Il nesso di continuità

torino vercelliCome non è vero che il fascismo-regime possa ripresentarsi dietro l’angolo, quasi fosse un farmaco indigesto che si può usare in tutte le situazioni di malessere, così ha ben poca sostanza l’atteggiamento che a tutti i costi riduce le manifestazioni di reviviscenza del neofascismo (che è in sé altra cosa dall’esperienza del ventennio mussoliniano) a puri fenomeni “folcloristici”. Non serve a nulla urlare, concorrendo in tale modo ad amplificare lo spazio mediatico di gruppi e gruppuscoli della destra radicale, già da adesso del tutto sproporzionato rispetto alla loro effettiva consistenza. Ma ancora meno funge il dirsi, con falsa rassicurazione, che quel che è stato non tornerà mai più, in alcuna forma. E che quindi è bene non curarsi dei suoi eventuali rigurgiti. Se nel primo caso si fa del gratuito allarmismo, nel secondo ci si auto-inganna. Lo si dovrebbe avere oramai pienamente inteso: la storia non si ripete mai in quanto tale ma alcuni elementi possono a volte ripresentarsi, soprattutto quando il meccanismo di funzionamento delle società si inceppa o si fa più farraginoso. Ha quindi ancora meno senso, a tale riguardo, affermare che il vero ed esclusivo nemico delle società democratiche sia il solo fondamentalismo islamista, laddove questo avrebbe soppiantato, in tutto e per tutto, i fanatismi trascorsi, questi ultimi anacronistici per la loro matrice più strettamente politica. Poiché, se non altro, esiste tra questo e quelli una sorta di filo nero che sancisce invece una qualche continuità della trama storica. In altre parole, non si dà un effetto di sostituzione ma, semmai, di compresenza. La qual cosa, paradossalmente, nel momento in cui determina la drammatica emergenza e la clamorosa evidenza di un certo tipo di terrorismo su base “religiosa”, dall’altro agevola, come falsa forma di reazione, il ritorno di temi, motivi ma anche attori e soggetti politici che ripetono come un mantra che il vero problema risiederebbe nella natura liberale dei nostri ordinamenti pubblici. Abrogando o comunque attenuando questa, saremmo tutti “più sicuri”. In buona sostanza, meno libertà per minori rischi. Lo sconcio sta poi nel fatto che in realtà, grattando anche di poco sotto la patina di vernice di tutti questi fenomeni, quand’anche essi si presentino gli uni come la necessaria risposta (o la reazione difensiva) agli altri, risultano invece essere accomunati dall’avversione contro gli stessi obiettivi. No, nessuna facile sovrapposizione, motivata altrimenti solo dal bisogno di fare polemica stabilendo improprie ed incongrue reciprocità. Ma qualche attenzione nei confronti di quell’azione di trasmissione del patrimonio genetico del totalitarismo (chiamiamolo così, in mancanza di altre parole) tra vecchie e nuove forme dell’intolleranza radicale, dovrà pur essere offerta. Tralasciando diagnosi semplicistiche. Poiché la vera minaccia, oggi, non è dettata dalla tracotanza di quanti si oppongono ad una società «aperta» in quanto pluralista, ma dalle stesse fragilità che quest’ultima manifesta quando non riesce a legare al pluralismo medesimo il soddisfacimento del bisogno di solidarietà. Che non è un tema, o un discorso, di parte. È semmai il rimando al rapporto – questo sì immediatamente reciproco – tra lo spazio delle libertà individuali e la sfera dei legami collettivi. Il totalitarismo comprime le prime dentro le logiche ferree dell’uniformità di massa, stritolando chiunque non se ne adegui. Per questo è una “totalità”. La democrazia debole, invece, scioglie i rapporti sociali dentro l’individualismo, che dell’individuo come essere concreto ne costituisce una delle maggiori deformazioni. In quest’ultimo cortocircuito, dove la libertà formale viene fatta corrispondere alla mancanza di reali opportunità, si inseriscono quanti garantiscono una qualche “protezione” collettiva di contro all’emancipazione individuale. Un po’ come se dicessero: “che te ne fai della libertà se ti senti insicuro? Marcia con noi, ti garantiremo un qualche futuro”. Vecchio discorso, quest’ultimo, che viene ripetuto da attori con abiti differenti ma con la medesima visione delle cose, quella dell’Apocalisse. Del cui culto si fanno ministri. Allora come oggi.

Claudio Vercelli

(17 dicembre 2017)