Dossier / Moked autunnale 5769
Israele, le culture minoritarie, la crisi dei numeri e le nuove sfide degli ebrei italiani. Il Moked autunnale 5769 in un dossier che raccoglie il lavoro della redazione del Portale dell’ebraismo italiano
Portare vita nelle piccole comunità
“Inizia questa sera, con l’entrata dello Shabbat, il Mokèd autunnale 5769 che durerà fino a lunedì 8 dicembre. Siamo a Parma dove ci incontreremo con i pochi ebrei rimasti della locale Comunità e dei dintorni con i quali domattina faremo la Tefillà e la lettura del Sefer Torà nel Bet Ha-Keneset di Vicolo Cervi. Più si riducono i numeri del nostro ebraismo più abbiamo bisogno di trovarci e mantenere vivi i contatti. Per questo il DEC organizza i suoi Mokèd in Comunità piccole e decentrate, dove porta
ebrei da ogni altra Comunità a vivere insieme vita e cultura ebraica, e si fa Shabbàt con chi non ne ha mai la possibilità”.
Rav Roberto Della Rocca,
direttore del Dipartimento Educazione e Cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Il grande incontro degli ebrei italiani
Sarà la riapertura della Sinagoga di Parma a suggellare, sabato mattina, la nuova edizione del Moked, l’ormai tradizionale incontro dell’ebraismo italiano, dedicato quest’anno ai 60 anni dello Stato d’Israele, in corso nella cittadina emiliana. La Tefillà del mattino, la lettura del Sefer Torah e poi il kiddush. Per qualche ora, grazie alla partecipazione degli iscritti al Moked, la piccolissima Comunità parmense – meno di cinquanta persone – rivivrà così attimi d’intensa vita ebraica.
Non a caso, d’altronde, il Moked – la convention organizzata dal Dipartimento educazione e cultura (Dec) dell’Ucei – fin dagli esordi privilegia come sede le piccole Comunità. “Queste occasioni -spiega infatti il direttore del Dec rav Roberto Della Rocca – hanno un duplice obiettivo. All’approfondimento di tematiche culturali di particolare rilevanza si accompagna infatti un forte impegno di socializzazione”. “L’ebraismo italiano – prosegue – è fortemente penalizzato dalle distanze geografiche che rendono molto difficili gli incontri e gli scambi tra gli iscritti alle diverse Comunità. Eventi come il Moked sono dunque una scommessa di relazione”.
E accanto alla socialità, la cultura. Al centro dell’edizione in corso, che si conclude lunedì, i 60 anni d’Israele e il sionismo. “Vi sono due argomenti – dice rav Della Rocca – che oggi nell’ebraismo sono trattati con grande retorica ed emotività: il sionismo e la Shoah. Intorno a queste due tematiche, in realtà molto poco elaborate e conosciute si sono costruiti simbolismi e una sorta di religione”.
Uno degli obiettivi del Moked è invece proprio quello di ragionare e discutere. Per questo fino a lunedì a Parma intellettuali, studiosi e storici si confronteranno su contenuti e prospettive del sionismo, analizzandone i tantissimi risvolti culturali, religiosi e filosofici. “La speranza – dice rav Della Rocca – è di riuscire ad andare oltre le semplificazioni, le etichette preconfezionate e le sterili contrapposizioni restituendo invece alla sua complessità un tema di stringente attualità”.
“Nel 1948 si è aperta un’epoca di nuove sfide e opportunità”
“Se ci soffermiamo a paragonare la nostra condizione di ebrei negli ultimi 60 anni, con quella che ha caratterizzato la vita dei nostri genitori, dei nostri nonni e, risalendo indietro nel tempo, dei nostri antenati, abbiamo l’impressione di essere entrati in una nuova epoca nella quale l’ebreo come individuo e gli ebrei come collettività hanno assunto una connotazione e un ruolo molto diverso rispetto al passato.
Mi pongo spesso la domanda: stiamo vivendo un periodo eccezionale o per caso appare a noi un fatto eccezionale iniziare a rientrare nella normalità? (godimento dei diritti civili, rispetto, integrazione nella società).
Per gli ebrei italiani l’anno 1948, durante il quale è stata promulgata la Costituzione Repubblicana ed è nato lo Stato d’Israele, ha assunto il valore simbolico di un momento di svolta che ha investito tutti gli aspetti della nostra vita, su piani diversi ma convergenti:istituzionale e giuridico culturale e religioso personale e psicologico.
Da quel momento è iniziato anche un graduale e progressivo cambiamento sia dell’immagine che gli ebrei proiettano all’esterno, sia del ruolo che essi sono chiamati a svolgere nella società di cui sono parte integrante.
In questi ultimi anni è capitato spesso a noi stessi di rimanere stupiti dall’importanza che è stata attribuita, sia nel mondo della politica, che in quello della cultura, alle nostre opinioni, alle nostre adesioni o ai nostri rifiuti, alla nostra partecipazione o meno agli eventi più disparati.
Il nostro peso specifico nella società è fortemente aumentato e tende ancora a crescere tanto che a volte sentiamo la necessità di regolare e contenere questa tendenza per evitare una sovraesposizione che, alla lunga, potrebbe apparire sproporzionata e diventare controproducente.
Ma quali sono le cause e quali saranno gli effetti di tutto ciò?
Certamente ha contribuito la crisi di tutte le ideologie, che a lasciato molti, soprattutto i giovani, senza punti di riferimento stabili.
Hanno certamente contribuito anche le due terribili e grandi vicende storiche del secolo scorso: la Shoà e la nascita dello Stato d’Israele. Entrambe hanno imposto all’attenzione del mondo la particolarità della nostra plurimillenaria esistenza, la nostra cultura, la nostra religione.
Per arrivare al tema centrale di questo Mokèd, è interessante, giusto ed opportuno che venga da noi nuovamente approfondito l’argomento del Sionismo e della nascita e sviluppo dello Stato d’Israele, anche nell’ottica della vasta gamma di effetti che ha prodotto e che potrà produrre in futuro. Leggendo i titoli delle diverse relazioni vedo che certamente tutti questi aspetti saranno approfonditi.
Renzo Gattegna, Presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche Italiane
“Diamo ossigeno alle piccole Comunità”
Un patrimonio umano e culturale prezioso che nel giro di pochi anni rischia però di essere vanificato dal calo demografico. Il futuro delle piccole Comunità ebraiche, che costituiscono tanta parte dell’ebraismo italiano, si gioca su queste due opposte polarità, tra la vitalità dell’oggi e la minaccia di un prossimo declino. Ma se nulla si può fare per contrastare il decremento delle nascite e il parallelo invecchiamento degli iscritti, molto invece è possibile sul fronte delle relazioni e dell’organizzazione comune. Questo il messaggio lanciato oggi dal presidente dell’Ucei Renzo Gattegna in occasione del Moked, l’incontro dell’ebraismo italiano in corso in questi giorni a Parma. Una Comunità minuscola, una cinquantina scarsa di ebrei, location ideale per capire i modi e gli strumenti per restituire ossigeno ed energia alle tante microrealtà ebraiche italiane oggi in affanno.
Presidente Gattegna, qual è oggi la situazione delle piccole Comunità ebraiche?
Sono accomunate da un dato che continua a stupirci. Esprimono infatti tutte vitalità e capacità notevoli. Ma troppo spesso queste caratteristiche sono fondate su singoli individui che assommano su di sé tutte le competenze. E’ un aspetto ammirevole che allo stesso tempo è però motivo di forti preoccupazioni per il futuro.
Il rischio è che venga a mancare il ricambio generazionale.
Il problema centrale è di tipo demografico. Nei piccoli centri vi sono Comunità che oggi combattono per la sopravvivenza, in cui gli iscritti invecchiano e passano anni senza che vi sia un matrimonio o nasca un bambino mentre i pochi giovani si allontanano verso situazioni che offrono migliori opportunità di vita ebraica o di lavoro.
Sembra un processo irreversibile.
E’ un aspetto su cui non si può certo intervenire. Vi sono però altre prospettive da cui la questione può essere affrontata. Per questo due anni fa l’Ucei per la prima volta ha affidato a tre consiglieri – Federico Steinhaus, Gadi Polacco e Fabio Norsa – l’incarico di mantenere i contatti con le piccole Comunità così da recepirne le istanze e risolvere eventuali problemi di funzionamento. E’ una decisione che di per sé non può risolvere situazioni di crisi. Ma può contribuire ad evitare che si disperda l’immenso patrimonio culturale rappresentato dalla piccole realtà.
Cos’è stato fatto in questi due anni?
C’è stato uno scambio molto più intenso del passato, attraverso contatti, viaggi, incontri. Personalmente ho visitato quasi tutte le piccole Comunità conoscendone i dirigenti. Questo ci ha permesso di conoscere in modo più diretto e partecipato le diverse situazioni.
Da questi scambi sono emerse nuove prospettive?
Una via per evitare dispersioni di risorse, sia umane sia economiche, potrebbe passare attraverso una razionalizzazione della struttura. Un articolo dello statuto Ucei prevede, da oltre dieci anni, che le Comunità possano consorziarsi così da mantenere servizi culturali e amministrativi che soddisfino un ambito più ampio, ad esempio regionale. Si tratta di una decisione che va assunta dalle stesse Comunità e che non può certo partire dall’Ucei. In ogni caso, per facilitare eventuali processi aggregativi, in vista del prossimo Congresso stiamo preparando una commissione per la riforma dello statuto.
E in attesa di possibili consorzi su base regionale?
Da tempo siamo impegnati nella costruzione di una rete di scambi capace di andare al di là della dimensione comunale in cui vivevano tante piccole Comunità. Per questo è stato messo a punto un progetto informativo che mantiene uno stretto dialogo con le diverse realtà attraverso la newsletter e la rassegna stampa spedite ogni giorno agli iscritti e il portale moked. Quest’ultimo non è uno strumento d’informazione a senso unico. Ma prevede la partecipazione in forma diretta delle diverse Comunità che possono gestire il loro sito in prima persona e in forma autonoma, contribuendo anche all’informazione nazionale. E’ un modo di combattere la solitudine delle realtà più piccole e di costruire insieme nuovi contributi. Intanto avanza il progetto per mettere in comunicazione in tempo reale tutte le Comunità italiane attraverso una rete informatica che oggi consente di mettere on line le lezioni del Collegio rabbinico e domani permetterà videoconferenze, riunioni a distanza ed esperienze didattiche tra le diverse scuole ebraiche.
Il futuro potrebbe dunque vedere nell’ebraismo italiano una minore frammentazione della vita e delle relazioni.
La speranza è questa. Ma al tempo stesso dobbiamo puntare alla sprovincializzazione e all’allargamento dei nostri confini. L’ebraismo italiano è una realtà molto ridotta dal punto di vista numerico che deve coltivare collegamenti e scambi, oggi ancora scarsi dal punto di vista istituzionali, con le Comunità ebraiche europee e statunitensi e con Israele. Credo sia questa una delle vie principali per rivitalizzare il nostro tessuto e proiettarci davvero nel futuro.
Faccia a faccia sul sionismo
“Israele è una parte di me”. “Io non potrei mai viverci, lo farei soltanto se ritenessi in pericolo la mia vita qui…”. Parte da queste due opinioni contrapposte il dialogo che, nella prima serata del Moked, ha visto i partecipanti confrontarsi con Daniel Segre, sul loro rapporto con Israele e sui significati del sionismo oggi.
Segre, organisational coaching israeliano che svolge la propria attività a Gerusalemme, apre con una domanda un po’ provocatoria “Che cosa è Israele per te?”. Dapprima qualche timido intervento poi a poco a poco quasi tutti intervengono con il desiderio di far sentire il proprio parere di dar voce ai propri ricordi, alle proprie esperienze, al proprio vissuto.
“L’intenzione che avevo – dice Dan Segre – era tirare fuori la percezione che ciascuno ha di Israele prima delle conferenze dei prossimi giorni, il mio lavoro inizia sempre così: faccio una domanda e parlo di me stesso, in questo modo le persone si sentono a proprio agio, quando racconti qualche cosa di te anche gli altri sono più disposti ad esprimersi “.
Daniel che cosa è Israele per te?
Io a 19 anni ho deciso esattamente che cosa dovesse essere Israele per me, ho preparato le valige e sono partito. La mia vita è divisa in due parti: i primi 18 anni li ho vissuti in Italia e gli altri 38 anni in Israele, ho trascorso dei periodi all’estero per lavoro, ho viaggiato molto, ma la mia casa, la mia vita è in Israele.
Hai un modello preordinato nello svolgere un’attività?
Per me è sempre un’incognita, la mia aspettativa è quella di sentir raccontare. Devo essere attento a quello che le persone dicono, mostrare loro interesse, e non perdere ma non sempre è necessario che io intervenga, sono le persone che via via iniziano a parlare, il mio compito è di fare in modo che non si disperdano, che la conversazione non prenda direzioni sbagliate, in questo caso devo intervenire per riprendere i fili del discorso.
A volte si creano situazioni di antagonismo, anche nei miei confronti, l’importante è non mettersi sulla difensiva, ma saper ascoltare anche le critiche sono necessarie…
Quale dote ci vuole per svolgere questo lavoro?
Ci vuole molta trasparenza, bisogna essere in grado di mettersi in gioco, alcune volte è stancante perché richiede un alto grado di concentrazione, ma le soddisfazioni sono molte.
Quali aspettative hai quando svolgi una delle tue attività?
Io non ho altra aspettativa se non quella che la gente venga con la propria storia. Un’altra considerazione interessate da fare è il fatto che non ci sono molte opportunità di scambiarsi delle idee in una forma ordinata, quindi se c’è uno spazio ordinato in cui parlarsi con delle regole le persone tendono ad aprirsi.
Dal mito di Israele alla nostra realtà
“Tredici lezioni per diventare ebrei. S’intitolava così uno dei libri più venduti lo scorso anno in Cina dove, nello stesso periodo, andava a ruba un manuale di galateo per comportarsi a dovere con nuove conoscenze di religione ebraica. Le ragioni di tanto interesse con ogni probabilità affondano le loro radici in questioni d’affari più che di cultura. Ma il boom degli ebrei nel paese del Sol levante è un’ulteriore conferma di una costante sovraesposizione mediatica dell’ebraismo a livello internazionale. “Una pubblicità ottima”, chiosa con un sorriso Vittorio Dan Segre che proprio con il caso cinese ha concluso il suo intervento al Moked di Parma.
Classe 1923, Segre ha contribuito alla nascita dello Stato d’Israele. Ex-diplomatico, ex-militare, docente di Relazioni internazionali in università prestigiose – da Oxford alla Bocconi al Mit di Boston – fondatore a Lugano dell’l’Istituto di studi mediterranei, giornalista e scrittore (sua l’autobiografica «Storia di un Ebreo fortunato»), collaboratore apprezzatissimo di www.moked.it e del notiziario quotidiano l’Unione informa, Vittorio Dan Segre rifugge da ogni previsione apocalittica sia sull’ebraismo sia su Israele. E professa invece un convinto ottimismo che di questi tempi sembra diventato merce rara.
Professor Segre, perché gli ebrei sono oggi così di moda?
Perché siamo al tempo stesso il simbolo dell’altro e la speranza della sua soluzione. Israele ha infatti realizzato un sistema d’integrazione, non solo nei confronti degli ebrei, che gli ha consentito di assorbire nel paese immigrati dal terzo e dal quarto mondo facendo dell’immigrazione una forza e non un peso. Da questo punto di vista siamo un modello.
Eppure l’immagine di Israele all’estero non è così positiva.
Invece di proporre gli aspetti post moderni dell’esperienza israeliana, quale ad esempio la questione dell’integrazione o lo sviluppo tecnologico e scientifico, la rappresentazione mediatica preferisce soffermarsi sull’elemento dell’ortodossia ebraica e dunque su quell’aspetto dell’ebraismo che è stato oggetto di distruzione con la Shoah e che oggi rappresenta un anacronismo.
I motivi di questa focalizzazione?
E’ molto più comodo mettere in secondo piano i successi e la modernità che fanno d’Israele un modello e puntare invece su una tradizione immobile. Diciamo poi che nel caso del mondo arabo o palestinese entra in gioco anche l’invidia per i risultati che siamo riusciti a raggiungere partendo dal nulla.
Anche da parte ebraica c’è però una sorta di ritrosia a lodare troppo Israele.
E’ un atteggiamento di falsa umiltà per cui si cerca di sminuire il dato positivo e si mettono in luce gli errori. La realtà è che l’evoluzione d’Israele è portentosa al punto che noi che l’abbiamo visto nascere non riusciamo davvero a rendercene conto. Accade per Israele come per la Shoah: è una storia troppo grande per essere compresa da una sola generazione. Si deve lasciar decantare con il tempo l’epopea dello Stato e la tragedia dell’Olocausto. Solo allora si potrà cercare di capire.
Quanti hanno assistito alla nascita dello Stato d’Israele oggi spesso stigmatizzano il suo essere divenuto uno stato come tutti gli altri.
Non riescono più a riconoscersi in Israele perché il loro Israele era il paese di un’epopea messianica che non poteva però essere realizzata nel giro di poche generazioni.
Uno dei motivi di critica sta nella presunta caduta di valori della società israeliana.
E’ un tema di cui si dibatte molto anche in Israele. Va però sottolineato che quella israeliana è una società di straordinaria forza che oggi non è affatto rappresentata dalla sua dirigenza.
Che funzione ha l’ebraismo diasporico nei confronti d’Israele?
Ha uno straordinario senso storico, ideale, religioso e morale perché porta un messaggio di grande rilievo di cui Israele è uno degli elementi importanti. In questo senso la Diaspora ha una responsabilità notevole nei confronti di se stessa e dell’umanità.
Come vede il futuro dell’area mediorientale?
Non dobbiamo mai dimenticare cosa comporta l’emergere di una nuova sovranità in una zona politico strategico così compatta come il Medio oriente. Fatti di questo tipo creano sconvolgimenti di portata molto profonda nell’ecologia politica di qualsiasi zona. Basti pensare alle ripercussioni della nascita dello Stato italiano. L’epopea israeliana non poteva risolversi in tempi ridotti.
E la pace?
La pace già esiste con un numero notevole di vicini. La pace però si conclude con un altro stato. Ora il problema è lo scontro in atto tra un popolo e uno stato. Si tratta di una situazione che contiene in sé elementi rivoluzionari e distruttivi. L’esistenza di uno Stato palestinese è dunque una necessità: non un pericolo.
Quel pensionato che vola in alto
Credo che nessuno possa risentirsi se affermo che con l’intervento del “pensionato” Vittorio Dan Segre, ascoltato in “religioso silenzio” e pur non mancando certamente molti spunti di dibattito anche in quanti lo hanno preceduto, si e’ “volato alto” con un mix di realistica analisi unito pero’ ad un messaggio di ottimismo concreto e quindi assolutamente non “d’ufficio”.
Iniezione assai utile per riportare il percorso di questo Moked,ancora una volta di grande interesse, proiettato in avanti e, per mutuare un concetto anglosassone,orientato a vedere le difficoltà più come opportunità che mancate occasioni (mi riferisco ad accenni intervenuti nella giornata denotati da un
pessimismo che sembra avere origini essenzialmente nella delusione derivante dal naufragio di esperienze alle quali si e’ guardato con speranza).
Hazak quindi,ancora una volta, agli organizzatori ed uno spunto,magari per future occasioni, affinché si approfondisca maggiormente il contributo millenario del “sionismo religioso” ma anche il concetto di “laicità” molto spesso accennato anche in questo Moked ma sempre nell’accezione,non certo esaustiva, di “areligioso” od “antireligioso”.
Gadi Polacco, Consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Educazione e cultura contro la dispersione
“L’educazione e la cultura. E’ su queste due direttrici principali, le uniche capaci di contrastare la dispersione e l’assimilazione dell’ebraismo italiano, che si giocano le progettualità dei prossimi anni”. Anselmo Calò, assessore al Bilancio Ucei, sintetizza così il mandato che guida la sua attività. Attività complessa, alla ricerca costante di un equilibrio tra esigenze diverse, che in questi ultimi anni vede tra le poste in gioco la stessa sopravvivenza delle piccole Comunità ebraiche, un tema a cui il Moked di Parma ha dedicato un’attenzione particolare.
Qual è la prima difficoltà con cui si trova a fare i conti l’assessore al Bilancio?
Il problema principale è riuscire ad accontentare le diverse richieste di finanziamento. Si tratta di iniziative meritevoli, che non sempre possono però trovare sostegno da parte dell’Ucei. Dobbiamo dunque porre una scala di priorità e calibrare le nostre scelte puntando sulle progettualità più meritevoli d’attenzione così da evitare di disperdere risorse a pioggia.
Quali sono i criteri della scelta?
Quelli definiti dall’ultimo Congresso Ucei, l’educazione e la cultura. Sono le sole strade per combattere l’assimilazione. Non a caso una quota molto rilevante del nostro bilancio, circa 800 mila euro, è destinata all’istruzione superiore: il Collegio rabbinico, il corso di laurea e il Dipartimento educazione e cultura Ucei.
Un altro problema, di cui si è parlato molto al Moked, riguarda il tramonto delle piccole Comunità.
L’ebraismo italiano si confronta con un drammatico calo demografico fin dal secondo dopoguerra. Il censimento fascista del ’38 rilevava circa 70 mila presenze. Oggi, secondo gli ultimi dati, la realtà ebraica si attesta sulle 25 mila persone. Sono numeri inesorabili – frutto della Shoah e del generale decremento delle nascita che caratterizza il mondo occidentale – che assumono caratteristiche di particolare preoccupazione nei centri più piccoli dove il ricambio generazionale è molto ridotto e i pochi giovani tendono a spostarsi verso le grandi città.
Cosa comporta in termini concreti questa diminuzione degli iscritti?
Innanzi tutto diventa sempre più difficile continuare a garantire quel minimo di servizi indispensabile alla vita ebraica. Poi si pone il problema del patrimonio, anche immobiliare, che con il venire meno della popolazione ebraica rischia di andare disperso o degradato.
Una delle questioni da anni all’attenzione dell’ebraismo italiano riguarda proprio la conservazione dei beni storici, sinagoghe, cimiteri o musei.
Al momento il problema principale riguarda il rifinanziamento per il triennio 2010 – 2012 della legge 175 finalizzata al loro recupero. Per l’anno prossimo questi fondi sono stati ridotti del 25 per cento e ciò ci preoccupa. Tagli di questo tipo (cui peraltro aveva fatto ricorso anche il governo precedente) non consentono infatti la certezza di riuscire a portare a termine i progetti. Per fortuna possiamo però contare su uno schieramento bipartisan a sostegno del patrimonio ebraico: è una ricchezza immensa in termini affettivi e culturali per l’intero Paese che non può andare perduta.
“Insieme possiamo riuscire”, la lezione dell’incontro di Parma
Il Moked autunnale, il tradizionale incontro dell’ebraismo italiano, che quest’anno si è svolto a Parma, volge al termine. Tre giorni di incontri, con storici, filosofi, scrittori e psicologi per riflettere sui 60 anni dello Stato di Israele, per capire chi siamo ed in che direzione stiamo andando, una riflessione cui il pubblico presente ha preso parte attiva.
Abbiamo chiesto un bilancio conclusivo su questi giorni a Rav Roberto Della Rocca, direttore del dipartimento educazione e cultura UCEI.
Rav Della Rocca, tiriamo le somme di questi giorni sei soddisfatto?
“Per quanto riguarda il pubblico intervenuto, il bilancio è soddisfacente sotto il piano della partecipazione impegnata, la gente è stata presente a tutte le attività, la sala era sempre piena, ed anche il livello culturale delle conferenze è stato alto e stimolante. Sono molto contento anche per la partecipazione attiva dei membri della piccola Comunità di Parma, che ha condiviso con noi le giornate di studio e che ci ha aperto con entusiasmo il tempio per la tefillà di sabato mattina.
Sotto il profilo interno devo dire che il valore aggiunto di questo Moked è il lavoro corale dei Dipartimenti Ucei: il Moked non è più un evento del Dec ma dell’Ucei, che ha visto il coinvolgimento qualificato ed armonico del personale dei vari dipartimenti ed è stato un esempio di come si stia superando la settorialità”
A proposito di personale, mi sembra che il tuo staff abbia avuto delle modifiche
Sì, al prezioso lavoro di Ruth Steindler che continuerà a coordinare l’organizzazione del Moked, si sono aggiunte due persone, Alan Naccache che coordina l’Ufficio Giovani Nazionale e Ilana Bahbout nell’assistenza alla direzione per la parte culturale, entrambi hanno dato un grande impulso alle attività del Dec.
A parte la stanchezza accumulata, c’è qualche elemento negativo che vuoi evidenziare?
Un elemento su cui penso si debba riflettere è la scarsa presenza dei 40enni ai Moked, indubbiamente in questo momento c’è anche un problema di natura economica, spostarsi spesso con due tre bambini è costoso. Abbiamo studiato delle alternative, ma abbiamo delle esigenze per cui non ci si può discostare molto da un certo target di albergo: occorrono strutture con due tre sale per le riunioni, molte stanze, impianti di cucina che consentano di rispettare la casherut.
C’è poi da dire che venire al Moked è una scelta identitaria, culturale, educativa, è certamente diverso che organizzarsi una vacanza in un villaggio turistico.
Quale soluzione suggerisci?
Per quanto riguarda i costi penso che forse le Comunità potrebbero supportare una famiglia alla volta con un viaggio premio, questo potrebbe avere una ricaduta positiva su tutta la Comunità perché al ritorno dal Moked queste persone potrebbero portare nuova linfa vitale nelle loro Comunità. Poi penso che si dovrebbero studiare delle formule per non circoscrivere gli argomenti trattati nel Moked a 1-2 giorni, ma “spalmarli” su tutto il territorio nazionale organizzando incontri di approfondimento nelle varie Comunità durante il corso dell’anno.
A proposito dell’argomento affrontato durante questo Moked: i 60 anni dello Stato di Israele, ti sembra che ci siano ancora delle cose che debbano venir fuori?
C’erano molte perplessità nella scelta di questo tema, alla luce dei fatti penso che sia stata una scelta vincente, perché non è stato dato un taglio celebrativo, retorico. Ovviamente tre giorni non possono essere esaustivi sull’argomento, ma penso che il tema sia stato trattato con una certa completezza e serietà: Israele è la nostra identità e come tale richiama interrogativi continui a cui non ci sono risposte compiute e questo ha dato nuovi spunti, anche inquietanti, ma questo è il bello, bisogna evitare le etichette preconfezionate.
“Un linguaggio nuovo per parlare a tutti”
“Israele, il sionismo e la memoria della Shoah sono stati i pilastri ideologici d’intere generazioni di ebrei italiani ed europei. I quarantenni di oggi hanno introiettato nel profondo queste tematiche. Ma per i giovani sono ormai questioni di valenza molto diversa, vissute in termini più intellettuali e con minore coinvolgimento valoriale”. Victor Magiar, assessore alla cultura Ucei, ne parla come del suo “assillo principale”. E’ lo stacco generazionale, emerso con grande evidenza in tanti incontri del Moked a Parma, che ha messo in crisi quella trasmissione d’idee e ideali che per decenni avevano tenuto insieme il mondo ebraico. E’ dunque da qui, sostiene, che si deve partire per restituire nuove prospettive di riflessione.
Victor, usciamo da un Moked ricco d’incontri e suggestioni. Proviamo a delineare un bilancio.
E’ stato senz’altro un bel Moked. Ricco di discussioni importanti e di ottimo livello, che è riuscito a fornire punti di vista molto diversificati sui sessant’anni dello Stato d’Israele e sul sionismo. L’unico neo è che un’esperienza di riflessione così importante dovrebbe coinvolgere un numero maggiore di persone. Realizzare una più ampia partecipazione di pubblico e ringiovanire la platea sono nostri precisi obiettivi per il futuro.
Il Moked invernale è però per tradizione un po’ meno partecipato di quello in programma a primavera.
La data invernale è sempre più difficile per le famiglie, per gli impegni lavorativi e l’avvicinarsi delle vacanze scolastiche. Va detto però che uno dei problemi è dato dalla quota economica di partecipazione che per molti può risultare elevata. Ne abbiamo discusso proprio nel Consiglio Ucei, svoltosi l’ultimo giorno del Moked, cui hanno preso parte i presidenti di Comunità.
Qualche proposta pratica?
Stiamo pensando di ricorrere, nel futuro, ai fondi dell’otto per mille così da aiutare le Comunità a regalare a una famiglia la partecipazione all’incontro. In parallelo stiamo vagliando alcune innovazioni tecniche per abbassare le quote. Occasioni di questo tipo devono infatti essere quanto più condivise possibile.
Accanto al Moked la politica culturale prevede altri momenti di confronto.
Negli ultimi due anni, grazie anche al contributo del mio predecessore Dario Calimani, abbiamo innovato in modo profondo il modo di lavorare, attivando sulle tematiche culturali una stretta sinergia che, accanto al Dipartimento educazione e cultura diretto da rav Roberto Della Rocca, coinvolge tutte le altre strutture Ucei, in particolare quella dei giovani. I risultati sono molteplici. Mentre proseguono le attività volte alla comunicazione con l’esterno, quali il Giorno della Memoria o la Giornata della Cultura Ebraica, stiamo portando avanti un’attività di formazione che coinvolge tutte le Comunità. E’ stata avviata infatti una serie d’incontri con i presidenti e i rabbini per discutere le prospettive del mondo ebraico italiano.
Tema non da poco.
Ci rendiamo tutti conto che il numero degli iscritti sta calando in modo drammatico e che per i giovani le nostre istituzioni mancano di appeal. I pilastri ideologici di altre generazioni ebraiche sono da loro vissuti in modo meno coinvolgente, più intellettuale. Per chi oggi ha vent’anni Israele non è il miracolo che fu per noi. Ma un fatto scontato. Anche la memoria ha un impatto diverso, non ha implicazioni dirette sul quotidiano: è qualcosa vissuto dai nonni e dai bisnonni. E lo stesso lessico usato un tempo per trasmettere questi valori è cambiato.
Si rischia così di saltare una generazione, creando vuoti pericolosi.
Per capire come si può trasmettere ai giovani l’esperienza ebraica è necessario un lavoro di recupero dei nostri valori più profondi. Studiando nuovi linguaggi e nuove tecniche per farlo e valorizzando i tanti strumenti che rimangono validi. E’ la preoccupazione principale che ci accompagna nella nostra programmazione culturale.
Questo può significare anche dover intervenire sui formatori?
Entro certi limiti sì. In una società complessa come la nostra potrebbe essere opportuno, ad esempio, che i rabbini abbiano anche nozioni di psicologia o di sociologia. E, sempre in tema di culto, se le Comunità lo ritengono utile si potrebbe pensare di riorganizzare il sistema che oggi vede dei bravi rabbini coprire a rotazione le realtà più piccole.
Nell’immaginario degli italiani la politica culturale ebraica s’identifica con la Giornata della memoria e con la Giornata della cultura ebraica. Quale significato hanno questi eventi per l’ebraismo italiano?
C’è senz’altro una preoccupazione sul modo in cui si affrontano questi temi. In una società che offre migliaia di sollecitazioni e che attraversa una profonda crisi morale ed economica non possiamo infatti dare risposte di maniera o scontate. Sappiamo che gli aspetti cerimoniali, soprattutto del giorno dedicato alla memoria, sono deleteri. Dobbiamo dunque evitare la ripetitività e i momenti di circostanza. Per questo chiediamo alle Comunità e a quanti promuovono le iniziative di puntare sulla cultura e sull’istruzione: meglio una cerimonia di meno e una borsa di studio in più. Entrambe le manifestazioni rimangono comunque ottime occasioni di comunicazione che sortiscono ottimi riscontri.
Non c’è il rischio che si parli troppo dell’ebraismo?
Un tema che mi angoscia è proprio l’iperattivismo ebraico, che tanto spesso ha anticipato o è coinciso con gravi crisi storiche. Stiamo vivendo una stagione difficile dal punto di vista economico mentre risorgono nazionalismi e razzismi. La nostra grande tensione d’attività potrebbe distoglierci dal vedere la catastrofe che incombe. Una società in crisi diventa infatti pericolosa per le minoranze. Basti pensare alle pulsioni di fastidio e intolleranza già manifestatesi nei confronti dei rom. Se non saremo capaci di tenere gli occhi bene aperti potremmo non capire quanto sta accadendo e non essere in grado di porvi riparo.
Freedonia o Israele?
Che cosa rappresenta Israele? Un sogno di salvezza, il luogo dove la sua famiglia avrebbe potuto salvarsi? Il mostro dell’occupazione, raccontato tutti i giorni dai giornali? Il futuro, un modo nuovo di intendere l’essere ebreo? Uno stato come tanti altri? Riccardo, il protagonista dello spettacolo messo in scena da Enrico Fink, e rappresentato in teatro in occasione del Moked di Parma, racconta Israele attraverso i propri occhi, e attraverso un dialogo fitto – anche se immaginato – con i compagni con cui ha condiviso la passione politica, il pacifismo – e nei confronti dei quali Israele ha sempre rappresentato un discrimine, un motivo di differenza.
Via da Freedonia, quale è il significato del titolo del tuo spettacolo?
Via da Freedonia è un monologo teatrale con musica il punto da cui parto, come dico all’inizio dello spettacolo, è questo: sono cresciuto in Italia, dopo la guerra gli ebrei della generazione di mio padre si spaccarono in due chi andò in Israele, chi invece andò a Freedonia, a sognare la libertà. A Freedonia non c’era niente da ricostruire, niente era reale, niente provocava sofferenze: perfino la guerra non era vera, era la guerra lampo dei Fratelli Marx. Freedonia rappresenta come ti dicevo un luogo ideale, libero e per alcuni ebrei della generazione di mio padre ha rappresentato il simbolo di un luogo ideale dove andare a vivere. Per alcuni il luogo ideale è stato lo Stato di Israele, per altri c’è stata soltanto una realtà immaginaria.
E tu dove ti collochi a Freedonia, nello Stato di Israele o dove altro?
Io sono cresciuto in una realtà piuttosto lontana dal mondo ebraico, dove i riferimenti non erano lo Stato di Israele, ma trovare il proprio spazio in un mondo a volte ostile, nel diventare adulto penso ci sia un momento nella vita di ciascuno di noi in cui si ha il bisogno di confrontarsi con la realtà dello Stato di Israele. A questo punto ho capito che Israele rappresenta un modo di essere ed anche se ero molto impegnato politicamente ho sentito il bisogno di difenderlo. Per fare questo ho dovuto studiare. Quello che racconto in questo spettacolo è il bisogno di raccontare non soltanto le cose belle, ma anche le ombre.
Quale è il pubblico che viene ad ascoltarti?
Lo spettacolo è indirizzato a chi non sa cosa significa amare Israele, cosa significa essere un ebreo italiano, per questo uso anche le parole di Grossman che oltre ad essere molto belle sono anche molto significative, credo che egli abbia dato un’immagine di Israele bellissima, persino quando ha pronunciato il suo discorso in occasione della cerimonia in memoria di Rabin, ed egli aveva perso suo figlio in guerra pochi giorni prima, è riuscito a parlare in un modo che per un essere umano è difficilissimo e la domanda che io faccio è questa: noi ce la faremmo? Riusciremmo a metterci in quella realtà prima di esprimere giudizi?
“L’inizio di nuove sfide e di perenni interrogativi”
“Si è concluso ieri a Parma il Mokèd autunnale organizzato dal Dipartimento Educazione e Cultura dell’Ucei che ha visto la partecipazione di un centinaio di persone provenienti da molte Comunità italiane. Durante l’incontro si è svolto un convegno che ha affrontato con autorevoli studiosi e intellettuali, non solo italiani, il tema del nostro rapporto con lo Stato di Israele a 60 anni dalla sua fondazione. Il tema è stato finalmente affrontato sotto una prospettiva inedita. I relatori hanno evidenziato come lo Stato di Israele è stato il prodotto di un movimento di pensiero ebraico,
minoritario e spesso contrastato, che costituisce ancora una grande sfida intellettuale, sociale e religiosa per l’intero ebraismo sviluppatosi nel corso dei secoli come realtà diasporica. Queste considerazioni ci indicano come il programma sionistico non significa la fine, ma l’inizio di nuove sfide e perenni interrogativi per il pensiero ebraico. Israele ci ripropone incessantemente la sfida di rilegare cielo e terra mediante quella scala sognata dal nostro padre Jaakov.”
Rav Roberto Della Rocca, direttore del Dipartimento Educazione e Cultura dell’Unione delle Comunità ebraiche Italiane
(dossier realizzato con il contributo di Lucilla Efrati, Daniela Gross e Valerio Mieli)