La scomparsa di Vittorio Foa, padre nobile e coscienza critica della sinistra italiana
Padre nobile e voce critica, pungolo e maestro, eretico e castigamatti. Insomma, una figura unica e a tratti scomoda per la sinistra italiana. La straordinaria complessità della traiettoria umana e politica di Vittorio Foa rimbalza, all’indomani della sua scomparsa, avvenuta all’età di 98 anni mercoledì 20 ottobre, sui principali quotidiani che all’avvenimento dedicano ampio spazio.
Negli articoli, quasi tutti dalla penna di grandi firme del giornalismo italiano, i ricordi (alcuni in prima persona) si alternano alle riflessioni e all’analisi del contemporaneo, quasi in un estremo omaggio alla lezione di Foa, che fino all’ultimo ha voluto misurarsi con l’attualità e con il futuro anziché indulgere alle nostalgie. Tanto che, come riferisce sull’Unità Simone Collini in un’intervista alla moglie di Foa Maria Teresa Tatò, a contrassegnare i suoi ultimi giorni fu un forte interesse per le elezioni americane e la speranza della vittoria di Obama. Ad accomunare i diversi interventi è la stessa biografia di Vittorio Foa, così densa di avvenimenti e d’incontri memorabili, ponderoso filo conduttore da cui si dipartono spigolature spesso di grande interesse.
“Nel Novecento e nello scorcio di ventunesimo secolo che gli è capitato di vivere è stata una personalità politica e intellettuale largamente sui generis, restia a farsi rinchiudere in cliché consolidati: a modo suo un irregolare che conosceva per il valore della disciplina e l’importanza della mediazione”, scrive sul Corriere della sera Paolo Franchi dopo avere ripercorso alcuni degli eventi salienti della vicenda di Foa.
Franchi si sofferma quindi sul rapporto di Vittorio Foa con il sindacato. “La sua casa – afferma – fu la Cgil sempre considerato la parte più bella e importante della sua vita, quella cui si reputava in cuor suo più fedele. Contava, eccome, la difesa, in anni durissimi, dell’«unità di classe», come si diceva allora, nel cui nome tante cose potevano essere sacrificate. Ma contava almeno altrettanto la curiosità politica, intellettuale ed umana combinata al rigore e ancora il fatto che la Cgil fosse un luogo di operai in carne ed ossa, dove ci si provava a sperimentare forme di autonomia e di autogoverno, e dal quale si poteva cercare di confrontarsi, molto più che dai partiti della sinistra, con gli sconvolgimenti tellurici che cambiavano la morfologia della fabbrica, della classe operaia e della società”.
Sul Giornale Massimo Teodori dedica invece un passaggio al rapporto di Foa con il comunismo. “Con Foa – scrive – scompare l’ultimo testimone delle due ideologie tragicamente criminali del Novecento: il nazifascismo a cui si oppose con la sua intera persona, e il comunismo staliniano e togliattiano alla cui egemonia non seppe ribellarsi. Intellettuale, politico e sindacalista di singolare finezza, uomo di profonda tempra morale, Foa ha vissuto fino in fondo l’angosciosa contraddizione degli intellettuali engagé che, pur non essendo comunisti, non riuscirono mai a recidere il cordone ombelicale e a mettere a nudo la verità del totalitarismo rosso”.
Mario Ajello, sul Messaggero sottolinea la capacità anticipatrice di Vittorio Foa, giudicato una voce sempre avanti: post fordista quando la sinistra faticava ancora a liberarsi dall’operaismo, fautore dell’unità tra riformisti laici e cattolici quando le contraddizioni interne alla sinistra erano ancora insuperabili e fiducioso nell’evoluzione democratica della destra quando il dialogo bipartisan era ancora impensabile.
Il suo ruolo critico rispetto alla sinistra è ben sottolineato anche su Liberal, il quotidiano diretto dal figlio di Vittorio, Renzo Foa, da un ampio articolo a firma di Riccardo Paradisi. “Al di là dei ruoli che ha giocato nella scena politica e culturale del nostro Paese – scrive – Foa è stato una coscienza critica del Novecento italiano, dei suoi slanci e dei suoi orrori, delle sue speranze e dei suoi incubi. Non solo un testimone del Secolo breve ma un suo protagonista inquieto (…)”. “In un confronto con Indro Montanelli e Beniamino Placido siamo nei primissimi anni Novanta Foa – continua Paradisi – fa un’analisi spietata dei tic e dei tabù della sinistra italiana: «Il Paese, dice, non volta le spalle alla sinistra perché è immaturo. Non si può accusare il Paese della colpa di votare come gli pare. C’è una malattia della sinistra che pure è un’idea che io ho sempre vissuto come speranza e fiducia nel popolo, nei lavoratori che va finalmente riconosciuta e affrontata. Questa malattia consiste nella mancanza di fiducia nel prossimo. Se io chiedo la fiducia alla gente non devo pensare di essere superiore, devo saper imparare dalla gente. Devo sapere ascoltare». Un invito alla sinistra a una maggiore umiltà e a liberarsi dei suoi complessi di superiorità certamente ma anche un monito a liberarsi di ogni residuo antiliberale, di un’antica impazienza verso la tolleranza per l’altro da sé” “(…) il peggior modo per ricordare Vittorio Foa – conclude Paradisi. è fare di lui un monumento. Non è stato un monumento in vita malgrado l’insistito omaggio che gli veniva tributato e non deve diventarlo da morto. Un monumento lo trovi dove lo hai lasciato, Vittorio Foa invece lo trovavi sempre dove non ti aspettavi. Perché c’è sempre una strada nuova oltre quelle conosciute. «Perché le cose come diceva non devono andare come vogliono loro»”.
Contro la tentazione di trasformare Vittorio Foa in un silenzioso monumento della sinistra si schiera anche Nello Ajello che su Repubblica sottolinea la stringente attualità della sua lezione. “Soprattutto proclamava – scrive – il sacro dovere di non lamentarsi. (…) C’erano una volta delle belle ideologie e sono venute meno: come facciamo?». E si rispondeva: «Se invece di piangere come orfanelli criticassimo sul serio quelle che non erano ideologie ma semplici frivolezze, potremmo finalmente entrare nel futuro. E dare anche un senso al passato». Che per un combattente è un modo molto leggero, poetico, appunto di dettare la propria lapide”.
Di futuro parla anche Peppino Caldarola sul Riformista. “Nella sua vita – afferma – ha accompagnato tutte le avventure politiche più radicali, ma forse era più riformista di tanti altri. «Pensare in grande – scrisse – è necessario proprio per agire in piccolo, per fare i piccoli passi concreti ogni giorno». Il suo riformismo e il suo radicalismo stavano in quella che lui chiamava la legge di movimento per cui ad ogni conquista cercava di capire chi stava dentro e chi stava fuori e quali nuovi opportunità venissero non per la sinistra ma per tutti. Non era un ribelle ma incoraggi tutte le rivolte contro il quieto vivere e la pigrizia intellettuale. Lottò contro la tristezza e il grigiore quando li vedeva affiorare nella sinistra. Quasi al culmine dei cent’anni c’ha insegnato il futuro”.
La capacità critica di Foa torna sulla Stampa in un pezzo di Riccardo Barenghi, già direttore del Manifesto, intitolato con affetto “Vittorio Foa castigamatti della sinistra”. “Non ha mai smesso di far politica – scrive Barenghi – di intervenire nella politica, di dire la sua. Antifascista, azionista, messo in galera sotto il regime, intellettuale, sindacalista, socialista di sinistra, mai comunista (semmai anticomunista), Vittorio Foa non è stato solo un padre nobile della sinistra (una frase fatta quanto banale) ma un «rompiscatole> della sinistra stessa, uno che non gliene ha mai perdonata una. Lui diceva quel che pensava sempre e comunque. Per esempio quando lasci di stucco tutti e si schierò a favore della guerra del Golfo nel 1991. O quando si iscrisse al Pds deludendo quelli (a cominciare dal suo amico e allievo Bertinotti), che osteggiavano la svolta di Occhetto”.
“Un leader della sinistra – conclude Barenghi – che castigava la sua sinistra quando la vedeva sbandare ma che non l’avrebbe mai abbandonata. Tanto che pochi giorni prima delle elezioni (lei 2006 volle rispondere a Berlusconi che aveva definito coglioni gli elettori del centrosinistra. Così: «Piacere, mi chiamo Vittorio Foa e sono un coglione che vota a sinistra»”.
Liberazione si sofferma invece sul passato di Vittorio Foa di cui un articolo di Stefano Bocconetti
ricostruisce in modo particolare gli anni del carcere e della clandestinità. Sempre su Liberazione
le reazioni delle istituzioni e della società civile. In particolare Giorgio Napolitano ricorda «una delle figure di maggiore integrità e spessore intellettuale e morale della politica e del sindacalismo italiano del novecento». Il Corriere riporta anche i commenti di Gianfranco Fini: «Una luminosa figura della storia della Repubblica, un padre della democrazia italiana che ha onorato le istituzioni con la meritoria opera politica e con il lucido lavoro intellettuale, uniti al grande rigore morale e alla ferma coerenza personale” e del leader del Pd, Walter Veltroni «Un immenso dolore per noi, per gli italiani che credono nei valori di democrazia e libertà, per l’Italia che lavora, per il sindacato, a cui Vittorio Foa ha dedicato la parte più importante della sua vita».
Ancora il Corriere sottolinea come il cordoglio sia unanime “oltre ogni schieramento, nel mondo politico, del sindacato e della cultura”. “Grande laico – prosegue – a gennaio Foa accettò l’iscrizione onoraria alla comunità ebraica romana, ricorda il presidente Riccardo Pacifici: «Con lui ci lascia un ebreo della generazione di coloro che hanno vissuto in prima persona i postumi della prima guerra mondiale, l’avvento del fascismo, la privazione della libertà in quanto oppositore politico e la persecuzione del 1938 come ebreo»”.
Il Sole 24 ore propone un ritratto di Foa a firma di Andrea Casalegno dal titolo “Il Grande Vecchio con l’ideale della libertà” mentre sull’Unità
Bruno Ugolini ricorda l’intervento con cui Foa, al congresso della Cgil del 1969 a Livorno, diede la sveglia al sindacato precorrendo in larga misura i tempi con l’invito “a non aver paura dei nuovi movimenti anche di quelle avanguardie studentesche che venivano a bussare alle porte delle fabbriche” e a “procedere senza indugi nel cammino per la costruzione dell’unità sindacale”.
Un ricordo assai più intimo sulla cronaca di Torino di Repubblica nell’intervista di Massimo Trabucco al senatore Pietro Marcenaro che racconta con grande affetto l’amico appena scomparso.
La Voce repubblicana preferisce invece accentuare la vocazione liberalsocialista di Vittorio Foa e il suo ruolo di ribelle più che padre nobile della sinistra. La sua vocazione libertaria, si legge “trovò espressione – egli giovanissimo – in Giustizia e Libertà e, dopo il carcere, proprio nel Partito d’Azione. Una scelta di minoranza, la sua, rispetto ad una sinistra maggioritaria nel dopoguerra, dalla quale, pur subendone il fascino, seppe sempre tenere un elemento di distacco”. “Non è stato un padre della sinistra Foa, semmai un figlio ribelle – prosegue La Voce repubblicana – E fu critico rispetto alla sua stessa miiitanza, ammettendo che, in nome dell’unità della sinistra, aveva accettato l’omertà sui crimini del comunismo. Un difetto ben grave per cui egli ha una responsabilità limitata. Semmai ha avuto il coraggio della denuncia rispetto a chi ancora oggi fa finta di niente”.
Daniela Gross