Il mondo ebraico e Israele il doppio tema di Obama
Una campagna elettorale contrassegnata dalla duplice questione dei rapporti con il mondo ebraico e con Israele. A ripercorrere, sui principali quotidiani, le tappe di avvicinamento di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti il doppio tema emerge con prepotenza fin dagli esordi a segnalare una sentita esigenza politica del candidato democratico. Per tornare, inevitabilmente, nei commenti all’indomani della trionfale vittoria.
Il 6 novembre, mentre Alexander Stille ricostruisce su Repubblica la straordinaria traiettoria umana e politica di Obama dall’apartheid alla Casa Bianca, Fiamma Nirenstein su Panorama esprime forti preoccupazioni per le possibili ripercussioni della vittoria di Obama sul fronte mediorientale. “Un cambiamento della politica degli Stati Uniti potrebbe implicare anzitutto la revisione dell’intimo rapporto fra i popoli e i governi d’Israele e degli Usa”, scrive. Il timore è che, in antagonismo con la politica di Bush, Obama possa dare il via a un dialogo senza confini finendo così per danneggiare Israele.
Di parere opposto Gerald Steinberg, del Centro studi Strategici Besa dell’Università Bar Ilan di Tel Aviv, intervistato da Michele Giorgio sul Manifesto Israele, dice, non si attende «Nessun cambiamento drammatico, tra i nostri leader politici c’è serenità sui rapporti futuri con gli Stati Uniti. D’altronde Obama sarà molto impegnato a rilanciare l’economia americana e dovrà dedicare attenzione alle relazioni con Russia e Cina. Così il Medio Oriente che è stato per anni l’area d’intervento, anche militare, dell’Amministrazione Bush, è destinato, per un certo periodo di tempo, ad occupare poco spazio nell’agenda di Obama”. In ogni caso, conclude Steinberg “Obama è un uomo intelligente ed eviterà di esaurire la sua enorme carica lasciandosi coinvolgere in un conflitto che ha già provocato forti delusioni ai suoi predecessori”.
L’esordio di Obama è giudicato invece addirittura «perfetto», per Paul Berman, saggista e docente universitario, intervistato da Alessandra Farkas sul Corriere della sera che alla domanda perché non vi sia mai stato un presidente ebreo risponde diplomatico che «gli ebrei non hanno sofferto poi così tanto in America e la loro esperienza di persecuzione nel nuovo Continente non è certo paragonabile a quella dei neri. E comunque nel 2000 l’America aveva eletto un ebreo nelle presidenziali rubate da Bush: Joe Lieberman, il vice di Al Gore».
Tornando indietro di qualche giorno si entra nel vivo dei diversi orientamenti. Su Panorama Shimon Peres, intervistato da Franca Roiatti, scommette su Obama. “Lui rappresenta il cambiamento, ma poi deve introdurlo davvero, altrimenti sarà il paese a perdere”. Ma se a vincere fosse McCain, dice, per il Medio Oriente non sarebbe poi molto diverso: “le differenze soprattutto sulla politica estera sono minime”.
Il 4 novembre Eric Salerno sul Messaggero sottolinea invece come gli arabi puntino sul senatore nero mentre “in Israele la figura di Obama lascia quanto meno perplessi la maggioranza e tutta la destra: ha quel secondo nome Hussein e, poi, si fidano di più dei repubblicani. E, soprattutto, se vincerà, insistono gli strateghi, sarà più difficile pensare a un’operazione militare contro il nucleare di Teheran. Obama, concordano tutti, almeno a parole, sarà meno tollerante nei confronti dei coloni e degli estremisti. Contro di lui hanno già votato tre quarti degli americani d’Israele”.
Israele non è però gli Stati Uniti, come ricorda a fine ottobre un breve articolo sul Riformista, intitolato “Gli ebrei sono di Venere, gli israeliani di Marte” sottolinea la netta diversità di vedute all’interno del mondo ebraico. “Se le elezioni americane si tenessero in Israele anziché negli Usa (…) il 46% degli israeliani voterebbero John McCain, e solo il 34% per Barack Obama”. “Pochi giorni prima Gallup aveva pubblicato un sondaggio secondo cui ben il 75% degli ebrei americani (che a differenza degli israeliani sono chiamati alle urne) intendono votare per il candidato democratico”. “Tuttavia, il sostegno per Obama all’interno della comunità ebraica diminuisce, sebbene di poco, tra coloro che fanno della sicurezza d’Israele una priorità. Tra i cittadini di fede israelita che considerano la difesa di Israele una dèlle priorità circa il 63% intende votare per Obama. Mentre tra chi la considera la priorità principale solamente il 43% preferisce il candidato democratico. Inoltre, il 75% degli ebrei ortodossi ed ultra-ortodossi vota repubblicano. In questo caso, pi della sicurezza di Israele, contano i valori conservatori e l’enfasi sulla famiglia”.
Un’analisi del voto ebraico americano – genere giornalistico ricorrente in tutta la corsa verso la Casa bianca – si ritrova sul Sole 24 ore del primo novembre dove Marco Valsania intervista Steve Gutow rabbino e direttore esecutivo del Jewish council for foreign affaire. “La particolare influenza – scrive Valsania – è legata all’alta partecipazione al voto degli ebrei e alla loro presenza in regioni chiave sulla mappa elettorale: in Florida sono il 3,7% della popolazione ma rappresentano il 5% dei votanti. E altri Stati vantano un elettorato ebraico capace di agire da ago della bilancia: dalla Pennsylvania, il 2,3% della popolazione, all’Ohio, l’1% dei residenti, dal Missouri al Nevada. In Ohio tra i 100 mila probabili elettori indecisi si conterebbero 3omila ebrei”. “Per questo – prosegue – entrambi i candidati hanno corteggiato assiduamente la comunità; Obama ha mobilitato associazioni di base e ascoltati leader ebraici quali l’ex sindaco di New York Ed Koch. McCain ha utilizzato il senatore Joe Lieberman, ex candidato democratico alla vicepresidenza”.
“Alla vigilia del voto, spiega Gutow, entrambi i candidati sperano. Obama ha superato le resistenze iniziali, quando al contrario di McCain «aveva scontato il fatto di non essere conosciuto nella comunità». Da allora, aggiunge, «la crisi economica, anche tra gli ebrei, ha favorito Obama». La questione razziale potrebbe, alla fine, pesare meno che altrove nell’elettorato: la sensibilità all’essere minoranza, a diritti civili e impegno sociale, stando a Gutow potrebbe facilitare il voto a favore di un leader afroamericano. E conta, forse soprattutto, una lunga fedeltà democratica forgiata fin dagli anni della coalizione rooseveltiana del New Deal”.
Sul medesimo argomento si segnala, il 10 ottobre, un lungo articolo di Marco D’Eramo sul Manifesto.
“Va detto – scrive D’Eramo – che anche se non si chiamasse Hussein, Obama avrebbe lo stesso vita dura con la comunità ebraica per il solo essere nero. La diffidenza tra i due gruppi ha storia antica: un tempo gli ebrei occupavano nei ghetti neri la posizione dei coreani oggi: erano proprietari di groceries (alimentari e drogherie) e, in quanto tali, odiati quando non facevano credito e tagliavano i viveri ai clienti neri morosi. E, per quanto tra gli attivisti per i diritti civili dei neri vi fossero tanti militanti ebrei, l’attrito tra i due gruppi fu una delle cause che contribuì alla mancata confluenza tra il movimento nero e il movimento pacifista contro la guerra in Vietnam, a stragrande maggioranza bianca”. “Non stupisce perciò se il 4 giugno scorso, appena vinta la nomination, Obama sia subito corso alla convention dell’Aipac (American Israel Public Affairs Commettee) per rassicurarli sul suo incondizionato appoggio alla causa d’Israele e di una Gerusalemme unita al suo interno”. “Una parte della comunità ebraica – prosegue – sta cercando di mettere a frutto la candidatura di Obama per scalzare la vecchia leadership tradizionalista delle varie associazioni e promuovere esponenti che rispecchino il generale progressismo della comunità. Molti di loro hanno preso le difese di Obama: così J. J. Goldberg, direttore editoriale del settimanale The Forward, o lo storico Paul Berman, autore di Blacks and Jews (1994), o il rabbino Michael Lerner, direttore della rivista liberal Tikkun”.
Comunque anche al di là del mondo ebraico, come ricorda Roberto Rezzo sull’Unità del 26 giugno “la campagna di Barack Obama ha dedicato uno straordinario impegno per stringere contatti con le varie organizzazioni religiose”. Tanto che “in tutte le ultime presidenziali, l’affluenza in chiesa è stata il miglior indicatore dell’orientamento di voto”.
Accanto alla questione della sicurezza d’Israele, tema sempre fortemente sentito nell’ebraismo americano, a suscitare molti dubbi sono i legami di Obama con alcuni esponenti estremisti, tra cui ad esempio il reverendo Jesse Jackson che proprio durante la campagna elettorale lo aveva invitato a “liberare gli Stati Uniti dai sionisti” o figure vicine al mondo palestinese come Rashid Khalidi, docente alla Columbia University e in passato legato all’Olp un tempo vicino a Barack Obama e alla sua famiglia. Come riporta Guido Olimpio sul Corriere della sera del 30 ottobre McCain non esita a usare quest’elemento in chiave polemica contro l’avversario proprio alla vigilia del faccia a faccia in tv.
Un trait d’union, ovviamente del tutto involontario, tra realtà ebraiche e Obama viene invece dall’ostilità dello schieramento neonazista e ariano che si rifà alla mistica del Ku klux clan. Alberto Flores D’Arcais riferisce su Repubblica del 28 ottobre dell’arresto, avvenuto la settimana precedente, di due giovani neonazisti, Daniel Cowart, ventenne del Tennessee e Paul Schiesselman, diciottenne dell’Akansas che preparavano un attentato a Obama. A ricostruire gli scenari sociali e culturali in cui si consuma il tentativo è il giorno dopo, sempre su Repubblica un bell’articolo di Mario Calabresi.
A filtrare la questione Obama alla luce della sensibilità europea e italiana, affrontando l’influsso che le elezioni statunitensi potrebbero esercitare sulla nostra realtà dove è in atto una progressiva diffusione di culture razziste e xenofobe è un interessante intervento di Barbara Spinelli il 19 ottobre, sulla Stampa. “Se Barack Obama dovesse vincere – scrive – molte cose cambierebbero nei paesi europei tentati dalla chiusura allo straniero, non solo nella politica ma nel costume e nella conversazione cittadina. Per forza il ragionamento sulla mescolanza di culture incorporerebbe le scosse d’oltreoceano”.
“Dal dopoguerra – prosegue Spinelli – esiste una sorta di consenso progressista, a proposito delle minoranze, modellato sulla storia israeliana e sull’idea che ogni minoranza oppressa o discriminata, cominciando dai neri americani, ha da compiere un Esodo dalla schiavitù. L’Esodo è il nuovo mito planetario, e in genere si combina con il rigetto dell’assimilazione avvenuto nell’ebraismo europeo. Ambedue – mito e rigetto – vanno oggi rimeditati: la frammentazione identitaria non può divenire il modello d’ogni minoranza, pena l’impossibilità di quella coalizione delle culture cui accenna Lévi-Strauss quando invoca una storia cumulativa, non statica. L’assimilazione va rinominata, ma da essa occorrerà ripartire. È come se Obama avesse appreso da Lévi-Strauss le insidie delle solitudini storiche che fossilizzano”.
I mesi estivi mostrano con bella evidenza il dipanarsi del doppio tema ebraico -israeliano. A fine luglio Obama è in visita in Israele dove rassicura ripetutamente l’opinione pubblica. Scrive Alberto Flores D’Arcais su Repubblica del 24 luglio. “Obama ha voluto chiarire subito i punti che preoccupano di più gli israeliani. Ha detto che con Hamas, «che usa il terrore come arma, non si tratta», ha ripetuto che Gerusalemme «sarà la capitale indivisibile di Israele» precisando per che «la questione deve essere discussa con le parti coinvolte, i palestinesi e gli israeliani, e non sta agli Stati Uniti dettare la forma in cui questo avverrà» ha attaccato il regime teocratico di Teheran («un Iran nucleare porrebbe una grave minaccia e il mondo de – ve impedire all’Iran di ottenere l’arma nucleare»). Una dichiarazione quest’ultima che ha ricevuto l’apprezzamento positivo anche di Netanyahu” Daniel Pipes, politologo neocon tra i consiglieri più fidati del candidato repubblicano McCain, intervistato da Arturo Zampaglione sempre su Repubblica lo accusa di pronunciare “solo slogan e promesse vaghe per cercare il voto degli ebrei”. “Tutto il viaggio del senatore democratico il Medio Oriente – afferma Pipes – non è altro che un tentativo di mascherare le vecchie radici filo-palestinesi per assumere posizioni più centriste in vista dell’appuntamento di novembre e conquistare strumentalmente i voti dell’elettorato ebraico americano»
Il viaggio in Israele è molto movimentato dal punto di vista mediatico e catalizza dunque l’attenzione mondiale: si annuncia con un attentato nel pieno centro di Gerusalemme a opera di un palestinese a bordo di una ruspa, vede Obama nei luoghi simbolo dell’ebraismo e si conclude con il curioso furto del biglietto inserito dal senatore in una della fessura del Muro del pianto e con la sua pubblicazione su Maariv.
Ma già prima – una volta assicuratasi l’investitura democratica – il futuro presidente aveva provveduto a rassicurare gli elettori ebrei in un importante incontro all’Aipac, la più influente organizzazione pro -israeliana degli Stati Uniti cercando di fugare ogni malinteso. Scrive Paolo Valentino sul Corriere della sera del 5 giugno “La sicurezza di Israele non è negoziabile», ha detto Obama, secondo cui ogni accordo «sulla creazione di uno Stato palestinese con continuità di confini, dovrà preservare l’identità ebraica di Israele, con frontiere sicure, riconosciute e difendibili». Gerusalemme «dovrà rimanerne la capitale indivisa». Obama ha anche definito l’Iran «un grave pericolo» per il Medio Oriente, impegnandosi «a fare tutto quanto sarà in mio potere per impedire che Teheran si doti di un’arma nucleare».
L’incontro suscita però anche molto critiche tra cui un intervento del pacifista Uri Avnery sul Manifesto del 18 giugno che contesta a Obama un atteggiamento adulatorio nei confronti degli ebrei americani e soprattutto lo accusa di soffocare sul nascere il processo di pace in Medio oriente ripescando parole d’ordine, quali “Gerusalemme capitale indivisa”, già rivelatesi inaccettabili per il mondo arabo.
Alcuni mesi prima del viaggio in Israele e dell’abbraccio con l’Aipac, Obama – sempre nel tentativo di conquistare l’elettorato ebraico – era incappato in una gaffe clamorosa, attribuendo a un suo zio la partecipazione alla liberazione di Auschwitz. “Il passo falso del candidato favorito alla nomination democratica è avvenuto a Nord di Las Vegas, durante un evento elettorale nel Memorial Day, il giorno in cui l’America ricorda i propri caduti in ogni guerra”, racconta Maurizio Molinari sulla Stampa del 29 maggio. “ In tale cornice, parlando a braccio, il senatore dell’Illinois ha detto: «Mio zio fu uno dei primi soldati americani che entrarono ad Auschwitz e liberarono i campi di concentramento» costruiti dai nazisti per internare gli oppositori e sterminare gli ebrei. Ovviamente a liberare Auschwitz, il 27 gennaio 1945, non furono gli americani, ma i soldati dell’Armata Rossa”.
“L’invenzione da parte di Obama di uno zio liberatore di Auschwitz – commenta due giorni dopo Giovanni Belardelli sul Corriere lascia trasparire il desiderio di includere a ogni costo nel proprio curriculum qualcosa che abbia a che fare con lo sterminio degli ebrei, come se la biografia di un politico che si rispetti debba preferibilmente avere almeno lambito, magari solo grazie alle gesta di uno zio, quella che ci appare come la tragedia cardine del Novecento. Dopo che la gaffe di Obama ha fatto 11 giro degli Stati Uniti e non solo, il suo staff si è affrettato a specificare che comunque uno zio dell’aspirante candidato democratico effettivamente «contribuì a liberare un sotto campo di Buchenwald»”.
A questo punto lo sforzo in atto da parte di Obama per catturare i consensi ebraici è ormai evidente. “Obama corteggia gli ebrei: «Sto con Israele»” titola infatti il Giornale del 24 maggio. “Barack Obama – Alberto Pasolini Zanelli – ha deciso che la migliore risposta è l’attacco di fronte all’accumularsi degli indizi, veri, o presunti secondo cui la sua candidatura alla presidenza susciterebbe molte riserve fra gli ebrei americani”.
“Allora l’uomo che è ormai certo di essere lo sfidante di John McCain in novembre ha preferito mettere le carte in tavola ed è andato a parlarne in un importante punto di ritrovo, una sinagoga di Boca Raton, in Florida, uno Stato spesso decisivo nei duelli per la Casa Bianca”. Qui l’annuncio della posizione favorevole a Israele.
Ma che il problema di Obama fosse quello di convincere gli ebrei lo aveva già segnalato Alessandra Farkas sul Corriere della sera del 17 marzo.
“I fantasmi di Farrakhan e Wright hanno aleggiato sulle primarie in Ohio e Texas dove la stragrande maggioranza degli ebrei hanno votato per Hillary. (…) Dai pulpiti delle sinagoghe, ogni sabato, migliaia di rabbini americani echeggiano lo scetticismo espresso da leader quali Malcolm Hoenlein, capo della Conference of Presidents of Major American Jewish Organizations, Ed Lasky, editore dell’influente rivista online American Thinker e David Greemield, vicepresidente della Sephardic Community Federation, tanto per citarne alcuni. Questi dubbi — esacerbati dal complicato e tenue rapporto neri-ebrei, oggi dominato da sospetti e accuse reciproche — sono culminati con la catena di e-mail che ritraggono Obama come un cripto-musulmano, che ha prestato giuramento sul Corano. Anche se totalmente infondata, la campagna di fango ha fatto presa soprattutto sugli ebrei più anziani, con forti leganti in Israele. «Quest’ansietà nei confronti di Obama la dice lunga più sul mondo ebraico che non sul candidato in sé», teorizza J. J. Goldberg, direttore editoriale del settimanale The Forward. «Dopo anni di dibattito interno alla Black America, gli antisemiti sono stati messi in minoranza — assicura lo storico Paul Berman, autore di Blacks and Jews (1994) — anche se io ho votato per Hillary, credo che il problema ebraico di Obama sia un’invenzione dei media». Anche il rabbino Michael Lerner, direttore della rivista liberal Tikkun lo difende: «La sua presunta ostilità nei confronti di Israele e degli ebrei è completamente infondata».
Daniela Gross