio­ne. Que­sto ha por­ta­to a un dram­ma al­l’in­ter­no di tut­ta la fa­mi­glia. Il fat­to di non aver vo­lu­to di­re nien­te al fra­tel­li­no, con il ti­mo­re che, du­ran­te un li­ti­gio, gri­das­se in fac­cia ad Al­ber­to la ve­ri­tà, ha mes­so in gra­ve di­sa­gio tut­ti. Al­la fi­ne non par­la­re ha por­ta­to a una cri­si ge­ni­to­ria­le e a una cri­si di cop­pia: non era­no più d’ac­cor­do sul­le stra­te­gie, te­me­va­no di es­se­re sta­ti trop­po per­mis­si­vi. Il ra­gaz­zi­no in­tan­to era di­ven­ta­to un de­spo­ta, ma han­no con­ti­nua­to a fa­re co­sì, con il fra­tel­lo che sta­va uscen­do di sen­no. Po­co pri­ma di Na­ta­le, Al­ber­to co­me re­ga­lo ha chie­sto una ba­ra bian­ca.
Ec­co, una co­mu­ni­ca­zio­ne ade­gua­ta al­la si­tua­zio­ne è fon­da­men­ta­le. Al­tri­men­ti il bam­bi­no non ca­pi­sce co­sa gli sta suc­ce­den­do, non ca­pi­sce per­ché la sua fa­mi­glia si com­por­ta in quel­la ma­nie­ra, non ca­pi­sce la di­spe­ra­zio­ne che ve­de in­tor­no, non ca­pi­sce l’at­teg­gia­men­to dei sa­ni­ta­ri che gli di­co­no che va tut­to be­ne e pe­rò van­no a ve­der­lo die­ci vol­te al gior­no op­pu­re non van­no più a ve­der­lo.
A vol­te ci pen­so. Noi con­si­de­ria­mo i bam­bi­ni nel ro­sa e nel­l’az­zur­ro. Le stan­ze de­vo­no es­se­re per for­za di­pin­te… Li trat­tia­mo al­le vol­te co­me dei cre­ti­ni e non ci ac­cor­gia­mo che lo­ro han­no una lo­gi­ca co­sì fer­rea… Dav­ve­ro, so­no le per­so­ne che mi met­to­no più in cri­si con le lo­ro do­man­de. In­ve­ce vai nel re­par­to ed è tut­to un pe­lu­che, un co­ni­gliet­to ro­sa… Va be­ne, per ca­ri­tà, ma il bam­bi­no non è que­sto.

I bam­bi­ni si pre­oc­cu­pa­no per i lo­ro ge­ni­to­ri?
Mol­tis­si­mo. È il mo­ti­vo per cui spes­so tac­cio­no le lo­ro pau­re. Al­le vol­te aspet­ta­no che i ge­ni­to­ri sia­no usci­ti per far­ti le do­man­de. Il mo­men­to del de­ces­so non ra­ra­men­te av­vie­ne in as­sen­za dei ge­ni­to­ri. Ri­cor­do al­cu­ne sto­rie in­cre­di­bi­li in cui ge­ni­to­ri pre­sen­tis­si­mi so­no sta­ti co­stret­ti dai bam­bi­ni ad al­lon­ta­nar­si con ca­pric­ci in­cre­di­bi­li e ap­pe­na il ge­ni­to­re è usci­to, il bam­bi­no è spi­ra­to. Que­sti ca­si so­no se­gna­la­ti an­che a li­vel­lo del­la let­te­ra­tu­ra.
Man ma­no che i ra­gaz­zi di­ven­ta­no più gran­di, l’e­le­men­to del­la di­fe­sa dei ge­ni­to­ri in al­cu­ni ca­si è ecla­tan­te. Vo­glio­no un per­cor­so al­la pa­ri con te. Ti chie­do­no: “Non dir­lo ai miei che ti ho chie­sto que­ste co­se”. Al­le vol­te que­sto li por­ta per­fi­no a ne­ga­re di ave­re do­lo­re, per­ché il do­lo­re pre­oc­cu­pa i ge­ni­to­ri.

Voi ope­ra­to­ri, me­di­ci e in­fer­mie­ri, co­me fa­te a ge­sti­re que­ste si­tua­zio­ni?
Ab­bia­mo bi­so­gno di aiu­to e di su­per­vi­sio­ne. Nes­su­no di noi rie­sce a fa­re que­sto la­vo­ro da so­lo. La for­tu­na, la pos­si­bi­li­tà di far­lo è le­ga­ta al fat­to di la­vo­ra­re in équi­pe. Una per­so­na da so­la lo fa per un po’ e poi chiu­de, per­ché il ba­ga­glio che ti tra­sci­ni è co­sì pe­san­te che non rie­sci ad an­da­re avan­ti. Non è ve­ro che ci si abi­tua al­la sof­fe­ren­za. Ogni bam­bi­no ha una sua sto­ria, e co­sì ogni fa­mi­glia; bi­so­gna po­ter con­di­vi­de­re i dub­bi, le dif­fi­col­tà, po­ter di­re: guar­da, con quel bam­bi­no non ce la fac­cio, per­ché mi toc­ca, non rie­sco a fa­re ve­ra­men­te il me­di­co, l’in­fer­mie­re.
L’al­tra fac­cia del­la me­da­glia è che tut­ti pen­sa­no che que­sto la­vo­ro sia pu­ro ha­ra­ki­ri del cor­po e del­l’a­ni­ma. È ve­ro, è un la­vo­ro che ti per­met­te di ar­ri­va­re al noc­cio­lo, ma non in ma­nie­ra emo­ti­va, ben­sì con estre­ma pro­fes­sio­na­li­tà. Le cu­re pal­lia­ti­ve non so­no un’al­ter­na­ti­va, né una me­di­ci­na di se­rie B, o una co­sa di pu­ro set­ting: la mu­si­co­te­ra­pia, l’ar­te­te­ra­pia… So­no una gran­dis­si­ma pro­fes­sio­na­li­tà, ri­chie­do­no del­le com­pe­ten­ze spe­ci­fi­che: tut­ti noi ar­ri­via­mo da un am­bi­to di cri­ti­ci­tà, sia­mo pe­dia­tri, ria­ni­ma­to­ri, ane­ste­si­sti; bi­so­gna poi for­mar­si sul­le que­stio­ni eti­che e co­no­sce­re le nor­ma­ti­ve per­ché si la­vo­ra con il ter­ri­to­rio, con le isti­tu­zio­ni.
Pur­trop­po c’è una gros­sa ca­ren­za di for­ma­zio­ne: a li­vel­lo di per­cor­si uni­ver­si­ta­ri si fa an­co­ra po­chis­si­mo, si fa mol­to di più in am­bi­to in­fer­mie­ri­sti­co che non me­di­co.
Inol­tre non esi­ste la spe­cia­li­tà in cu­re pal­lia­ti­ve, ci so­no per­cor­si di for­ma­zio­ne po­st lau­rea, ma ser­vi­reb­be una stra­te­gia per in­tro­dur­re que­sti con­cet­ti fin dal­l’i­ni­zio del per­cor­so di for­ma­zio­ne pro­fes­sio­na­le.
Per di­re, og­gi è ac­qui­si­to che l’o­spe­da­le de­v’es­se­re un luo­go per acu­ti e che il cro­ni­co va ge­sti­to in po­sti di­ver­si. Per il bam­bi­no in­gua­ri­bi­le va­le lo stes­so di­scor­so: il po­sto mi­glio­re è a ca­sa con una re­te di sup­por­to e del­le ri­spo­ste re­si­den­zia­li, che non pos­so­no es­se­re l’o­spe­da­le per acu­ti e tan­to­me­no ­l’hospice per adul­ti. De­v’es­se­re una strut­tu­ra ad hoc co­me l’ho­spi­ce pe­dia­tri­co. Noi non ac­cet­tia­mo che un bam­bi­no car­dio­pa­ti­co sia ri­co­ve­ra­to nel­la car­dio­lo­gia del­l’a­dul­to, pe­rò ac­cet­tia­mo che un bam­bi­no pos­sa mo­ri­re in un po­sto or­ga­niz­za­to e ge­sti­to per il pa­zien­te adul­to, spes­so an­zia­no.

Quan­ti de­gli ol­tre tren­ta­mi­la bam­bi­ni che ne­ces­si­ta­no di cu­re pal­lia­ti­ve ne han­no ef­fet­ti­va­men­te ac­ces­so?
Da­gli ul­ti­mi da­ti, me­no del 5%. Ac­ce­do­no più fa­cil­men­te i bam­bi­ni che han­no più di 12-13 an­ni, ma­la­ti di pa­to­lo­gie del ti­po on­co­lo­gi­co e che ri­sie­do­no nel­l’I­ta­lia del Nord.

Quan­ti ho­spi­ce pe­dia­tri­ci ci so­no in Ita­lia?
Ol­tre a noi, ce n’è uno a To­ri­no, c’è il Meyer a Fi­ren­ze, ce n’è uno a Na­po­li, ne stan­no apren­do uno al Ga­sli­ni di Ge­no­va, uno in Ba­si­li­ca­ta, pe­rò i po­sti a di­spo­si­zio­ne so­no po­chi, non più di ven­ti-ven­ti­cin­que in tut­to, per tren­ta­mi­la bam­bi­ni.

E gli al­tri bam­bi­ni?
I più gran­di van­no nel­l’ho­spi­ce del­l’a­dul­to. I più pic­co­li­ni muo­io­no nel­l’o­spe­da­le per acu­ti, con tut­ti i li­mi­ti che que­sto de­ter­mi­na, per­ché di so­li­to re­sta­no ri­co­ve­ra­ti tan­tis­si­mo, al­le vol­te me­si, si scom­pa­gi­na la fa­mi­glia… I ge­ni­to­ri in qual­che mo­do cer­ca­no di ar­ran­giar­si, ti­ra­no fuo­ri tut­ta la lo­ro grin­ta, do­po­di­ché chi ha il co­rag­gio e i mez­zi se ne va a ca­sa, e chi non ce li ha se ne sta in ospe­da­le. Que­sto non è giu­sto.

Bar­ba­ra Ber­ton­cin per Unacittà

(28 aprile 2017)