Memoria 2 – Loewenthal: Una Storia ebraica senza lo sfregio della Shoah

In principio è Philip Roth che nel 2004, ne “Il complotto contro l’America”, immagina al potere negli anni della guerra un Lindbergh filonazista. Qualche anno dopo tocca a Michael Chabon riscrivere la storia costruendo, ne “Il sindacato dei poliziotti yiddish”, un inquietante e minacciato stato ebraico d’Alaska mentre pochi mesi fa lo scenario fantastico dell’autoscioglimento diviene protagonista del romanzo “La scomparsa d’Israele” di Alessandro Schwed.
La fantastoria, o meglio uno scarto fulmineo e decisivo della storia reale, domina anche l’ultimo romanzo di Elena Loewenthal, “Conta le stelle, se puoi” (Einaudi, 263 pagine, 17,50 euro) in cui la scrittrice e studiosa torinese narra con passione e levità la saga di una famiglia ebraica piemontese a partire dal giovanissimo Moisè che a fine Ottocento lascia il paesino con il suo carretto di stracci.
A imprimere un corso straordinario alla vita dei Levi, è infatti la morte che d’improvviso toglie di mezzo il duce regalando vita e fortuna a tutti i discendenti che potranno così moltiplicarsi nei quattro angoli del mondo. L’improvvisa deviazione della storia non è però un semplice pretesto letterario, ma un profondo scatto d’orgoglio. E’ la via per creare vita e parole lì dove si staglia l’abisso di morte della Shoah, dicendo cosa poteva essere e cos’è oggi il mondo ebraico. “E’ stato il mio modo di non arrendermi alla verità della storia – dice Elena Loewenthal – il mio modo di raccontare che la Shoah non ha trasfigurato la mia storia anche se l’ha profondamente deturpata, privandola di milioni di vite”.
Elena Loewenthal, il racconto è incastonato fra due momenti emblematici. Una dedica iniziale a sua nonna che ha attraversato la Shoah e ha voluto poi tacerla e una pagina finale in cui dedica la sua storia a quanti “hanno vissuto quell’altra, purtroppo vera”. “Conta le stelle, se puoi” non è però un libro sulla Shoah.
In questo romanzo ho voluto costruire la storia, del tutto inventata, di una famiglia ebraica: non senza coloro che nella Shoah sono morti ma insieme a loro. Così mi sono presa la libertà non di negare la Shoah. Ma di rinnegarla, per dire a me stessa e agli altri che la storia ebraica non si costruisce sulla Shoah. E che la Shoah appartiene a tutti, non solo a noi che ci abbiamo messo i morti.
Il libro narra la vicenda di un’assoluta normalità, in quegli anni del tutto impossibile per una famiglia ebraica, ricostruendo un periodo poco raccontato dalla letteratura.
Gli anni tra l’Emancipazione e il fascismo sono un periodo in effetti molto poco raccontato della storia ebraica, forse perché relegati in secondo piano da quanto accaduto dopo. C’è da dire anche che proprio in quegli anni l’integrazione degli ebrei nella società è stata straordinaria e poteva portare a risultati davvero straordinari.
Quanto c’è di reale nella narrazione: qualche personaggio, qualche situazione?
E’ una storia tutta inventata, in cui si mescolano alcuni spunti e frammenti che ricordavo dai racconti famigliari. In casa avevo ad esempio sentito parlare di un avo indiretto, Aronne, che era partito da Fossano con un carretto di stracci. Luigi Zalman è una figura più reale mentre la casa di via Nizza esisteva davvero ma non come la racconto io. Sono però elementi che ho trattato con estrema libertà.
La ricostruzione storica non sembra invece libera.
Sulla parte storica o topografica mi sono documentata a lungo. Al mattino mi isolavo e scrivevo, al pomeriggio mi dedicavo ai testi e ai documenti. Ci sono voluti cinque mesi in tutto: è stato il libro che ho scritto con maggiore rapidità. I personaggi erano dentro di me da sempre e li vedevo prendere vita come se scrivessi sotto dettatura.
A leggere certi brani sembra che lei si sia divertita parecchio a scrivere questo libro.
A tratti è stato un divertimento puro, a tratti una sofferenza. Quando ho dovuto far morire Moise ho cercato di trovare il modo migliore per porre fine alla sua vita, ma ho pianto una settimana intersa. Tutto il libro è stato un’esperienza travolgente.
C’è un modello che ha tenuto presente?
Il modello diretto e inequivocabile è Primo Levi e in particolare il racconto “Argon” ne “Il sistema periodico” in cui racconta degli antenati piemontesi. Anni dopo mi sono resa conto di condividere la stessa lingua e lo stesso dialetto giudeo piemontese, che non è un vezzo alla Camilleri ma di cui serbo ancora memorie famigliari.
Perché questa scelta di fantasticare sulla storia?
Sono partita dal Patto, così spesso ribadito nella Bibbia, con cui Dio promette ad Abramo di rendere la sua discendenza numerosa come le stelle. Gli ebrei fanno del loro meglio per rispettarlo, ma patto rimane una promessa mancata. Gli ebrei sono infatti uno dei popoli più piccoli della terra. Ho cercato dunque di andare incontro a questa promessa moltiplicando le vite e i discendenti.
Anche altri autori hanno optato in questi anni per vicende fantastoriche. Cosa accomuna queste scelte?
Forse c’è un comune sentirsi stretti nei panni della Memoria. Riscrivere la storia significa infatti poter liberare la fantasia. Roth ne “Il complotto contro l’America” lo fa con toni piuttosto cupi. Io, che sono ottimista, ho preferito girare al positivo il finale. Per questo ad esempio il 1938, l’anno terribile in cui sono promulgate le leggi razziali, diviene per nel libro un anno bellissimo e indimenticabile in cui in Italia viene meno la monarchia e nasce lo stato d’Israele.
Da tempo lei sostiene, nei suoi interventi pubblici, che l’unico modo in cui oggi si può parlare dell’orrore della Shoah è il silenzio. In qualche modo il libro suggella questa convinzione.
Da anni non parlo della Shoah in incontri e occasioni pubbliche. Patisco molto a farlo. Scrivere il libro è stato in un certo senso cercare di lasciar passare quell’atroce bufera, restando lì a guardare.
In questi anni forse si è parlato anche troppo della Shoah e questo ha finito per limitare e costringere l’ebraismo.
Questo ci ha in qualche modo costretti. Noi generazioni successive alla Shoah non possiamo darne una testimonianza diretta. L’unica via per fuggire da questa nostra inadeguatezza è rassegnarsi al silenzio. Ciò non significa certo eliminare la Shoah dalla memoria e dall’educazione delle nuove generazioni. La Shoah appartiene a tutti, non solo agli ebrei. Basta però con le testimonianze indirette e con la teoria. Per avere un sussulto emotivo o emozionale è sufficiente Primo Levi. Negli ultimi anni quando mi invitano a parlare di quanto è accaduto propongo proprio la rilettura di alcune sue pagine.
Negli ultimi dieci anni le opere narrative sulla Shoah si sono però moltiplicate.
La Memoria è divenuta fonte d’ispirazione letteraria. Forse per il senso di una materia che sempre più ci sfugge o per un senso di colpa. I due canoni però per me rimangono Primo Levi e Cinthia Ozick. Quello che si riesce a sapere e a capire di Auschwitz è tutto nelle opere di Levi mentre il racconto “Lo scialle” della Ozick mostra all’opposto la capacità di misurarsi con la Shoah da una grande distanza.
Nel suo raccontare la famiglia Levi lei anticipa di molti anni la nascita d’Israele. Per quale motivo?
Israele non è nato dalla Shoah, come così spesso sentiamo dire. Israele è frutto dei 150 anni di sionismo che precedono la sua nascita. Sono convinta che sarebbe nato anche senza la Shoah. Quest’ultima non ha infatti trasfigurato la storia ebraica. L’ha deturpata, ma la dignità della civiltà ebraica, del popolo e delle sue tradizioni sono rimaste intatte.
Eppure la Shoah spesso si è sovrapposta all’identità ebraica.
Di recente ho tradotto il libro di Avraham Burg “Sconfiggere Hitler”. E’ stato un lavoro sofferto perché condivido molto poco delle sue tesi. Sono però d’accordo sulla sua idea che non si possa assumere la Shoah come connotato identitario. Ma si debba invece fondare la nostra identità sul patrimonio positivo della nostra storia e della nostra realtà anche recente. Penso ad esempio al sionismo, che è un formidabile processo identitario.
L’identità fondata sulla Shoah è stata per molti versi una scelta dello stesso mondo ebraico.
Credo che l’ebraismo ha ormai capito che questo fondamento va progressivamente smantellato. Gli ebrei europei e gli israeliano sanno bene che la costruzione di un’identità nuova va fondata su altri valori che sono ben presenti.

Daniela Gross

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