Periscopio – Cognizione dell’umano

lucreziNei tempi bui che stiamo vivendo, che vede uscire, in tutto il mondo, dal riaperto vaso di Pandòra, un impressionante rigurgito dei fantasmi del passato, ci si sarebbe aspettato come inevitabile e naturale un calo di interesse verso le manifestazioni per il Giorno della Memoria, parallelo e conseguente al potente, dilagante fenomeno di smemoramento collettivo, nel quale sguazzano le miriadi di neofascisti e razzisti di ogni colore (neri, rossi, verdi, gialli…) che infestano le città d’Europa. Questo, però, non accade, non è accaduto. Le manifestazioni sono state molte, in tutta Italia, col coinvolgimento di migliaia di educatori, storici, analisti, e decine di migliaia di studenti, di diverse età.
I mezzi di informazione hanno prodotto un impegno imponente e lodevole, la voce dei Testimoni è risuonata forte e chiara, e le nette e limpide parole del Capo dello Stato, di Liliana Segre e di Pietro Terracina sono state ascoltate, in milioni di case, come un monito fermo e severo. Non sono mancate, ovviamente, le turpi sceneggiate degli odiatori di professione – particolarmente disgustosa, tra le tante, quella organizzata da alcuni pseudostudenti dell’Università di Torino -, per i quali ricordare significa rimpiangere e proseguire il lavoro dei loro precursori degli anni ’30 e ’40: e la loro disgustosa propaganda serve e a ricordare, come scrisse Primo Levi, che la guerra non è mai finita. Ma, nella stragrande maggioranza dei casi, non si può negare che il desiderio di comprensione e partecipazione sia stato nobile e sincero. Forse, proprio perché consapevole di avere imboccato una strada pericolosa e inquietante, c’è almeno una parte di Paese che vuole aggrapparsi a un’ancora di etica, di solidarietà, che salvi dalla completa perdizione. Speriamo.
Tra le molte iniziative che ho potuto seguire, da vicino e da lontano, e tra quelle a cui ho potuto anche portare un piccolo contributo personale, vorrei solo menzionare l’interessante dibattito, svoltosi lunedì scorso, 29 gennaio, presso l’Università Federico II di Napoli, organizzato dal Centro Interuniversitario di Ricerca Bioetica (su iniziativa, principalmente, oltre che del Direttore del CIRB, Claudio Buccelli, e di tutto il Consiglio Direttivo, della filosofa Emilia D’Antuono, grande custode e seminatrice di Memoria) sul tema “Primo Levi e la cognizione dell’umano”, nel corso del quale l’insegnamento del grande scrittore e testimone (il cui pensiero, com’è noto, appare, negli ultimi anni, oggetto di un interesse sempre crescente, attestato anche da nuove, importanti iniziative editoriali, volte a ulteriormente divulgarlo e analizzarlo) è stato preso in considerazione attraverso un’analisi che mi è parsa particolarmente lucida e attuale.
Come ho cercato di illustrare nel mio breve intervento, parlare della “cognizione dell’umano” in Primo Levi significa condurre un’analisi doppia, e doppiamente difficile, in quanto, alla comprensione di “ciò che è stato” (che lo stesso Primo Levi, con le medesime argomentazioni di Elie Wiesel, dichiara impossibile), si aggiunge la comprensione e l’interpretazione di “ciò che è stato raccontato”, “ciò che è stato testimoniato”. Le parole di Primo Levi, in quanto fonte di ricostruzione storica, di “res gestae”, sono parte della “historia rerum gestarum”, e vanno anche lette e analizzate in quest’ottica. Cosa fa capire la testimonianza di ciò che è accaduto? Può trasmettere qualche forma di ‘verità’, di insegnamento? È una forma di racconto che può essere capito, interiorizzato? E qui si assiste al grande paradosso per cui il senso ultimo della lezione di Levi coincide con il sostanziale fallimento della sua missione, eloquentemente attestato dal gesto ultimo che chiude la su esistenza. Che è poi il fallimento della scienza – perché Primo Levi, anche quando scriveva, restava sempre, innanzitutto, uno scienziato -, abituata a dare spiegazioni e risposte razionali, chiamata a inoltrarsi nel terreno della più assoluta e definitiva irrazionalità.
Il Levi narratore, chimico e scienziato, ricorda se stesso come l’analista di un laboratorio nel quale, un giorno, a seguito di una inedita tempesta astrale, sorta da una nera voragine dell’universo, tutte le reazioni fisiche e chimiche risultano capovolte: è scomparsa la forza di gravità, l’acqua è diventata fuoco, le molecole esplodono senza ragione, gli atomi si azzannano, l’un l’altro, come cani rabbiosi, e l’analista viene legato a un letto di ferro, come una cavia, per essere seviziato. Passata (o allontanatasi?) la tempesta, tutto torna come prima: l’acqua ritorna acqua, il fuoco, fuoco, le vere cavie tornano nelle gabbie e il dottore, dismesso il pigiama a righe, rindossa il consueto camice bianco. E deve spiegare, da scienziato, cosa sia mai successo. Ma cosa potrà mai capire, cosa potrà dire? Non gli resta che contemplare l’immagine – non un ricordo, ma un eterno presente – del suo corpo legato e immobilizzato, in attesa che anche il suo destino – solo rinviato – si compia, per la sua condizione arcana e ineludibile di vittima sacrificale, di “homo sacer” (titolo della famosa trilogia di Giorgio Agamben, il cui terzo, illuminante volume, “Quel che resta di Auschwitz”, è dedicato, appunto, alla drammatica e tenebrosa parabola di Levi, e della sua impossibile testimonianza).

Francesco Lucrezi, storico

(31 gennaio 2018)