Chad Gadya nel ghetto
“Era tutto un flusso – non vi era null’altro che il flusso. Panta rei. Il più saggio aveva sempre compreso ciò. Il gatto che divorò il capretto, e il cane che morse il gatto, e il bastone che picchiò il cane, e il fuoco che bruciò il bastone, e così via senza fine”. Dei racconti contenuti nei “Sognatori del ghetto” di Israel Zangwill, l’ultimo, “Chad Gadya”, è quello che Charles Péguy non esitò a definire un capolavoro. Oggi il volume viene ripresentato dall’editore Lindau nella versione italiana del 1920 di Gian Dàuli, opportunamente aggiornata ma non stravolta.
Questo libro, nelle parole del suo stesso autore, è “il racconto di un sogno che non si è avverato”, il sogno ebraico a lungo coltivato dell’uscita dal ghetto. Un sogno che sembra a portata di mano con l’arrivo della bella stagione della modernità e il suo carico di novità, ma si rovescia in illusione con l’erezione di nuove mura che delimitano ghetti imposti da un odio che si ostina a cercare anche nel simile una diversità irriducibile; oppure ghetti desiderati in nome della paura della novità a volte, altre volte del ricordo dei padri che durante la schiavitù mangiavano i piatti poveri della tradizione, eppure mangiavano e si nutrivano, o ancora luoghi dove cercare protezione dai pericoli e dalle lusinghe di un mondo sempre più complesso.
Lo insegna la storia di Chad Gadya, che gli ebrei di tutto il mondo cantano a conclusione del seder di Pesach ogni anno da centinaia, forse migliaia di anni. “Non vi era nulla di nuovo sotto il sole. La vita come una storia raccontata da un idiota, piena di rumore e di furia, e significante nulla”. Nel racconto di Zangwill ambientato in una Venezia fuori dal tempo c’è qualcosa di Spinoza, qualcosa di Heine. C’è, soprattutto, il ghetto e la catena della necessità che sembra non si possa spezzare mai. “Chad Gadya! Chad Gadya! Era un lamento sulla lotta per resistenza, la inutile processione dei secoli, lo scomparire degli antichi imperi – come avevano rilevato i commentatori – e degli imperi moderni che finirebbero per andarli a raggiungere, finché la terra stessa – come hanno rilevato gli scientisti – finirebbe nel freddo e nelle tenebre. Flusso e riflusso, il fuoco e l’acqua, l’acqua e il fuoco!”
Nella scena di apertura del “Rabbi di Bacherach” di Heine il seder di Pesach viene interrotto prima da misteriosi visitatori, poi dall’infuriare di un pogrom e dalla fuga del rabbi Abraham con la moglie Sara sul Reno in una notte di primavera profumata di fiori, tiepida e stellata, una notte lirica che ricorda quella in cui la manzoniana Lucia sulle acque del lago si rivolge in lacrime ai monti, ai campi e alle case del paese natale che sta lasciando forse per sempre. “Vedi l’angelo della morte?”, dice il rabbi alla moglie, “Laggiù, egli aleggia sopra Bacherach! Ma noi siamo sfuggiti alla sua spada! Sia lodato il Signore!”. Il grande poeta tedesco sceglie per i suoi personaggi la fuga onirica, ma il finale per Zangwill “pittore del ghetto” – le parole sono di Gian Dàuli – è se possibile ancora più drammatico.
“Chad Gadya! Chad Gadya! Egli non aveva mai pensato al significato delle parole, connettendole sempre col finire della cerimonia. ‘Tutto finito! Tutto finito!’ Sembravano lamentare, e pareva che nella strana musica vi fosse un senso di infinita delusione, d’infinito riposo; una maniera di finire, una conclusione, cose fatte e finite, una febbre calmata, un lavoro completato, un clamore abbattuto, una campana a morto, un incrociare delle braccia per dormire”.
Giorgio Berruto