…testimonianza

Prima che qualche negazionista se ne accorga e si diletti a infangare persone e fatti storici sarà bene fare chiarezza su un libro e su una testimonianza che non sembra avere riscontro nella realtà. Lo faccio con cautela, conscio del valore che il tema della testimonianza ha assunto in questi ultimi decenni come elemento a supporto di una necessaria ricostruzione storica, in particolare degli eventi legati allo sterminio degli ebrei in Europa. La Fondazione CDEC da molto tempo raccoglie memorie scritte e orali nel rispetto dei criteri di ricerca storica: si accolgono le testimonianze, quindi si sottopongono a verifica documentaria e si contestualizzano. A volte il trascorrere del tempo o l’età avanzata possono produrre delle imprecisioni, e proprio la ricerca storica riconduce il ricordo annebbiato alla sua dimensione reale. Per nostra fortuna le fonti archivistiche in questo senso sono molto ricche e ancora in parte inesplorate. Le hanno prodotte gli stessi massacratori, molto precisi nello stilare elenchi e descrivere situazioni. Tuttavia è capitato a volte che siano apparsi negli anni alcuni testimoni non credibili, che seguendo dinamiche psicologiche complesse e tutte da studiare hanno raccontato storie personali di persecuzioni non supportate da riscontri documentari. Se ne è occupata fra l’altro Frida Bertolini nel bel libro “Gli inganni della memoria. Testimonianza, falsificazioni, negazioni” (Milano 2016). In questo contesto, nelle scorse settimane è stato pubblicato un volume che riporta le parole di un anziano signore che viene a volte invitato come testimone della deportazione ad Auschwitz di cui sarebbe stato vittima da bambino. La fame di testimoni – che ormai per ragioni anagrafiche vanno progressivamente scomparendo – spinge spesso istituti scolastici e istituzioni pubbliche a non vagliare con la dovuta attenzione lo spessore storico e la credibilità di chi viene invitato. Disgraziatamente, il valore di testimonianza del testo di Samuele G. Artale von Belskoj-Levy, “LeChaim – Alla vita” (GMC Editore, Busto Arsizio 2018) è fondato su ricostruzioni storiche non corrette e su ricordi che non hanno riscontri. Lo scrittore racconta di essere nato a Rostock e di essere stato deportato bambino con tutta la sua famiglia nel 1944. Racconta anche che ad Auschwitz avrebbe lavorato nei Sonderkommando. Sfortunatamente i ricercatori hanno disegnato con estrema chiarezza le vicende tragiche della comunità ebraica di Rostock che era molto piccola. Ci sono due siti web (http://www.juden-in-rostock.de/index.html http://max-samuel-haus.de/index-e.html) a cui fare riferimento e ci sono le fonti documentarie raccolte allo Yad Vashem. L’archivio della croce rossa a Bad Arolsen tace sul nome dell’autore che non risulta fra i prigionieri dei campi nazisti. Secondo lo studioso Frank Schröder, che ha studiato la storia della comunità ebraica di Rostock per circa trent’anni, la comunità è esistita tra il 1868 e il 1942 non superando mai le 400 persone circa http://www.juden-in-mecklenburg.de/Orte/Rostock . Nel 1933 la comunità era composta da 366 persone. Per questo motivo non è stato molto difficile studiarne la storia e conoscerne le vicende. Secondo lo studioso, soltanto una nascita sarebbe avvenuta alla fine degli anni ’30, cioè quella di Ossi Steinfeldt, nato il 4.4.1938, deportato e ucciso ad Auschwitz. Inoltre, da Rostock partì un unico convoglio di ebrei deportati ad Auschwitz e cioè quello dell’11 luglio 1942 (e nessuno nel 1944 come afferma l’Autore). Nell’ordine di deportazione erano elencati tutti i nomi dei deportati, e i nomi dei componenti la famiglia von Belskoj Levy non vi compaiono. Non conosciamo la ragione per cui l’anziano autore da oltre dieci anni si impegni a parlare con studenti e cittadini sul tema delicato della Shoah. Sappiamo per certo che non lo fa in cattiva fede. Sappiamo anche che i suoi interventi sono apprezzati. È sempre emozionante, specialmente per un giovane, sentire testimonianze di chi bambino ha subito le atrocità delle deportazioni e dei campi di sterminio. Purtroppo le vicende descritte nel libro non trovano riscontri. Lo dico e lo scrivo per difendere il rigore di un lavoro scientifico formidabile che da decenni la Fondazione CDEC e altre importanti istituzioni di ricerca stanno conducendo nel mondo sul tema delle testimonianze e della storia orale come fonte storica preziosa e spesso insostituibile. Lo dico anche per prevenire la tentazione di qualche volonteroso negazionista che potrebbe aver voglia di acquistare quel libro e coglierne l’inconsistenza narrativa, magari sfruttandola ancora una volta per gettare fango sulla tragedia della Shoah.

Gadi Luzzatto Voghera, Direttore Fondazione CDEC

(22 febbraio 2019)