Operazione “Piombo fuso”, il dibattito pubblico

Penso che sia importante continuare a riflettere sul dibattito pubblico che c’è stato in questi mesi sull’operazione “Piombo fuso”. Chi segue con molta attenzione le cronache, si sarà accorto in questi giorni che un’inchiesta interna dell’esercito israeliano ha dimostrato che erano infondate le accuse di atrocità sollevate la settimana scorsa da alcuni soldati anonimi sollecitati da un ex ufficiale condannato a suo tempo per aver rifiutato di far la guardia a una cerimonia religiosa e che da tempo si qualifica come un “refuznik”: uno che rifiuta la legittimità di Israele e della sua difesa. Nessuna vecchietta è stata uccisa per divertimento, nessun civile è stato mandato a destra invece che a sinistra per ammazzarlo eccetera eccetera. I soldati che hanno diffuso le voci non erano stati testimoni oculari ma le avevano riportate da altri; gli episodi da cui nascevano si erano svolti in modo opposto a quanto raccontato (per esempio la storia della vecchietta era nata dal rimprovero di un ufficiale che aveva detto a una sentinella che sparava in aria per bloccare la figura sospetta che si avvicinava: “fai attenzione a non colpire i civili”.
Qualcosa del genere è successo con le scuole dell’Onu, che non sono state bombardate durante l’operazione, come ha dichiarato il loro stesso direttore, ma solo dopo una massiccia campagna mediatica che condannava Israele per questo “crimine di guerra”. In particolare ciò è accaduto per il tema particolarmente critico della morte dei bambini: l’esercito israeliano ha contato e dato nomi e identità una a una alle vittime della guerra. i bambini fino a 16 anni erano 89 su 1300 morti circa; perdite terribili, senza dubbio, ma in proporzioni tali da escludere che siano state programmate e cercate, ma anzi da dimostrare statisticamente una particolare cura nell’evitarli, visto che la loro proporzione sulla popolazione complessiva è di circa la metà. Lo stesso si è visto col caso Al Doura, quel ragazzino che sarebbe stato ucciso dall’esercito israeliano all’inizio della seconda intifada, nel 2002. Un tribunale francese ha stabilito che il fatto non era andato come era stato detto, ma che si era trattato di una montatura della televisione francese che l’aveva lanciato. E’ probabile che il ragazzino non sia mai morto e che tutta la scena fosse stata una falsificazione montata apposta con la complicità dell’operatore locale della televisione. E’ così per la “strage” di Jenin, per l’”assedio” della basilica della natività a Betlemme, eccetera.
Si potrebbe continuare a lungo. Il meccanismo è questo: si lancia (spesso sui giornali israeliani) una calunnia contro Israele e il suo esercito, questa calunnia ottiene un grande clamore mediatico in tutto il mondo, dopodiché viene smentita, ma di questo non si occupa nessuno. Che le smentite non servano a granché nel sistema dei media, anzi che siano “una notizia data due volte” è un fatto che gli esperti di comunicazione conoscono bene. Il problema è però più vasto. Mentre è ovvio che i palestinesi commettono atrocità contro i civili, con gli attentatori suicidi, i razzi da Gaza, gli stessi crimini contro i dissidenti della loro popolazione (omosessuali, “collaborazionisti”, donne ecc.) è Israele che agli occhi del mondo appare come una potenza omicida e sregolata, i palestinesi come vittime più o meno innocenti. Che questa propaganda sia propalata dai nemici di Israele è ovvio. Il fatto è che essa è condivisa da uno strato importante non della popolazione, ma dell’intellighenzia israeliana ed ebraica, il che richiede una spiegazione.
Se prendiamo il caso delle “rivelazioni” smentite sulla cattiveria dei “soldati religiosi” , la stessa Haaretz che aveva propalato le storie senza verificarle con grandi titoli in prima pagina, ha accettato il verdetto, con un editoriale non firmato e dunque attribuibile alla direzione, ma si è guardato bene dal chiedere scusa. Ha pubblicato però anche un’opinione di Gideon Levy, in cui si sostiene in sostanza che se la giustizia militare ha accertato che i fatti non si sono svolti e l’esercito non aveva colpe, allora è sbagliata la giustizia militare. Il fatto è che per molti Israele deve avere torto, perché i suoi nemici devono aver ragione. E’ un meccanismo fortemente ideologico, che agisce in molte situazioni politiche ed è stato analizzato a suo tempo da Gramsci sotto il nome antico di “egemonia”. Uno strato o movimento sociale per Gramsi è “egemonico” quando le sue ragioni, che sono ovviamente di parte, diventano la ragione generale, il criterio di valutazione valido anche per i suoi avversari.
E’ evidente che in questo momento in buona parte dell’Europa, ma anche nella maggioranza degli intellettuali israeliani, c’è un’egemonia terzomondista e concretamente filopalestinese. La tacita premessa di ogni discorso, compreso quello del finto ammazzamento di Al Doura, è che l’Occidente ha torto perché colonialista e aggressivo; che Israele è una punta di questo colonialismo che continua a ferire il mondo islamico, innocente come tutto il Terzo Mondo; che dunque l’esistenza stessa di Israele è illegittima, anche se legale. Quindi deve commettere dei crimini. Quando Gideon Levy parla di “giustizia”, su cui, come raccontava Anna Foa su Moked una decina di giorni fa, si sente più severo col suo Paese che con gli altri, non si riferisce al diritto in senso banale (ciascuno è responsabile delle sue azioni secondo le leggi), ma a una nozione molto più ideologica e astratta di Giustizia (come sarebbe giusto fossero le cose). Non è dunque interessato ad accertare la verità dei fatti, ma a condannare l’ingiustizia politica costituita dall’esistenza di Israele (e anche dalla sua, presumo; ma qui siamo nell’ambito ben collaudato dell’odio di sé che accompagna buona parte dell’ebraismo moderno).
E’ importante rifiutare questa logica: non è giusta una giustizia ideologica ed egemonizzata dal terzomondismo (o dai residui di comunismo per cui è ottimo ogni movimento politico o sociale contrario al capitalismo, sia pure il sistema oppressivo e “fascista” dell’islamismo militante). La giustizia dev’essere laica, “uguale per tutti” e non schierarsi a priori per “la parte giusta”, quella che “ha ragione” per principio. Non c’è bisogno di una giustizia ideologica e di un’egemonia opposta per assolvere Israele dalle mille colpe che gli attribuiscono. Basta una giustizia laica, non ideologica, che accerta i fatti e li misura sulla legge.

Ugo Volli, semiologo