Memoria 14 – Alberto Cavaglion. Il prezioso diario di Hélène Berr

La pubblicazione dell’anteprima che segue è un fatto doppiamente importante per i lettori di questo notiziario quotidiano e del Portale dell’ebraismo italiano l’Unione informa. Da un lato, infatti, porta su questa pagina una delle firme più autorevoli fra gli studiosi italiani di cultura ebraica, quella di Alberto Cavaglion, autore fra l’altro di “Il senso dell’arca”, “Ebrei senza saperlo”,“La filosofia del pressappoco. Weininger, sesso, carattere e la cultura del Novecento”, “La Resistenza spiegata a mia figlia”. Dall’altro inaugura una collaborazione con “l’Indice dei libri del mese”, il più prestigioso periodico italiano di recensioni librarie e di ragionamenti sul mondo dei libri e sui grandi temi della cultura. Grazie a Cavaglion e grazie all’ ”Indice”, di cui lo stesso Cavaglion è una delle anime, ecco in anteprima la proposta del Libro del mese, protagonista sul numero di marzo della rivista. Non si tratta solo di una scoperta letteraria, ma anche di una delle più preziose testimonianze pubblicate di recente sul tema della Memoria.

g.v.

“Niente diventa reale se prima non si è sperimentato, neppure un proverbio è un proverbio se la vita non te ne ha dato un esempio”. Questa frase di John Keats, citata da Hélène Berr nella pagina del suo diario scritta il 1° novembre 1944, vale come un’epigrafe.
Capita ormai molto raramente di esprimere meraviglia, incantamento di fronte ad un libro sullo sterminio degli ebrei d’Europa. Escono molti libri, romanzi, diari, forse troppi. Si ha paura, come ha giustamente ammonito Marina Jarre, di finire vittime della ripetitività – e delle sue ossessioni. Ancora più di rado capita che, dentro un libro realmente diverso e “nuovo”, ci guidi la via maestra della letteratura, dei classici. Il diario di Hélène Berr rappresenta una di queste felici eccezioni: innanzitutto per la singolare genesi del testo, salvato dall’oblio grazie all’amore di chi prima lo ha conservato, poi liberalmente ha consentito che si stampasse. Se adesso è un libro noto in tutto il mondo, lo si deve agli eredi diretti, al ragazzo Jean, un giovane poi militante nella Resistenza francese, di cui Hélène era innamorata e al quale queste pagine erano destinate. La postfazione di Mariette Job ricostruisce nei dettagli le vicende testuali di questi fogli vergati in piccola grafia, senza correzioni: uno dei documenti che oggi attraggono per via quasi magnetica il visitatore del Mémorial della Shoah di Parigi.
L’autrice, di due anni più giovane di Primo Levi, essendo nata nel 1921, inizia a scrivere nel 1942. Il diario ha un doppio ritmo interno: la prima parte è un journal intime tradizionale, che s’apre con l’ingenua trepidazione di un’adolescente cui Paul Valéry una mattina di sole aveva lasciato in dono un suo libro con dedica nient’affatto presaga di quanto stesse per accadere (“Al risveglio, così dolce la luce e così bello quest’azzurro vivo”). Valéry non poteva prevalere. La morsa delle persecuzioni si fa ogni ora più stretta, parenti e amici di Hélène sono arrestati e rinchiusi a Drancy: accade così che la velocità della scrittura si faccia mano a mano che si procede più incalzante. All’elegia della Parigi primaverile, con l’idillio dei suoi parchi, subentra la città nevroticamente attraversata dai carri armati, dai tedeschi che irrompono alla Sorbona, dal soccorso recato ai bambini rimasti orfani. Hélène si prodiga per questi ultimi, ma capisce che di fronte all’abominio la sola difesa può venire dalla cittadella, in breve dall’isolamento libresco. Questo diario diventa così un parco interiore di citazioni, finemente ricostruite in una appendice bibliografica dai curatori.
Hélène era una studentessa di letteratura inglese, stava specializzandosi su Shakespeare e Keats. La sua autodifesa muove i primi passi innanzitutto sul piano linguistico: invita il padre, incredulo davanti alla decadenza della cultura tedesca, a non cedere agli stereotipi contro il cosiddetto cinismo anglosassone, “popolo senz’anima”. Sempre più insistenti diventano espressioni idiomatiche, giochi di parole, motti in inglese, quasi a voler garantirsi uno spazio di espressione che sia anche uno spazio di libertà (vago presagio di quella libertà che potrà venire, e di fatto verrà, dal mondo anglosassone, non con i libri, ma con le armi).
Il diario di Hélène rappresenta una delle testimonianze più alte del binomio ebraismo –europeità, sul quale tanto insiste George Steiner. Negli anni Trenta, Parigi rappresenta per l’ebraismo europeo un crogiuolo complementare e simmetrico alla Vienna d’inizio Novecento. Qui l’identità ebraica si conforma seguendo la linea che Hélène riassume così bene: “Quando scrivo ebreo non traduco il mio pensiero, infatti per me una simile definizione non esiste, non mi sento diversa dagli altri uomini, non riuscirò a considerarmi parte di un gruppo umano separato, forse è per questo che soffro tanto, perché non capisco più”. Nella Parigi occupata dai nazisti il sogno di molti coetanei di Hélène svanisce nel momento in cui si è costretti ad ammettere di non sapere perché si è perseguitati: “Soffro nel vedere la cattiveria umana, soffro nel vedere il male abbattersi sull’umanità, ma dato che non mi sento di far parte di nessun gruppo razziale, religioso, umano per sostenermi ho solo i miei conflitti e le mie reazioni, la mia coscienza personale”.
Non diverso era il sogno dei due Treves, Piero e Paolo, di Leo Ferrero, degli stessi fratelli Carlo e Nello Rosselli, di Raymond Aron: poter coniugare europeità ed ebraismo, riassumerli in una superiore forma di appartenenza al genere umano. Qui la novità consiste nel fatto che a parlare sia una giovane ragazza che s’affaccia con rigore e lucidità al mondo degli studi letterari. Non sono pertanto del tutto d’accordo con Patrick Modiano, che nella prefazione accosta Hélène a Simone Weil o a Etty Hillesum, il cui approccio non era letterario, ma teologico-filosofico e quindi ha potuto prestarsi ad interpretazioni in chiave cattolicizzante delle loro opere. Hélène è solo sfiorata dal problema della fede, la parola “preghiera” ricorre nel diario una sola volta. Il suo universo è quello della poesia, “il potere della sua suggestione”, riassunto nell’epilogo dei Thibault di Roger Martin du Gard, metafora della “fine desolante di tutta un’epoca”. Un dipinto dei vuoti, “che aspetta anche noi, dopo”.

Alberto Cavaglion

Il diario di Hélène Berr, prefazione di Patrick Modiano, con una nota di Mariette Job, traduzione italiana di Leonella Prato Caruso, Milano, Edizioni Frassinelli, 2009, pagg. 265, euro 18.50

(Nell’immagine: Mariette Job, la nipote di Hélène Berr, accanto al libro che si è battuta per pubblicare)

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