La scuola che vogliamo

anna segreApparentemente tutti concordano nel dire che uno dei principali problemi della scuola italiana di oggi è la perdita di autorevolezza della figura dell’insegnante. Curiosamente, però, molti di coloro che condividono questa opinione contribuiscono a questa perdita di dignità sentendosi in diritto di pontificare sulla scuola senza averne una conoscenza diretta, come se le competenze e la professionalità dei docenti e dei dirigenti scolastici fossero del tutto irrilevanti. Non che questo debba sorprenderci più di tanto in un paese in cui chiunque si sente legittimato ad esprimere pareri su qualunque argomento. Dunque il decalogo sulla scuola proposto alcuni giorni fa da Ernesto Galli della Loggia si inserisce nel consueto costume italiano e non varrebbe la pena di parlarne se non fosse stato citato su queste colonne come modello da seguire (almeno in parte) per le scuole ebraiche italiane. Questo mi sorprende e mi sconcerta perché almeno due punti di quel decalogo mi sembrano del tutto in contrasto con quello che una scuola ebraica dovrebbe proporre ai suoi allievi, sia sul piano pratico sia su quello dei valori.
Prima di tutto, perché dovrebbero essere vietate le gite scolastiche fuori dall’Italia? Dovremmo proibire i viaggi in Israele? Dovremmo togliere ai ragazzi ebrei italiani la possibilità di conoscere comunità ebraiche europee più grandi della nostra e di incontrare i loro coetanei di tutta Europa? La proposta, peraltro, mi pare assurda anche per le scuole pubbliche: perché in un paese in cui lo studio delle lingue straniere è da sempre un punto dolente non si dovrebbe utilizzare l’occasione del viaggio di istruzione per permettere agli studenti di esercitare il loro francese, inglese, tedesco, spagnolo? E perché un liceo classico non dovrebbe organizzare viaggi in Grecia per chi ha studiato per cinque anni la lingua e la letteratura greca? Perché dovremmo vietare i viaggi della memoria ad Auschwitz? Perché dovremmo insegnare agli allievi a sentirsi un po’ meno europei?
Altrettanto paradossale la proposta di un divieto assoluto degli smartphone – che in molti contesti significherebbe in pratica divieto di accesso a internet – e l’incentivo a utilizzare invece le biblioteche, che presumibilmente contengono testi vecchi di almeno cinquant’anni (quando insegnavo alla scuola ebraica i libri della biblioteca erano più o meno gli stessi di quando ero allieva, e nella biblioteca della scuola in cui insegno adesso ci sono più o meno gli stessi libri che forse sono stati consultati e presi in prestito dalle mie zie). Come si può in Italia insegnare ebraico ed ebraismo senza internet? Come si può in generale insegnare qualunque cosa incentivando gli allievi a utilizzare solo libri che hanno più di cinquant’anni e impedendo di fatto l’accesso a testi più aggiornati?
So bene che chi ha suggerito di applicare in parte il decalogo alle scuole ebraiche italiane non aveva in mente questi due punti. Tuttavia ritengo che essi siano sufficienti a far suonare un campanello d’allarme sul decalogo in generale e sulla visione del mondo che lascia trasparire: una mentalità chiusa e provinciale, pregiudizialmente ostile verso tutto ciò che è nuovo o è straniero, volta a restaurare non solo l’autorevolezza che gli insegnati avevano cinquant’anni fa (che sarebbe una buona cosa) ma in generale tutti i valori della scuola di cinquant’anni fa, che poi a sua volta era l’erede della scuola fascista. Che un’idea di scuola così chiusa, provinciale e arretrata venga pubblicata come proposta di buon senso su uno dei più importanti quotidiani nazionali mi pare un sintomo inquietante della brutta aria che tira in Italia di questi tempi.

Anna Segre, insegnante

(15 giugno 2018)