Il mito di Liz

Grazie a l’Unione informa ho appreso il tragitto ebraico dell’epica Liz Taylor, che onestamente ignoravo. Questo mito femminile passato indenne attraverso otto (8!) matrimoni, mai spaventata dall’opportunità di trasformarsi e mutare opinione, ha vissuto come una certezza l’appartenenza al popolo ebraico, scoperto da bambina e poi divenuto il suo all’età di 27 anni, quando, dopo nove mesi di studio, scelse di convertirsi.
La questione delle conversioni (ghiurim) è notoriamente spinosa. L’ebraismo non prevede il proselitismo, e dunque aborre l’ipotesi di spingere altri a diventare ebrei; secondo la norma, anzi, il maestro è tenuto a dissuadere il candidato a compiere un passo che può rivelarsi pericoloso per la propria incolumità. Appartenere al «popolo eletto» non costituisce un privilegio, ma un aumento di responsabilità motivato dal rispetto dei precetti.
Ora, questa peculiarità dell’ebraismo è fonte di orgoglio. L’assenza di proselitismo aiuta a evitare il fanatismo, e, nella modernità, anche altre confessioni stanno approdando al medesimo esito. Ciò non toglie che tale impostazione provochi alcune problematiche all’interno delle comunità. In virtù di un’interpretazione assai restrittiva, tesa probabilmente a scoraggiare i matrimoni con persone di altre fedi, i tribunali rabbinici rendono talvolta il percorso di conversione molto complicato anche in assenza di impedimenti particolari.
La storia di Liz Taylor indica però due cose: ogni persona fa storia a sé – e su questo tutti concordano – e la durata della conversione non è per forza un fattore dirimente. Occorre che l’autorità rabbinica verifichi una motivazione profonda e la disponibilità a condurre una vita ebraica. Senza cadere nel proselitismo, rinunciamo ad atteggiamenti pregiudiziali nei confronti del candidato: ascoltiamo soprattutto che cosa ha da dirci.

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas