Dibattito aperto

A proposito delle polemiche e degli episodi avvenuti in questi ultimi giorni nell’ambito della Comunità di Roma, sono molti i contributi pervenuti in redazione, provenienti da leader ebraici italiani, opinion leader o semplici lettori. Di seguito ne proponiamo una rassegna.

Giorgio Gomel: “Faciloneria, insensibilità”

Un avviso trasmesso dall’Ufficio Giovani della Comunità ebraica di Roma (vedi sotto) dal titolo “Happening e barbecue con i nostri fratelli ad Itamar” ci informa di un’iniziativa del suo Presidente diffusa tramite le strutture della Comunità stessa.
Il tono è da festa o gita bucolica in un luogo ameno.
Rivela una mancanza di sensibilità, di senso della misura e di onestà intellettuale che colpisce.
Itamar non è un posto da barbecue e i suoi abitanti non sono sentimentalmente i “nostri fratelli”. Itamar è un insediamento in Cisgiordania. Qualche settimana fa vi è stata assassinata la famiglia Fogel – i genitori e tre bambini. Appena due giorni fa gli esecutori di questo orribile omicidio – due giovani di Awarta, un villaggio palestinese vicino – sono stati catturati. Ma è appunto un insediamento, anzi uno dei più assurdi per la sua geografia e la sua storia, quasi un emblema della follia del conflitto israelo-palestinese e degli ostacoli immani che si oppongono alla sua soluzione pacifica con la costituzione di due stati in rapporti di almeno decente vicinato. Itamar è vicino a Nablus, la maggiore città palestinese, ed è da anni un luogo di frizione continua fra i coloni che vi abitano e i palestinesi dei villaggi circostanti. I coloni che vi si sono insediati non sono innocentemente e sentimentalmente i “nostri fratelli”; sono persone che , mosse da motivazioni diverse – molti di loro militanti dell’estremismo nazional-religioso – si sono insediate a Itamar così come in molte altre località su terreni di proprietà di palestinesi o espropriati dallo stato di Israele come “state land”. Facendo ciò, edificando case e strutture, costringono l’esercito israeliano ad una onerosa opera di protezione, con conseguenti, infinite limitazioni e vessazioni punitive della libertà degli abitanti palestinesi.
Era difficile immaginare un’iniziativa peggiore di questa.
Giorgio Gomel

Happening & Barbecue con i nostri fratelli ad Itamar
Giovedì 21 aprile 2011
Chol ha’moed Pessach

La Comunità Ebraica di Roma è lieti di informarvi ed invitarvi a partecipare ad un’esperienza indimenticabile per i grandi e per i piccoli, un’occasione per trascorrere una giornata diversa e gioiosa con i cittadini di Itamar e dintorni.
Trasporto organizzato: Partenza con il pullman alle ore 11.00 dal Hotel Dan Tel Aviv (HaYarkon 99), rientro a Tel Aviv nel pomeriggio. Costo: adulto 17 euro Bambini sotto 12 anni avranno un prezzo agevolato.
Per coloro che desiderano di venire con i propri mezzi vi preghiamo, per motivi di sicurezza, di unirsi in meno mezzi autonomi possibili.
Considerando il breve preavviso, shabat e i moadim in mezzo, si chiede la conferma della vostra partecipazione per motivi.
La vostra presenza sarà molto gradita e speriamo di vedervi numerosi.
Rimango a vostra completa disposizione per ulteriori informazioni.
Un caloroso Shabbat Shalom e Hag Sameach!
Chag sameach e shabbat shalom

Solidarietà da Roma per la gente di Itamar

Un’iniziativa di solidarietà e d’apertura al dialogo: è questo il senso della missione di due giorni d’una rappresentanza della Comunità ebraica di Roma guidata dal presidente, Riccardo Pacifici, nell’insediamento ebraico di Itamar in Cisgiordania, teatro nelle settimane scorse di un sanguinoso eccidio costato la vita a cinque componenti di una giovane famiglia (padre, madre e tre bambini). La missione è cominciata con un primo incontro con gli abitanti e un momento di preghiera comune in sinagoga e prevede che l’intera delegazione trascorra la notte nell’insediamento. Domani, in una cerimonia pubblica, Pacifici consegnerà «un piccolo aiuto economico frutto di offerte spontanee» destinato agli orfani scampati alla strage (un bambino di due anni che dormiva con i genitori nascosto dalle coperte, un fratello di 10 che non è stato notato su un divano letto in soggiorno e una sorella di 12 che non era in casa) e formalizzerà l’avvio di un progetto di adozione a distanza di uno di loro. Ad accompagnare gli ospiti vi sono anche alcuni israeliani d’origine italiana, fra i quali Yonathan Pacifici, che da bambino rimase ferito nell’attentato alla sinagoga di Roma. «Siamo qui per testimoniare la solidarietà umana della nostra Comunità, come di tutti gli ebrei del mondo, agli orfani sopravvissuti miracolosamente alla furia dei terroristi che hanno sgozzato i loro genitori e fratelli», ha spiegato Pacifici, notando come la visita avvenga su uno sfondo di inquietudini regionali e di timori di ripresa del terrorismo in Israele alimentati dal recente attentato alla stazione dei bus di Gerusalemme. «Nello stesso tempo – ha aggiunto – vogliamo portare anche un messaggio politico: e cioè che siamo stanchi di sentir parlare di coloni, con un termine che nell’immaginario europeo ha connotati negativi, per indicare persone che (negli insediamenti ebraici) fanno certamente una scelta ideologica dettata dal desiderio di vivere in luoghi raccontati dalla Bibbia, ma che non sfruttano terre ricche di risorse e che qui, certamente, non vogliono far male a nessuno». Persone che a Itamar provengono in gran parte da America o Francia e fra cui non ci sono italiani, ma con le quali la Comunità romana «vuole aprire un dialogo»: «Senza condannarne la scelta», ha puntualizzato Pacifici, pur evidenziando la volontà di «accettare qualsiasi decisione i leader democratici israeliani vorranno prendere» sulle colonie, nell’ambito di quell’ipotetico accordo di pace che «gli ebrei italiani desiderano e invocano nelle loro preghiere».

Pacifici: Itamar, solidarietà dopo la strage

‘Il dramma è che questo attentato impone a noi tutti di alzare il livello dell’attenzione”. Cosi’ il presidente della Comunità ebraica romana Riccardo Pacifici commenta l’attentato di oggi a Gerusalemme. ”Nell’arco di 10 giorni – spiega ancora – Israele si ritrova sotto il mirino del terrorismo fondamentalista che abbandonando lo stile dei terroristi suicidi, gli shahid, riprende lo stile tradizionale degli attentati dell’era Olp con Arafat”. Pacifici annuncia che nei prossimi giorni si recherà, con una piccola delegazione, in Israele per portare la solidarietà e l’aiuto ai superstiti della famiglia di coloni uccisa a Itamar e ”i loro figli sgozzati, compreso un bambino di tre mesi”. ”Andremo – afferma – nell’insediamento di Itamar, dormiremo con i cittadini di quell’insediamento e porteremo aiuti ai bambini sopravvissuti miracolosamente alla strage che apre uno scenario da incubo”. ” La barriera difensiva – dice poi – ha dimostrato in questi sei anni di aver compiuto la sua missione perché ha consentito a tutti i cittadini di Israele, ebrei e non, arabi compresi, di vivere relativamente tranquilli. Purtroppo la strage di Itamar è avvenuta durante il terremoto del Giappone e non ha colpito l’opinione pubblica internazionale alle prese con il disastro e con l’incubo di catastrofe e poi anche con la Libia”. Per Pacifici la scelta di recarsi in Israele è un ”grido: siamo stanchi di sentire che gli abitanti degli insediamenti continuano a essere un ostacolo alla pace, soprattutto per il loro diritto di allargare le proprie abitazioni per dare spazio alle famiglie che crescono. Un diritto – conclude – che non è solo per gli arabi musulmani ma anche per gli ebrei”.

La nostra solitudine

Leggendo le notizie della strage di Itamar, mi tornano in mente immagini viste da bambino, più di cinquant’anni fa, prima dell’”occupazione”: terroristi venuti dall’Egitto o dalla Giordania, che entravano nelle case e sterminavano i nostri fratelli, anche loro “coloni”; e prima ancora le stragi di Ebron e Zfat negli anni venti, con i bimbi estratti dal ventre della madre per ammazzarli meglio; e le Olimpiadi di Monaco e le esecuzioni naziste di vecchi, bambini, famiglie intere, fatte sul posto con la volonterosa collaborazione di ucraini e lituani, polacchi e ruteni, prima che i campi di sterminio entrassero a regime; e i pogrom dei tartari e l’Inquisizione e le stragi arabe del Medioevo.
Ma se si resiste alla vertigine dell’orrore e si resta al quadro di Eretz Israel, resta una guerra condotta con una ferocia inaudita, che non ha pietà o rispetto di nulla e di nessuno, che coinvolge volentieri gli innocenti, colpevoli però di essere della razza nemica.
Resta anche la straordinaria freddezza di fronte al crimine dell’Occidente che distoglie lo sguardo e certo non si scandalizza per cinque ebrei sgozzati come di una casa costruita in una “colonia” o di una sentenza di tribunale che restituisce la sua proprietà a un ebreo in un quartiere che si vuole per qualche ragione “arabo”.
Si dice che quella palestinese è una causa di liberazione nazionale, una sorta di Risorgimento: ma chi potrebbe immaginare Garibaldi o Bixio o perfino Oberdan, che effettivamente progettò un atto terrorista contro l’Imperatore Francesco Giuseppe, entrare in una casa austriaca e sterminare una famiglia? Si parla di “Resistenza” ma qualcuno è in grado di pensare a Longo o Galimberti che prendono un neonato e lo sgozzano con le loro mani, come un agnello?
C’è qualcosa di così orrendamente sanguinario in questo gesto di sgozzare (che è rituale, lo stesso che fu applicato a Pearle e a Fabrizio Quattrocchi, l’italiano sequestrato in Iraq e a tanti altri). E’ la trasformazione del nemico in bestia, la sua eliminazione rituale oltre che fisica. Al valore rituale del sangue versato corrisponde una esaltazione del gesto: essere “martiri”, cioè assassini è un onore vicino alla santità. Ai martiri non solo la “violenta” Hamas, ma anche la “pacifica” Autorità Palestinese consacra piazze, scuole, impianti sportivi, li esalta nei libri di scuola e in televisione, educa i bambini a imitarli. Con gli accordi di Oslo l’OLP si era impegnato a smetterla, ma non l’ha mai fatto. Su questo Palestinian Media Watch ha raccolto una documentazione imponente.
E’ possibile fare la pace con gente del genere (che considera “occupazione” tutta Israele non solo la Giudea e la Samaria? Io non credo. Non per il tempo prevedibile, come pensare di avere per “buoni vicini” una popolazione che ha questo culto della morte, come fare con loro “ponti e non muri”? Ma tutto il mondo la vuole, chiede insistentemente “concessioni”, abbattimenti di “muri”, rinunce a strumenti difensivi come i check point o la barriera di sicurezza, aperture delle zone come Gaza, dove si annidano i terroristi più organizzati.
Alcuni ci dicono apertamente che “Israele è una parentesi destinata a chiudersi” (Chirac) o che gli ebrei debbono “tornare a casa in Europa”, dove peraltro sono sempre meno benvenuti. Sono gli stessi che titolano sui “coloni” uccisi, come se abitare in una casa al di là della linea armistiziale del ’49 fosse un crimine capitale.
In tutto questo vi è di nuovo una grande, terribile solitudine ebraica, paragonabile a quella delle persecuzioni cattoliche, o della seconda guerra mondiale, quando sembrava non esserci davvero dove andare. E’ raggelante il sostanziale silenzio, la freddezza con cui i giornali italiani, i politici europei, i grandi intellettuali che parlano contro “la violenza israeliana” e la paragonano al nazismo, per non parlare dell’opinione pubblica araba, per esempio delle caramelle distribuite a Gaza. Non si può non pensare che, come la generazione dei nostri padri e nonni, anche la nostra è soggetta a una guerra di distruzione (contro gli ebrei, non “solo” contro Israele). E che il passato non ha insegnato nulla anche ai più volonterosi e buonisti democratici, dolenti per la Shoah ma silenziosi su Israele, che siamo di nuovo terribilmente soli ad affrontarla.
Ugo Volli

Di fronte alla strage di Itamar

Shabat shalom Yoav. Shabat shalom Elad. Shabat shalom Hadas. Buonanotte miei piccoli bimbi. Ci ritroveremo in un posto migliore. Dove gli uomini non verranno a coglierci nel cuore della notte con un pugnale in mano. Spinti dalla sete di sangue ebraico. Fatevi dare l’ultimo bacio della buonanotte Tamar, Roy e Shai. Mamma Ruth e papà Udi continueranno a guardarvi da lassù. E a cercare di proteggervi. Dalla crudeltà umana che si accanisce contro un neonato. Dall’ipocrisia di un mondo che non ci rispetta nemmeno da morti. Chiamandoci coloni. E non israeliani. Coloni. E non esseri umani. Perché viviamo in territori conquistati col sangue dei nostri fratelli. Durante guerre di difesa dai propri nemici. Territori messi in discussione da stati che non rispettano i diritti umani. Ma si permettono di dichiarare che le nostre guerre non valgono come quelle del mondo. Stati che impiccano, lapidano, frustano. Ma che vengono ascoltati e ossequiati quando vogliono decidere del futuro dello Stato di Israele. Spero che capiate la nostra scelta. Che ci ha portato a vivere lontano dai comfort e in costante pericolo. Che ci ha tolto l’onore di passare alla cronaca come “vittime” e ha dato il privilegio al nostro assassino di non venire chiamato come tale. E’ stata una scelta di guerra. Combattuta con armi che si chiamano case, giardini, scuole e bambini. E’ stata una scelta ideologica. Una scelta di valori. Una scelta di vita. E di morte. Dettata dal fatto che riteniamo che questa terra appartenga al popolo ebraico. E a nessun altro. Fondata sulla consapevolezza che quando D-o dà miracolosamente al popolo di Israele un pezzo della sua storia, non vuole che questa venga regalata ai nemici. Buonanotte bimbi miei. Addio miei adorati. Continuate a portare alto l’onore del vostro popolo. Non gridate vendetta. Non maledite i nostri assassini. Costruite altre case, piantate nuovi alberi, riempite le scuole con i vostri bambini. Questo è il modo di combattere di un vero ebreo. O chiamatelo pure colono. Quassù, sotto al Trono Celeste, sono semplicemente un’anima ebraica. E nessun giornalista, nessun politico, nessun fanatico, nessun assassino, mi potrà privare di questo eterno onore.
Gheula Canarutto Nemni

Il dolore e la pace

Sabato notte una famiglia israeliana, i Fogel, è stata trucidata nel sonno nella sua casa di Itamar, in piena Cisgiordania. A mezzanotte la figlia dodicenne è tornata a casa dopo una serata con gli scout. Nessuno le ha aperto, e ha dovuto scoprire da sé la verità dei suoi parenti sgozzati immersi in un lago di sangue. Tutti, dal padre al fratellino di appena tre mesi. Una strage terrificante.
In seguito alla diffusione della notizia, abbiamo assistito a varie reazioni: una folla commossa ha partecipato ai funerali delle vittime in Israele; manifestazioni di giubilo si sono tenute in varie capitali arabe o musulmane; il governo israeliano ha scelto per la prima volta di mostrare al mondo le immagini terribili dei morti per costringere il mondo a farci i conti; il Giappone è stato spazzato via da un terremoto gigantesco che ha ovviamente catturato l’attenzione dei media internazionali; gli israeliani hanno dimostrato una volta di più la loro straordinaria civiltà, senza lasciarsi andare a nessuna (!) forma di giustizia sommaria.
È difficile aggiungere qualche considerazione quando le fotografie si esprimono in un modo così definito e inappellabile. Sembra quasi di compiere una profanazione. Ma al tempo stesso occorre ricordare che l’unica risposta concreta a queste morti odiose è la ricerca, complicatissima e razionale, di una soluzione di pace. I Fogel erano stati evacuati da Gaza nel 2005. Nel cuore della Cisgiordania sono stati ammazzati da una mano vile. Ma le colonie non saranno mai sicure per gli israeliani, né si riveleranno un baluardo per la sicurezza dello Stato. L’Autorità nazionale palestinese, anziché mostrare inquietanti e ingiustificabili connivenze con terroristi e assassini, dovrebbe cercare di fare qualcosa di efficace per il suo popolo. Accreditandosi come interlocutore responsabile in una trattativa di pace. Altrimenti, quale che sia l’esito finale del conflitto israelo-palestinese, il destino dei palestinesi passerà sopra le loro teste.
Infine, la comunità internazionale deve muoversi seriamente, prendendo in considerazione le istanze e le esigenze dei due contendenti. Ma è lecito aspettarsi qualcosa da un consesso che, mentre Gheddafi sta vincendo la sua battaglia, continua a valutare se riunire il Consiglio di sicurezza entro la fine della settimana?
Tobia Zevi

Prospettive di pace, fra fantasia e realtà

La mostruosa, ripugnante strage di Itamar, nella quale sono stati sgozzati bimbi inermi di pochi anni e pochi mesi, richiama l’attenzione sul dibattito e le polemiche recentemente sollevate dalla pubblicazione non autorizzata dei cosiddetti “Palestinian Papers” (ossia i documenti riservati in cui sarebbero stati fissati alcuni possibili punti di compromesso, su cui le due parti impegnate nei colloqui di pace – governo israeliano e Autorità palestinese – avrebbero già dimostrato, ciascuna nel proprio ambito, una disponibilità di massima riguardo alle concessioni da fare reciprocamente). I sommovimenti in atto in diversi Paesi arabi sembravano aver fatto passare in secondo piano le pubbliche reazioni a tale divulgazione, ma oggi esse sembrano tornare, di fronte al sangue innocente versato, di drammatica attualità, altamente indicative riguardo alla valutazione della concreta possibilità di giungere, prima o poi, a una qualche forma di accordo di pace.
La generale ‘vulgata’ del contenuto di tali documenti, infatti (iniziata da un paio di articoli americani, e poi immediatamente, acriticamente dilagata in tutto il mondo), è stata quella di una eccezionale disponibilità al compromesso che sarebbe stata dimostrata dalla parte palestinese (in particolare, riguardo all’accettazione alla permanenza, in Cisgiordania, di alcuni insediamenti, in cambio di altre concessioni territoriali), che starebbe quindi automaticamente, irrefutabilmente a dimostrare – in ragione dell’impasse negoziale – una speculare rigidità da parte d’Israele, unico vero responsabile del mancato raggiungimento di un accordo. Una ‘vulgata’ che, nella generalità dei commenti da parte araba, si è trasformata nell’univoca, vibrante denuncia della ‘svendita’ della causa palestinese che sarebbe stata ordita dai negoziatori di Abu Mazen e Salam Fayyad, additati come “servi degli americani e degli israeliani” per il solo fatto di avere negoziato con il gabinetto di Olmert. Accuse, naturalmente, respinte con sdegno dagli interessati, i quali si sono affrettati a smentire ogni fondamento alle accuse di “cedimento al nemico” – negando la veridicità dei documenti, e attribuendone la paternità ai servizi segreti israeliani -, ma senza potere con ciò arrestare un immediato crollo di consensi e credibilità, a vantaggio delle forze più radicali. Ed è esattamente in questo contesto che si inserisce l’orrore di Itamar, come a dire: questo, e solo questo, deve essere il modo di “trattare”.
Personalmente, da quel po’ che abbiamo capito dei contenuti dei Papers, veri o falsi che siano, non ci è per niente sembrato che essi contemplassero delle rinunce unilaterali per i palestinesi, o più penalizzanti per loro rispetto alla controparte. Basterebbe considerare che i documenti avrebbero accettato il principio di una spartizione di Gerusalemme – certamente non facile da accettare per i cittadini israeliani, anche i più pacifisti e inclini al compromesso -, e non avrebbero posto alcun ostacolo sulla strada del tanto agognato – almeno a parole – “Stato palestinese”. Ma non è questo il punto. Ciò che, come abbiamo detto, rende assolutamente pessimisti riguardo all’esito finale del negoziato è l’assenza, in tutto il mondo arabo, di una sola voce – che sia una – improntata a un sia pur parziale, ipotetico, condizionato apprezzamento del tentativo di compromesso. Il commento prevalente, se non unico, è stato infatti quello ricordato, sintetizzabile nella semplice parola “tradimento”. Un rifiuto che non appare per niente rivolto contro qualche specifico contenuto degli accordi (non ce ne sarebbe stata alcuna ragione), ma, in sostanza, contro il fatto stesso di avere negoziato, o, almeno, aver mostrato di farlo. E se, da una parte, l’idea stessa della trattativa appare rigettata con esecrazione, da pressoché tutti i commentatori arabi, ben diversa (minoritaria, ambigua, esitante) è apparsa la condanna della strage.
Un quadro fosco e desolante, nel quale le prospettive di pace mostrano una concretezza pari allo zero.
Francesco Lucrezi

Fanatismo

In questi giorni ha tenuto banco la notizia della pornostar israeliana, morsa al seno da un boa conscrictor durante una serie di scatti fotografici effettuati al silicone della ragazza – i serpenti non usano silicone. Tra gli animalisti di tutto il mondo c’è grande preoccupazione per la sorte del boa che è sparito. La notizia ha rischiato di essere oscurata con la scusa che a Itamar erano stati sgozzati nel sonno un padre, una madre, due bambini e un neonato colono. Per fortuna ha prevalso il buonsenso e la stampa mondiale si è occupata solo del serpente.
Il Tizio della Sera

Il termine «coloni»

I telespettatori e i lettori di giornali, anche quelli più avvertiti, si sono ormai assuefatti al termine «colono». Ma perché questa puntigliosa precisazione, così diffusa, eppure così grave? Le parole non sono etichette vuote e indifferenti; hanno un significato che spesso veicola messaggi molteplici. Il termine «colono» sintetizza il modo di vedere di Israele, ne decreta la delegittimazione.
Dalla guerra dei Sei Giorni, che Israele fu costretto a vincere, cominciò a circolare a chiare lettere l’accusa di colonialismo. Nei territori occupati in seguito alla guerra si svilupparono insediamenti che in gergo giornalistico divennero ben presto colonie. Si può su questo punto criticare la politica di insediamento dei governi israeliani successivi. Tuttavia la categoria semantica «colonie» resta problematica. Il potere coloniale è ben altra cosa: si fonda su una metropoli e sulla installazione di territori immensi e lontani, in una discontinuità storico-geografica, di cui si sfruttano le risorse e dai quali si ricavano redditi. È stato questo il modello delle colonie europee. Le cosiddette «colonie», di cui si parla in riferimento a Israele, si estendono per 5.800 chilometri e sono molto spesso paragonabili alla periferia di grandi reti urbane.
L’uso disinvolto, e forse talvolta inconsapevole, del termine «colono» è inaccettabile, perché finisce per rappresentare Israele come una grande, enorme colonia, per infangarne la storia, per comprometterne l’esistenza politica, per minarne la legittimità democratica.
A morire è stata una famiglia di «coloni». Usare il termine «coloni» piuttosto che israeliani significa far passare l’idea che si trattava di cittadini che risiedevano illegittimamente rispetto agli autoctoni, o presunti tali, significa rispolverare il vecchio argomento dell’autoctonia e del possesso della terra, e soprattutto vuol dire insinuare una sorta di discolpa per chi ha compiuto un gesto omicida.
Donatella Di Cesare

Siamo tutti coloni

Sono stato colpito anch’io come altri, fra cui Donatella di Cesare su questo sito, dell’uso disumanizzante che palestinesi, politici europei, stampa internazionale e anche qualche parte del mondo ebraico hanno fatto della parola “colono” in occasione della strage di Itamar. E’ un uso del linguaggio così inaccettabile e velenoso da meritare una riflessione, al di là del rifiuto dell’odio. Non si tratta solo di un linguaggio giuridicamente sbagliato e fondamentalmente razzista, vi è in esso un attacco all’identità ebraica. C’è in esso qualcosa di antiebraico, più generale di tutte le spiegazioni che si possono dare sul fatto che Giudea e Samaria sono territori contestati e non territori occupati; che non esiste nessun diritto legale palestinese a tutte le terre al di là di una linea armistiziale che fu stabilita nel ’49 con un accordo a Rodi in cui se ne escludeva esplicitamente la funzione di confine internazionale; sul ridicolo di riportare lo schema dell’imperialismo ottocentesco (“madrepatria” e “colonie”) a una situazione in cui le distanze sono di pochi chilometri e le due popolazioni (“occupanti” e “occupati”, ebrei e arabi) si mescolano da entrambe le parti della linea verde.
Come fece notare Shmule Trigano in un suo bellissimo libretto di qualche anno fa (“Les Frontères d’Auschwitz”, Livre de poche 2005), anche se letteralmente l’italiano “colono” e l’inglese “settler” traduce piuttosto “mityashev”, colui che si insedia, che va a risiedere – termine usato per gli immigranti nell’Yishuv che precedette lo stato di Israele -, “colono” nel senso disumanizzato è la traduzione del termine ebraico “mitnahel”, usato adesso, che significa “chi prende possesso della sua eredità (nachala)”.
Il problema per i nemici di Israele non è solo che ci siano degli insediamenti, ma che questi vengano rivendicati come ebraici, come eredità. Per questo si tenta sempre più spesso di definire “colonie” anche luoghi che non sono certo nuovi insediamenti, come Gerusalemme, e la loro ovvia origine ebraica è contrastata e negata dai palestinesi e dai loro sostenitori al di là di ogni buon senso, delle testimonianze storiche e archeologiche e perfino del Corano. Che poi a Gerusalemme i decenni di “occupazione” ebraica non abbiano affatto eliminato la popolazione araba né sconsacrato i luoghi di culto islamici (al contrario della pulizia etnica e della vera e propria distruzione del quartiere ebraico, della sconsacrazione dei cimiteri ecc. compiute dall’occupazione giordana), non interessa a nessun cultore della correttezza politica. Se uccidere i coloni non è reato, figuriamoci falsificare la storia e distruggere le memorie delle “colonie”.
Del resto, che da parte della Chiesa e dell’Islam ci sarebbe stata il tentativo di negare la nostra appartenenza alla Terra di Israele – a tutta la Terra, non solo alla porzione al di là della linea verde – era chiaro a chiunque sapesse vedere fin dall’inizio di queste religioni. Per vederlo basta rileggere oggi la celebre nota di Rashi al primo versetto della Torah (“Per quale ragione inizia con il racconto della creazione? […] Se i popoli del mondo dicessero a Israele ‘voi siete dei predoni [dei coloni?] perché avete preso con la forza le terre [… si potrebbe] replicare loro ‘Tutta la terra appartiene al Santo benedetto Egli sia, è lui che l’ha creata e l’ha data a chi parve giusto ai suoi occhi.”). Quel che è in gioco insomma è il nostro rapporto con Eretz Yisrael, che la Torah definisce il nostro lascito (morashà). Chi disumanizza i coloni considera innanzitutto intollerabile questo rapporto.
Bisogna aggiungere che Rashi, nel suo commento, si riferiva ovviamente non alle terre “dei Palestinesi” che allora non c’erano e non ci sarebbero stati per altri ottocento anni, ma al primo ingresso del popolo ebraico in Eretz Yisrael, quello di Giosuè e della sconfitta dei “sette popoli”. Il fatto è che il popolo ebraico (fin dal nome ivrì, attribuito per primo ad Avraham e solitamente interpretato come “colui che viene da altrove”) è fra i pochissimi se non l’unico a non proclamarsi indigeno, ma a dirsi invece nei propri testi fondativi immigrato, “occupante” o “colono” della sua terra. In realtà la storia ci insegna che questa condizione non indigena è comune a tutti i popoli, che si sono insediati dove stanno ora dopo migrazioni e battaglie, magari antiche come per celti e latini, o piuttosto recenti come arabi e turchi; ma quello ebraico si caratterizza per non averlo scordato o nascosto: “mio padre era un arameo errante”, diremo fra un po’ di nuovo nel seder di Pessach.
La verità è che noi ebrei, quando non siamo esuli, siamo tutti, da sempre, coloni. Siamo stati stranieri-residenti con Abramo (Gn 23,3), esiliati con Giuseppe, stranieri in terra straniera con Mosè e Gershom, conquistatori con Giosuè, e poi di nuovo esiliati in Babilonia, di nuovo “occupanti” con Esdra e Neemia, di nuovo esiliati e oggi “coloni” ancora, al di qua o al di là della linea verde. Chi fra noi o fra i nostri “amici”, pensa di poter dividere il popolo ebraico fra coloni cattivi (“mitnahelim”) e cittadini buoni (mityashevim”), si sbaglia profondamente e tradisce il senso della nostra storia. Chi attacca i “coloni” lo fa tatticamente, ma attacca tutto il popolo ebraico, rifiutando una delle basi della sua esistenza, il rapporto con Eretz Yisrael. Per ragioni pratiche, per tentare delle vie di pace, per non farci schiacciare possiamo dover rinunciare a una parte della nostra eredità, lo sappiamo tutti. Ma non perché vi sia un diritto diverso al di qua e al di là della linea verde. Non perché i “coloni” abbiano minori diritti o più torti degli abitanti di Tel Aviv; ma perché i rapporti di forza sono quelli che sono. Dunque, ricordiamoci sempre che “siamo tutti coloni”.
Ugo Volli

“L’attaco ai coloni è un attacco alla nazione”

Chi attacca i “coloni” lo fa tatticamente, ma in realtà attacca tutta la nazione israeliana e attraverso questa tutto il popolo ebraico, rifiutando una delle basi della sua esistenza, il rapporto con Eretz Yisrael. Ha ragione Ugo Volli. Ma ha torto Ugo Volli quando dice che siamo tutti “coloni”. Anche se la scelta di vivere in Eretz Yisrael, idealmente, non può avere limiti spaziali, da quando esiste lo stato d’Israele è esso, e nessun altro, il solo agente autorizzato a mediare le necessità e le aspirazioni politiche degli ebrei in Eretz Yisrael. Purtroppo, una parte dei “coloni” ha agito e agisce in sprezzante vilipendio nei confronti dello stato d’Israele e delle sue autorità legalmente costituite. Infrangere la legge dello stato mediante attività non autorizzate, insultare e anche usare violenza fisica nei confronti dei rappresentanti dello stato (come è realmente avvenuto in diverse occasioni), sono comportamenti non degni di persone civili – ebrei e non, israeliani e non, “coloni” e non. Pertanto, non siamo tutti “coloni”.
Sergio Della Pergola

Giustizia e arrendevolezza

Vi è un’antica illusione ebraica, secondo cui il modo per salvarci dall’odio e dalle persecuzioni sta nel “comportarsi bene” e nello stare alle regole dettate dagli altri. E’ stata la convinzione di molti ebrei assimilati durante la Shoah: non è possibile che colpiscano chi ha minuziosamente aderito a valori, stili di vita, comportamenti uguali agli altri. Ma è stata forse anche la convinzione dei chassidim russi che ai tempi di Napoleone rifiutarono di accettare la libertà che veniva loro offerta per mantenere il proprio ruolo, inferiore sì, ma garantito nella società dell’Ancién Régime. Molto più indietro, è l’illusione di Ester, che esita a rompere le regole del serraglio reale e Mordechai deve ammonire a non pensare di salvarsi da sola. Oggi è l’illusione di chi pensa che se Israele finalmente si comporterà bene, se accetterà una “legge internazionale” che sul piano giuridico non ha basi, ma politicamente favorisce i palestinesi, poi sarà lasciato stare in pace dentro la “linea verde”, per indifendibile che essa sia. Per le ragioni che verranno chiare nel seguito del discorso, si può chiamare quest’illusione “egocentrismo etico”.
Quest’illusione ha molti difetti. In primo luogo non è mai realistica, è per l’appunto un’illusione, come hanno mostrato tutte le persecuzioni in cui i “bravi” ebrei conformisti sono stati ammazzati non meno degli straccioni e dei rivoltosi; e di recente i ritiri israeliani dal Libano e da Gaza, che non hanno affatto smorzato, ma hanno al contrario aumentato l’aggressività contro Israele sul terreno e nel resto del mondo.
Il secondo difetto si può chiamare la “tentazione etica”. Chi è convinto che “comportandosi bene”, rispettando le leggi” ecc. gli ebrei possano evitare o almeno moderare le persecuzioni, crede facilmente anche che il primo segno di questo “buon comportamento” sia l’universalismo, il trascurare gli interessi anche vitali del proprio popolo per assumere per sé il punto di vista dell’assoluto (o del Divino, che a me sembra una forma di idolatria), decidendo in perfetta solitudine, senza sentirsi responsabili per gli altri quel che è giusto e quel che è sbagliato. Gli universalisti usciti dall’ebraismo hanno sempre lasciato una grande scia di guai, che si chiamassero Gesù di Nazareth o Karl Marx.
Gli ebrei antisrealiani e filopalestinesi, che non mancano certo oggi, non sono mossi di solito da un semplice “odio di sé”, ma dall’illusione di salvarsi da soli dai pericoli essendo “giusti”, aderendo cioè al punto di vista e alle categorie di giudizio dei propri nemici. Un’ulteriore conseguenza di questa sindrome è la pretesa di insegnare a tutti (i propri fratelli ma anche gli altri) la loro giustizia, di porsi come maestri di etica universale, al di là della politica e della religione. Al massimo, come ha fatto il giudice Goldstone l’altro ieri, il solipsista etico, se vede che l’attacco alla vita del proprio popolo non serve, si scusa facilmente: si è sbagliato, dice, non aveva tutte le informazioni, è stato ingannato – ma resta sempre un difensore della giustizia universale e pertanto superiore a tutti gli altri. A questo modo di fare si congiunge una definizione dell’ebraismo in termini di etica, non di popolo o di religione: l’ebraismo non sarebbe una cultura, un’eredità, una popolazione, la continuità storica di una fede e neppure un certo rapporto con il divino, ma “l’etica”. Che questo atteggiamento porti simpatia e comprensione, è tutto da dimostrare.
Il terzo difetto è quello capitale. Chi pensa di salvarsi comportandosi bene, naturalmente deve fare i conti con il fatto che non tutti nel popolo ebraico hanno la stessa idea del bene, gli stessi obiettivi e magari osano difendere i suoi diritti al di là dei limiti molto angusti di coloro che non appartengono al gruppo degli illuminati etici. Di conseguenza, il solipsista pensa e afferma che costoro non sono abbastanza etici, che non sono abbastanza buoni, che non si confanno alle leggi come dovrebbero, eccetera. Non sono persone che seguono un progetto politico diverso, o hanno altri ideali: sono peccatori, ingiusti, nemici dell’etica. Magari gli trova un nome spregiativo, o lo accetta dagli altri, per esempio li chiama “coloni”.
La divisione del popolo ebraico fra buoni e cattivi è il risultato pressoché inevitabile del solipsismo etico. Per i chassidim erano perduti gli ebrei che cercavano un po’ di libertà dalla Rivoluzione Francese; per i bravi borghesi assimilati che si consideravano tedeschi integrali “di religione mosaica”, i guastafeste impresentabili erano gli eredi di quelli stessi chassidim. I sionisti sono stati demonizzati dagli uni e dagli altri, e così i combattenti clandestini contro l’occupazione inglese e la violenza araba in Eretz Israel. Oggi per buona parte della sinistra ebraica, a essere colpevoli sono i “coloni”, che per loro certamente “rubano la terra ai palestinesi”, dunque sono ladri, ribelli e quant’altro. E invece siamo tutti coloni, siamo tutti da sempre legati a una terra in cui continuiamo a immigrare, come ho provato ad argomentare la settimana scorsa. E siamo tutti responsabili gli uni per gli altri (“kol Israel arevim ze-là-zè”)
Io non credo affatto che Sergio Della Pergola sia uguale a quegli illusi che vanno a Bilin a tirare pietre contro il “muro”, o cercano di espellere i proprietari ebrei dalla case di Sheik Jarrah, per il fatto che sotto il regime giordano erano state occupate da immigrati arabi – e poi si sentano giusti e moralmente superiori; non lo assimilo neppure a quegli scrittori e professori che hanno scoperto quanto sia comodo e redditizio fare la coscienza critica di Israele con i media internazionali, distribuendo condanne e invocando boicottaggi. So che il suo è un pensiero assai più lucido e razionale. E’ ovvio che ci sono delle considerazioni strategiche dei rapporti di forza che potranno costringere Israele a evacuare parte degli insediamenti ebraici in Giudea e Samaria – anche se il risultato di simili operazioni in Cisgiordania, nel Libano meridionale e a Gaza non è stato proprio vantaggioso come ci si aspettava. (Prima o poi riusciremo a leggere un’analisi davvero critica degli accordi di Oslo da cui potremo ragionare sui pregi e sui difetti dell’intera strategia della cessione di territori in cambio di una pace che non vuol proprio arrivare.)
Ma il rifiuto del prof. Della Pergola di identificarsi con i “coloni”, nel suo pezzo di giovedì scorso, è motivato proprio secondo gli stereotipi di cui ho parlato: in sostanza i “coloni” (tutti?) sarebbero disobbedienti alle leggi, avrebbero comportamenti disordinati di fronte alla polizia. Siamo sicuri che il problema sia questo? Non mi sembra che Israele sia un posto molto politicamente disciplinato, non credo che la propensione al reato di un abitante di Ariel sia maggiore di un cittadino di Tel Aviv o Petah Tiqva. Mi piacerebbe leggere delle statistiche.
Il punto è ovviamente politico e non moralistico o criminologico. I “coloni” rappresentano la spinta al ritorno all’”eredità” di Eretz Yisrael che è stata la missione del sionismo: alcuni sono più religiosi della media degli israeliani; ma non tutti. Essi comunque indicano con la loro presenza il precario e appassionato rapporto che tutto il popolo ebraico ha con la sua terra. Fa molto comodo illudersi che la ragione dell’odio arabo sia la loro “occupazione”, quella del ’67. In realtà “l’occupazione” che gli arabi voglio eliminare è quella del ’48, la creazione di Israele, e magari anche più indietro, fino all’Yishuv, alla Prima Guerra Mondiale, alla Seconda Aliah.
L’abitante di Tel Aviv o Haifa che pensa di stare dalla parte del giusto e di scampare il conflitto dicendo di non essere un “colono” si illude, con tutte le conseguenze che ho elencato. Si può dire certamente che non si condivide il progetto degli insediamenti oltre la linea verde, che è meglio cedere quei territori. Ma senza disprezzare chi invece in quel progetto crede, senza trasformarlo in una questione di polizia. Avendo la giusta solidarietà per i “coloni” che sono oggi non le uniche ma le “privilegiate” vittime del terrorismo. E soprattutto assumendosi l’onere della prova di un altro progetto strategico quello del ritiro nelle linee del ’49 con qualche scambio che difende Della Pergola. Un progetto che ha la sua razionalità, ma dipende pesantemente dall’idea di una volontà araba di trovare un compromesso con Israele e di una capacità del mondo occidentale di garantirlo. Entrambe premesse che oggi appaiono molto dubbie. Anche perché, che lo vogliamo o no, che lo sappiamo o no, agli occhi degli uomini di Hamas come di quelli di Fatah, dei fratelli musulmani che in Egitto hanno vinto e degli uomini di Al Queida in Libia che stanno perdendo, come di centinaia di milioni di arabi buoni e cattivi, noi effettivamente siamo tutti coloni. Anzi Jahud, ebrei – e già solo per questo esseri inferiori che non possono essere giusti ma solo arrendevoli.
Ugo Volli

Ancora: “tutti coloni”?

Sulla questione se noi si debba per forza essere o meno tutti “coloni”, Ugo Volli estende grandemente la polemica. Nel trasporto dell’argomento se la prende con gli illusi, con gli arrendevoli, e coi solipsisti. Nella sua visione strategica non esiste spazio alcuno per un compromesso con la parte avversaria. Per lui il sionismo si vive solamente in Giudea e Samaria, dimenticando forse che l’obiettivo originario del sionismo era la costituzione di uno stato ebraico in Palestina nell’ambito del diritto pubblico – dunque anche con il consenso degli altri e non solo del nostro. Ho già dato pienamente atto alla tesi del professor Volli che l’attacco della politica e dei media contro i “coloni” è un modo non intelligente per de-legittimare l’intero stato d’Israele e quel popolo ebraico di cui Israele configura la dimensione della sovranità statale. La stessa parola “coloni” è un ambiguo vocabolo usato per de-umanizzare. La tesi è che se si uccide un “colono” non si uccide una persona, e quindi la cosa può passare. Per questo Volli ha messo la parola tra virgolette, e io, condividendo, ho copiato le sue virgolette. Ognuno naturalmente ha il diritto a un’opinione politica, e quella di Volli è ben rappresentata alla Knesset, anche se da una minoranza dei deputati. Certo, a chi proprio vuole fare politica attiva suggerirei questo: venga a vivere con noi in Israele, prenda la cittadinanza, voti alle prossime elezioni, vada a stare in un insediamento di sua libera scelta – magari a Itamar. E cominci a metabolizzare un poco di quotidiana sociologia spicciola di Israele che vale molto di più di tanta alta filosofia e strategia politica. Se così facesse, Volli apprenderebbe che fra i “coloni” un ebreo vicino al movimento Reform non sarebbe accolto con lanci di riso e fiori. Poi scoprirebbe che lo stato d’Israele – lasciando da parte i modi e i tempi della fondazione dell’insediamento Itamar – considera una parte degli insediamenti “illegali” – dunque in flagrante violazione della legge israeliana. Ma quando le forze dell’ordine vanno a distruggere quelle costruzioni abusive, vengono accolte da grida di “nazisti”, ricoperte di sputi e sacchetti di spazzatura. E appena i soldati di Zahal lasciano il luogo, le costruzioni abusive vengono immediatamente ricostruite. Quando poi gli stessi soldati ammoniscono gli abitanti locali che la rete di recinzione è stata forzata o addirittura non esiste, la risposta è: a noi non serve il filo spinato, la nostra protezione viene da ben altra Fonte. Fra l’altro chi paga le costruzioni legalmente costituite e anche una parte di quelle abusive? Il contribuente israeliano, direttamente attraverso il bilancio pubblico, e indirettamente mediante finanziamenti ad associazioni e movimenti; e in parte mecenati stranieri col tacito consenso delle autorità locali e statali. L’alloggio in Giuda e Samaria viene dunque ampiamente sussidiato da denaro pubblico e privato ed è quindi molto meno costoso che a Tel Aviv o a Petah Tiqva. In proposito, abbiamo una serie di sondaggi di opinione su cosa farebbero i 300.000 abitanti ebrei della Giudea e della Samaria se un giorno venisse l’ordine governativo di sgomberare il territorio. I risultati sono interessanti. La maggioranza assoluta se ne andrebbero con dignità, salvo esigere un indennizzo per la proprietà perduta. Un’altra parte significativa opporrebbe resistenza accanita, anche fisica, ma alla fine si lascerebbe portare via, come abbiamo visto nelle epiche scene dello sgombero del Gush Katif nella zona di Gaza. E uno 0,5 per cento (ossia 1.500 delle 300.000 persone in causa) non esiterebbero a usare le armi contro l’esercito israeliano. Dica ora Ugo Volli con quale di queste tre posizioni si identifica maggiormente, e se noi si debba essere, senza spazio per eccezione o attenuante alcuna, purtuttavia “TUTTI COLONI”.
Sergio Della Pergola

Civiltà

C’è chi si stupisce che gli ebrei nel ventennio fascista siano stati fascisti come gli altri italiani. Ricordo che Tullia Zevi, interrogata tanti anni fa su questo problema, rispose: “E perché non avrebbero dovuto farlo? Erano uguali agli altri italiani”. Siamo proprio uguali, respiriamo la stessa aria, guardiamo gli stessi programmi televisivi, abbiamo comportamenti simili. Le differenze, che certo vi sono, non toccano le percezioni sociali, le emozioni collettive, e ahimè nemmeno più la sfera culturale: siamo sempre più ignoranti, come il resto degli italiani. E allora, non stupiamoci che l’abitudine al rispetto delle idee altrui vada scomparendo, fra noi come nella società tutta, e che si consideri normale insultare sulle pareti di una nostra scuola chi ha espresso civilmente un’opinione diversa dalle altre. Che comportamenti violenti e insulti caratterizzino sempre più il nostro agire sociale. Che il rispetto verso il potere e la sua arroganza, verso il denaro e il guadagno facile si affermino come valori anche del nostro mondo, e che il comportamento civile vada, fra gli ebrei come fra i non ebrei, divenendo una modalità sempre più rara.
Anna Foa

Gattegna: “Abbassiamo i toni e innalziamo i contenuti.
La libertà d’opinione valore ebraico irrinunciabile”

L’emotività è forte, comprensibilmente forte, perché viviamo in un’epoca nella quale avvengono ancora fatti che, come la strage di Itamar, generano orrore per la loro natura e per l’efferatezza di cui rimangono vittime adulti e bambini. Ma è necessario uscire dall’equivoco. Non è sulla condanna di quel tragico evento che è emerso il dissenso e commetterebbe un grave errore e si assumerebbe una pesante responsabilità chi volesse creare confusione tra la tragedia che ha colpito la famiglia Fogel e il dibattito, anche aspro, che è attualmente in corso in Israele, nelle comunità ebraiche e in vari consessi internazionali sulla sicurezza e sui confini futuri dello Stato di Israele. Su questo argomento il confronto è aperto e non saranno singoli episodi, per quanto gravi, che potranno impedirne lo svolgimento nella maniera più aperta e democratica.
Sarebbe inaccettabile se non si potesse discutere in piena libertà di uno dei problemi più importanti per la sicurezza di Israele. Questo infatti è l’argomento principale. Non se ci si deve impegnare per la sicurezza di Israele, ma quale sia il modo migliore per garantirla.
Sfido chiunque a dire di poter esprimere certezze e verità assolute mentre tra gli stessi israeliani esiste una grande varietà di opinioni.
Ma prima di parlare dei contenuti richiamo l’attenzione su quanto importante sia imporre a noi stessi il rispetto di alcune basilari regole di metodo, la cui inosservanza ci espone al rischio di far regredire qualsiasi dibattito a rissa verbale, turpiloquio, o peggio.
L’uso di frasi provocatorie, di termini ingiuriosi o diffamatori, di minacce non è segno di maturità e di forza, al contrario è il sintomo che esistono ancora gravi problemi di corretta comunicazione e che, anche su temi di vitale importanza, a volte non siamo in grado di contribuire alla ricerca delle soluzioni migliori che possono scaturire solo da civili e vivaci confronti di idee.
Sento il bisogno di esprimere la mia solidarietà al preside della scuola ebraica di Roma rav Benedetto Carucci, responsabile di un istituto che deve restare il punto di aggregazione, di cultura e di confronto nella Roma ebraica e di una scuola i cui muri sono stati offesi e imbrattati da scritte inaccettabili e diseducative.
Sul rispetto delle regole democratiche e sulla difesa del diritto di tutti ad esprimere civilmente le proprie idee l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane si è sempre impegnata a fondo e continuerà a farlo non in maniera teorica o astratta, ma con interventi forti e puntuali nella millenaria tradizione di libertà d’opinione che ci è stata tramandata come valore irrinunciabile.
Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane

“Le scritte non sono un semplice atto di maleducazione”

Vorrei provare a rispondere alla professoressa Anna Foa, storica, della quale leggo sempre con molto interesse e piacere i suoi interventi su “l’Unione Informa”.
Ritengo che quanto è avvenuto sulle mura della nostra scuola, non lo si possa ridurre ad un semplice atto di maleducazione e/o di ignoranza di chi ha fatto la scritta in questione.
La persona che ha espresso “civilmente” le affermazioni che sono state il motivo di tale scritta, è a mio avviso, un provocatore nato.
Accetto che in democrazia e tra persone civili ognuno sia libero di esprimere il proprio parere o dissentire dalla massa ma………
Quando si afferma che dei miei fratelli ( tale è per me ogni ebreo nel mondo) uccisi in modo atroce, quando si afferma che dei miei figli ( tali sono per me ogni bimbo nato nell’ambito del Popolo d’Israele) non sono degni di essere chiamati “miei fratelli” e che la loro atroce morte è stata cercata e quindi motivata dalla Loro intransigenza, be……..gentile signora Foa, io smetto di essere educato, ragionevole, civile, ecc..
Io, che ringrazio K’B’ di non avermelo fatto incontrare nei 4/5 giorni dopo la sua vergognosa lettera, da padre e da nonno, chi mi conosce sa che non sto farneticando, gli avrei fatto rimpiangere il giorno che non si è battezzato.
Quel tizio, del quale evito di scrivere anche il solo nome, si ritenga fortunato di aver subito semplicemente una scritta, che solo in minima parte, descrive il giudizio che la stragrande maggioranza della nostra Comunità ha di lui.
Mino Di Porto

Solidarietà a Moni Ovadia e Giorgio Gomel

Sul muro esterno della scuola ebraica di Roma ignoti (ma non troppo) energumeni hanno incollato un attacco volgare e intimidatorio contro due autorevoli esponenti dell’ebraismo italiano: “Ogni ebreo è nostro fratello, Moni Ovadia e Giorgio Gomel no”. Se l’avessero fatto persone estranee alla Comunità, si griderebbe compatti all’antisemitismo. Invece l’attacco minatorio è stato perpetrato per mano di altri ebrei, in dissenso con le posizioni di sinistra espresse da Moni Ovadia e Giorgio Gomel. Tanto basta perchè l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane taccia ipocritamente, manifestando viltà d’animo e falsa equidistanza. Me ne rammarico, e spero ci sia ancora tempo per rimediare. L’ebraismo italiano è sempre stato plurale, questa è la sua vera ricchezza. Chiunque non sia obnubilato dal fanatismo riconosce l’apporto culturale d’eccellenza recato dall’opera di Moni Ovadia a tutti noi. Dovrebbero essergliene grati anche coloro che non condividono le sue idee sulla politica israeliana o italiana. Una Comunità che tollera un simile trattamento delle sue minoranze interne, senza denunciarlo, non solo contravviene ai precetti fondamentali dell’ebraismo, ma manifesta un degrado di costumi preoccupante. Da parte mia, tutta la solidarietà e la condivisione a Moni Ovadia e Giorgio Gomel.
Gad Lerner

“Caro Gad, sono tre le cose che sbagli”

Caro Gad, leggo dalle news di sinistra-per-israele che hai scritto un pezzo sulla vicenda delle scritte anti-Gomel e poi, anche, anti-Ovadia.
Vorrei dirti che concordo con te solo all’80 per cento, perché ci sono tre cose che sbagli. La prima è che attacchi, indebitamente, l’UCEI: che c’azzecca ?
Se in una comunità avviene un fatto riprovevole è compito della dirigenza di quella comunità intervenire … (fra l’altro, seppure in ritardo, la dirigenza romana è intervenuta cancellando ogni scritta) perché attaccare Gattegna e non Pacifici ?
La cosa non mi quadra. La trovo sbagliata, gratuita e forse (sarò malizioso) piuttosto maliziosa.
La seconda cosa è che quella Unione che simpaticamente accusi di tacere “ipocritamente, manifestando viltà d’animo e falsa equidistanza” ha invece deciso di dire qualcosa …
Ma la tua uscita, fuori mira, non facilita le cose…
La terza è che se i “coatti de noantri” hanno accomunato Gomel e Ovadia, la stessa cosa non dovresti fare tu: Giorgio è una persona ragionevole rea di aver scritto (con i piedi) un articolo su un’iniziativa improvvida del nostro presidente romano …
Moni invece, quasi ogni giorno, distilla affermazioni assurde, alcune demenziali, altre propriamente false tipo che Israele sarebbe una strana democrazia perché votano solo gli
ebrei quindi non sono stati attaccati per le loro “posizioni di sinistra” perché già altri, da sinistra, ben un mese fa, avevano criticato il viaggio
ad Itamar.
Giorgio è stato attaccato per un vero pregiudizio personale nei suoi confronti ma comunque rimane sempre in linea con la sinistra israeliana. Moni è stato attaccato perché, con le sue interviste, il suo continuo paragone con l’apartheid, e il suo sostegno alla famosa flotilla, ha superato quel limite per cui, anche per la maggior parte degli ebrei di
sinistra, risulta “fuori dei canoni della sinistra”, ebraica e non.
Rimane chiaro per me, e per qualsiasi persona ragionevole, che quelle scritte sono inaccettabili, e non perché non si possa criticare Giorgio, Moni, o chicchessia ma per il linguaggio e la modalità di questa critica: linguaggio becero, intimidatorio, modalità degna della curva di qualche stadio, volta a mettere qualcuno alla berlina. Un fatto inaccettabile, già condannato nei fatti dalla dirigenza della comunità ebraica di Roma.
Siccome hai dei buoni amici a Roma, please, prima di scrivere, informati così avresti potuto denunciare gli autori delle malefatte e non i custodi delle nostre, piccole, istituzioni democratiche.
Victor Magiar

Perché opporsi agli atti di arroganza

Da ciò che è accaduto nel Ghetto di Roma mi pare che possiamo trarre alcune riflessioni: si può essere in disaccordo, ovviamente, con la lettera di Giorgio Gomel pubblicata su «Shalom», purché il dissenso si manifesti in modo civile. Non è tollerabile che la discussione, di per sé utile, si sposti sulle mura della scuola ebraica, assuma la volgarità come stile, sia tecnicamente illegale.
È quantomeno singolare che ci siano voluti vari giorni per cancellare scritte che solitamente vengono nascoste in un paio d’ore. Queste scritte sono rivelatrici di un senso comune. Una paura («tutti sono contro Israele», «tutti ci vogliono male») che si traduce in atti di arroganza.
È un bene o un male se i dissidi interni alla Comunità divengono di dominio pubblico? Io ritengo che spiegare che gli ebrei non sono un monolite possa essere utile e positivo. Discutiamone. Ho però la strana impressione che gli autori anonimi siano gli stessi che sovente criticano le interviste degli altri. Credono forse che le scritte siano meno visibili dei giornali? Quanta differenza con i ragazzi che hanno cancellato le scritte (il movimento Haviu et Ha-Yom)! Da questi ultimi nessun insulto, foto di gruppo e rivendicazione pubblica del gesto. Un atto politicamente fondativo: si compie un’impresa comune, ci si fa conoscere, si cementa la comunione di animi e obiettivi. La risposta, sempre anonima e vigliacca: «Fatte li cazzi tua». La retorica degli «ebrei buoni» e degli «ebrei cattivi» è veramente oscena, e ricalca quella, altrettanto oscena, contro il «buonismo» e il politically correct. Ammesso che questa questione abbia un senso, non c’è nulla di male a essere buoni. O a esserlo almeno un po’. O a provarci.
In tutta la discussione si è scelto di calpestare una parola nobile ed evocativa: «Fratelli». Sarebbe interessante promuovere un dibattito su questo tema, chiedendo lumi ai nostri Maestri. Sarebbe bello se partecipassero anche i protagonisti della polemica. Sempre che tutti abbiano un nome e qualcosa da dire.
Tobia Zevi

Nirenstein: polemiche incredibili
su solidarietà Pacifici a Itamar

“Trovo incredibile che si sia sollevata un’ondata di disapprovazione nei confronti di un gesto così generoso e pulito come quello del presidente della comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici, quando ha deciso di organizzare una delegazione per sostenere, nel suo terribie lutto, il villaggio di Itamar, in cui si è svolto nel marzo scorso il brutale eccidio della famiglia Fogel, con cinque membri della famiglia sgozzati, tra cui un neonato di tre mesi. Un massacro che lascia tre bambini orfani per i quali gli ebrei di Roma hanno voluto mobilitarsi, con un gesto di grande umanità.
In riferimento poi alle polemiche su quali siano gli ebrei da considerarsi “fratelli”, mi sembra persino pleonastico affermare che tutti gli ebrei sono miei fratelli, anche quelli che abitano nei territori occupati.
E’ proprio vero che l’aggressività politica talora prende il sopravvento soprattutto quando si pronuncia la parola proibita “insediamenti”. Una parola che, invece, come dimostrano tra l’altro gli immensi applausi del Congresso Americano a Benjamin Netanyahu oggi, è oggetto di un legittimo dibattito sui confini che si dovranno stabilire, speriamo presto, tra lo Stato degli ebrei e quello dei palestinesi”.
Fiamma Nirenstein

Pacifici: “Una lettura distorta delle proteste romane”

L’intervento del nostro presidente Gattegna rischia, per chi non conosce da vicino la cronologia dei fatti, di avere una distorta lettura delle proteste romane. Nella quale ci sono due “vittime”, Giorgio Gomel e Moni Ovadia da una parte e dall’altra quelli della cosiddetta “Piazza” quali “incivili e prevaricatori”. Gattegna lancia su questo Portale una dichiarazione che lascia intendere agli ebrei italiani e a coloro che leggono il nostro Portale dell’ebraismo italiano che nella Comunità che ho l’orgoglio di guidare non ci sia spazio al dissenso e alla pluralità delle opinioni. Cosa non vera. Anche perché Gattegna, pur non condividendo l’espressioni forti e lo strappo di Gomel, si dimentica di chiarirlo nel suo comunicato. Così facendo coloro che non conoscono i fatti avranno la sensazione e forse la certezza che Gattegna si sia schierato con Gomel e Ovadia contro la Comunità Ebraica di Roma. Ma i fatti fortunatamente sono altri.
Gomel, come spesso avviene, trova spazio senza alcuna “censura” nel mensile “Shalom” e nella foga di dissentire con il sottoscritto per avere guidato una delegazione di solidarietà e vicinanza agli abitanti degli insediamenti di Itamar, vittime di una strage aberrante (vennero sgozzati nel sonno una famiglia di cinque persone di cui tre bambini a cominciare da quello di tre mesi), non si limita ad esprimere un legittimo dissenso sull’opportunità di vivere nella Giudea e Samaria, ma si avventura nello scrivere che gli abitanti di Itamar “non sono nostri fratelli”. Ma non si ferma qua, condanna il diritto/dovere della polizia israeliana di ricercare a Nablus gli assassini violando sostanzialmente la loro autonomia e dignità (peccato per Gomel che grazie a quella indagine due giorni dopo gli assassini sono stati catturati con il confronto del dna, due fratelli di 17 e 19 anni rei confessi).
Il direttore Khan si ritrova a pubblicazione avvenuta con una valanga di email di protesta ed il sottoscritto a Yom Hazmaut viene insultato dalla “Piazza” per avere “permesso” la pubblicazione di quello strappo (il presidente della Cer non controlla Shalom). Scatta l’indignazione che difficilmente riesco a placare. Il 18 maggio, mentre io e il Segretario della Cer ci troviamo in Israele, compare una scritta volgare con vernice nera sui muri della scuola ebraica. Il 19 maggio notte dei ragazzi della nostra Comunità con gesto di civiltà la vanno prima a coprire con dei cartoni bianchi e il sottoscritto la fa poi definitivamente cancellare il giorno dopo. Tutto sembrava risolto, finché la domenica mattina del 22 maggio in un altro striscione, a questo punto organizzato e sempre sui muri della scuola scrivono “tutti gli ebrei sono nostri fratelli: Gomel e Ovadia No”. Una “pasquinata” romana che non mostra alcun insulto né volgarità se non l’ironizzare sulle maldestre parole di Gomel su Shalom ma che ancora una volta usa i muri della scuola (cosa sbagliata) per sfogare la propria rabbia e dissenso. Striscione che lunedì mattina del 23 maggio alle ore 8,10 personalmente rimuovo e alle 9 faccio cancellare tutte le nuove scritte.
La protesta insomma non è sul legittimo, anche se non condivisibile politicamente da parte mia, diritto di dissentire sugli Insediamenti (anche se Gomel e non solo lui continua in forma malvagia a chiamarle Colonie) ma sul fatto che abbia scritto che “Non sono nostri fratelli”. Gomel, persona intelligente e non sprovveduta, sapeva di colpire nel segno e sapeva, ad arte, di creare una profonda lacerazione, difficilmente risanabile. E’ riuscito con abilità e godendo delle simpatie degli pseudo intellettuali ebrei italiani, a trasformare il suo strappo e patto di fratellanza ebraica in una “aggressione” alla sua libertà di opinione. Mi dispiace, ma pur condannando l’uso dei muri della scuola, cosi come di ogni spazio della nostra città per esprimere dissenso, rivendico il diritto di dissentire da Gomel come da Moni Ovadia, reo spesso di illustrare all’opinione pubblica italiana una realtà distorta di cosa sia Israele, sconfinando in alcuni casi al suo diritto di esistere.
Mentre noi litighiamo, perdiamo di vista con gravi rischi per la nostra stessa esistenza, di comprendere quale sia il momento storico che attraversiamo in Europa, da ebrei e da europei e del fatto che Israele è accerchiata da regimi fanatici, che nonostante le “primavere arabe”, dal Libano di Hezbollah, alla Siria non più di Assad ma di Ahmadinejad e all’Egitto del “nuovo corso, dove la nuova dirigenza ed i loro Imam proclamano di voler “marciare su Gerusalemme e Tel Aviv”. La domenica della Naqbà lo hanno fatto da tre confini provocando la morte di 17 persone. Siamo in una guerra nella quale non ci saranno vincitori e perdenti ma dove potremmo rischiare di essere estinti come popolo. Nonostante questo dobbiamo difenderci dalle posizione buoniste, sempre dentro le nostre Comunità, che con l’entusiasmo di difendere il diritto agli islamici di aprire propri luoghi di culto, ci si dimentica molto spesso di ricordare che abbiamo la necessità di far chiudere quelle Moschee che sono ad oggi, non solo e nella stragrande maggioranza, controllate da organizzazioni affiliate ai “Fratelli Musulmani” e ad Hamas, ma che sono spesso covo del terrorismo Fondamentalista in cui Imam predicano l’odio contro i “crociati, gli ebrei ed i sionisti”. Ieri, mentre il nostro Rabbino capo era a parlare alla grande Moschea di Roma, una genuina protesta di musulmani democratici chiedevano a gran voce ai dirigenti di rendere trasparente la gestione di quel luogo, oggi nelle mani di amministratori nominati dalle ambasciate di Paesi Arabi e Musulmani, le cui nazioni in alcuni casi fra loro negano il diritto della libertà religiosa e l’apertura di Chiese.
Gomel, Ovadia, Lerner, con le loro espressioni mettono in serio imbarazzo non solo gli ebrei “cattivi” come il sottoscritto ma anche quelli “buoni” che da sempre hanno assunto posizione a sinistra molto moderate. Aggiungo infine che l’aberrante comparazione di una radice comune nei sentimenti di antisemitismo ed islamofobia, sostenuta a gran voce da nostri giovani emergenti rischia di confondere l’opinione pubblica. Costruendo difatti una pericolosissima associazione di idee.
Ma torniamo a noi. Non sono i “coloni” di Itamar ad esser un ostacolo per la pace in Medio Oriente ma coloro che sia dentro il partito di Abu Mazen che dentro Hamas negano ad Israele il diritto di esistere. Sono personalmente orgoglioso della standing ovation che ha raccolto il primo ministro Biby Nethanyhau al Congresso americano. Un discorso, il suo, molto coraggioso dove ha sottolineato che la real politik non potrà consentire di ritornare ai confini del 67 (cosa detta anche da Obama), ma che certamente si dovranno fare scelte dolorose e molti insediamenti potrebbero rimanere sotto il controllo del futuro Stato di Palestina. Abu Mazen non ha fatto attendere la sua risposta: nessun israeliano potrà vivere nel nostro futuro Stato!
A questo punto rivolgo a voi tutti una domanda: perché un arabo può vivere con pieni diritti a Yafo, a Haifa, a Yerushalaim, Nazareth, ecc,ecc e un israeliano non può vivere in Palestina? Le risposte ce le daremo serenamente in un convegno al quale sarà invitato Gomel, e dove Gattegna, l’ambasciatore d’Israele e un abitante di Itamar hanno dato loro disponibilità a confrontarsi. L’appuntamento è a giugno nel cortile delle Scuole ebraiche. Questo è l’unico metodo di confronto civile e speriamo che Gomel troverà l’umiltà di chieder scusa se, involontariamente come voglio pensare, ha offeso la nostra sensibilità.
Riccardo Pacifici, presidente Comunità ebraica di Roma

Striscione appeso al muro della scuola ebraica
Scritte al Ghetto contro Ovadia e Gomel

ROMA – Scritte conto Moni Ovaia nel Ghetto di Roma. Ebrei contro ebrei. Moni Ovaia e Giorgio Gomel attaccati per le loro posizioni su Israele. La scritta dice: «Ogni ebreo è nostro fratello, Moni Ovadia e Giorgio Gomel no». La scritta è a caratteri cubitali, sul muro della scuola ebraica. Nessun intervento da parte dei vertici della Comunità. Unico a protestare, col suo blog, è stato Gad Lermer. Poi più tardi è venuta una condanna del presidente dell’Ucei.
«SILENZIO IPOCRITA» – «Sul muro esterno della scuola ebraica di Roma ignoti (ma non troppo) energumeni – ha scritto Lerner nel suo blog – hanno incollato un attacco volgare e intimidatorio contro due autorevoli esponenti dell’ebraismo italiano. Se l’avessero fatto persone estranee alla Comunità, si griderebbe compatti all’antisemitismo. Invece l’attacco minatorio è stato perpetrato per mano di altri ebrei, in dissenso con le posizioni di sinistra espresse da Moni Ovadia e Giorgio Gomel. Tanto basta perché l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane taccia ipocritamente, manifestando viltà d’animo e falsa equidistanza. Me ne rammarico, e spero ci sia ancora tempo per rimediare. L’ebraismo italiano è sempre stato plurale, questa è la sua vera ricchezza. Chiunque non sia obnubilato dal fanatismo riconosce l’apporto culturale d’eccellenza recato dall’opera di Moni Ovadia a tutti noi. Dovrebbero essergliene grati anche coloro che non condividono le sue idee sulla politica israeliana o italiana. Una Comunità che tollera un simile trattamento delle sue minoranze interne, senza denunciarlo, non solo contravviene ai precetti fondamentali dell’ebraismo, ma manifesta un degrado di costumi preoccupante. Da parte mia, tutta la solidarietà e la condivisione a Moni Ovadia e Giorgio Gomel».
UCEI: APERTI AL CONFRONTO – Poi sempre sul blog di Lerner ecco comparire poco dopo la condanna dell’avvocato Renzo Gattegna presidente Ucei. Scrive Lerner: «Sono lieto di riportare questa dichiarazione di Renzo Gattegna sulle ingiurie di cui sono stati oggetto Moni Ovadia e Giorgio Gomel. Sebbene tardiva, condanna l’attacco subito da due autorevoli esponenti dell’ebraismo italiano (che avrebbe pure potuto fare lo sforzo di nominare)». Ed ecco la dichiarazione di Gattegna: «L’emotività è forte, comprensibilmente forte, perché viviamo in un’epoca nella quale avvengono ancora fatti che, come la strage di Itamar, generano orrore per la loro natura e per l’efferatezza di cui rimangono vittime adulti e bambini – ha dichiarato Gattegna -. Ma è necessario uscire dall’equivoco. Non è sulla condanna di quel tragico evento che è emerso il dissenso e commetterebbe un grave errore e si assumerebbe una pesante responsabilità chi volesse creare confusione tra la tragedia che ha colpito la famiglia Fogel e il dibattito, anche aspro, che è attualmente in corso in Israele, nelle comunità ebraiche e in vari consessi internazionali sulla sicurezza e sui confini futuri dello Stato di Israele. Su questo argomento il confronto è aperto e non saranno singoli episodi, per quanto gravi, che potranno impedirne lo svolgimento nella maniera più aperta e democratica. Sarebbe inaccettabile se non si potesse discutere in piena libertà di uno dei problemi più importanti per la sicurezza di Israele. Questo infatti è l’argomento principale. Non se ci si deve impegnare per la sicurezza di Israele, ma quale sia il modo migliore per garantirla. Sfido chiunque a dire di poter esprimere certezze e verità assolute mentre tra gli stessi israeliani esiste una grande varietà di opinioni».
LA CONDANNA – Ma prima di parlare dei contenuti richiamo l’attenzione su quanto importante sia imporre a noi stessi il rispetto di alcune basilari regole di metodo, la cui inosservanza ci espone al rischio di far regredire qualsiasi dibattito a rissa verbale, turpiloquio, o peggio. L’uso di frasi provocatorie, di termini ingiuriosi o diffamatori, di minacce non è segno di maturità e di forza, al contrario è il sintomo che esistono ancora gravi problemi di corretta comunicazione e che, anche su temi di vitale importanza, a volte non siamo in grado di contribuire alla ricerca delle soluzioni migliori, che possono scaturire solo da civili e vivaci confronti di idee. Sento il bisogno di esprimere la mia solidarietà al preside della scuola ebraica di Roma, rav Benedetto Carucci Viterbi, responsabile di ua istituto che deve restare il punto di aggregazione, di cultura e di confronto nella Roma ebraica e di una scuola i cui muri sono stati offesi e imbrattati da scritte inaccettabili e diseducative».
Paolo Brogi, Corriere della Sera – Cronaca di Roma versione online, 25 maggio 2011

Le scritte nel ghetto contro Ovadia
polemica tra gli ebrei

Lunedì è andato lui personalmente a staccare quello striscione dal muro della scuola ebraica, alle 8,10 prima che suonasse la campanella: i bambini non avrebbero capito chi non era fratello di chi, quale guerra si stesse combattendo. «Ogni ebreo è nostro fratello, Moni Ovadia e Giorgio Gomel no», aveva scritto un anonimo. Così Riccardo Pacifici, presidente degli ebrei romani, ha cercato di smorzare i toni di una polemica che si sviluppa proprio nel giorno in cui Netanyahu parla al Congresso Usa di compromessi sui territori.
Andiamo con ordine. Tutto comincia con la pubblicazione sull’ultimo numero del mensile Shalom di una lettera di Giorgio Gomel, economista e saggista, funzionario della Banca d’Italia e co-fondatore del gruppo Martin Buber ebrei per la pace, in cui critica l’iniziativa del presidente Pacifici che un mese fa è andato in Israele a portare solidarietà ai coloni ebrei di Itamar, dove 1′ 11 marzo scorso è stata massacrata la famiglia Fogel, padre, madre e tre bambini, con altri tre rimasti orfani. Frase incriminata, quella in cui Gomel sostiene di non considerare fratelli gli ebrei di Itamar per aver occupato territori palestinesi. Questa affermazione dell’economista è stata accostata alle opinioni espresse da Moni Ovadia e i due sono stati il bersaglio dello striscione al ghetto.
In loro difesa ieri è intervenuto Gad Lerner che nel suo blog ha parlato di «attacco volgare e intimidatorio contro due autorevoli esponenti dell’ebraismo italiano» e, dopo aver invocato l’intervento dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane (Ucei), ha aggiunto: «Se l’avessero fatto persone estranee alla Comunità, si griderebbe compatti all’antisemitismo. Invece l’attacco minatorio è stato perpetrato per mano di altri ebrei, in dissenso con le posizioni di sinistra espresse da Moni Ovadia e Giorgio Gomel».
Chiamato in causa, il presidente dell’Ucei Renzo Gattegna ha invitato al dialogo: «Non è sulla condanna di quel tragico evento che è emerso il dissenso. Sarebbe inaccettabile se non si potesse discutere in piena libertà, ma va condannato l’uso di frasi provocatorie e termini ingiuriosi». Troppo debole la risposta secondo Pacifici: «Nessuno contesta al destinatario degli insulti il suo legittimo diritto di esprimere opinioni sull’opportunità per gli ebrei di vivere ad Itamar, quanto piuttosto il fatto che si sia espresso maldestramente dicendo quelli non sono nostri fratelli». Pacifici ha detto di essere amareggiato «perché le dichiarazioni di Gomel stanno riportando la comunità alle spaccature degli anni ’80 tra ebrei buoni e ebrei cattivi» e ha annunciato per il 6 giugno – anniversario della Guerra dei sei giorni – un convegno per discuterà la vicenda degli insediamenti. «Inviteremo l’ambasciatore di Israele Meir, il presidente Gattegna e naturalmente lo stesso Gomel. Spero che articoli il suo pensiero, spero che chieda scusa per aver urtato la sensibilità di tutti gli ebrei romani e italiani».
Francesca Nunberg, il Messaggero, 25 maggio 2011

“Indignazione a senso unico”

Non abbiamo ancora capito se il presidente Gattegna, Tobia Zevi e Havi’u et Hayom la pensino o no come Giorgio Gomel. Chi invoca il sacrosanto diritto a un dibattito sano tra le diverse componenti dell’ebraismo italiano, dovrebbe avere almeno l’onesta di non spostare il tema di cui si parla. Per questo forse si è parlato della libertà d’opinione, ma non delle gravissime parole di Giorgio Gomel, stimata persona negli ambienti della sinistra ebraica, che sosteneva che un padre e una madre e i loro figli di undici, quattro e tre mesi, sgozzati vivi una sera di Shabbat mentre dormivano non sono nostri fratelli. Questo per la loro posizione politica, per le loro idee, quasi a dire, se la sono cercata, ora non possono lamentarsi. Chi difende Gomel da una scritta ingiuriosa, ma sempre da condannare, non scrive una sola riga per condannare con la stessa fermezza chi come il padrino di Jcall Italia in nome delle idee pare ammettere anche un episodio di questo genere. Così abbiamo visto l’indignazione a senso unico dei ragazzi del movimento Haviu et Haiom, di Tobia Zevi e del Presidente Gattegna. I motivi per cui questo è successo non li so, però, ciò che appare chiaro nella discussione che si sono volutamente astenuti dal proferire verbo. Ho la fortuna di conoscere tutti loro, dai ragazzi a Tobia fino a Gattegna e ne conosco il loro impegno per l’ebraismo e l’attaccamento ad Israele, ma questa volta hanno preso una cantonata. Anche bella grossa. Se come dice Zevi abbiamo bisogno di tornare buoni, credo che prima di questo si debba tornare a essere sinceri, poi possiamo parlare e discutere di tutto. Solamente così potremo sederci a un tavolo e dibattere; le persone che sosterranno le diverse tesi non mancheranno, Zevi  non si preoccupi. Chi attacca Gomel lo fa perché sostiene che i coloni d’Itamar siano nostri fratelli senza se e senza ma, noi non facciamo sconti, se qualcuno ha intenzioni diverse, si ricordi almeno il vecchio detto: “Kol Israel Achim, Tutti gli ebrei sono fratelli.”
Daniel Funaro

Visto dall’altra metà

Mi complimento per l’intervento del Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Il suo, fondato sui principi è in linea, a mio avviso, con il ruolo di massima autorità dell’ebraismo italiano. Ringrazio il Presidente della Comunità Ebraica di Roma per aver fornito ulteriori elementi della vicenda.
Ciò che mi preme di evidenziare, più che l’ovvio giudizio negativo sulle scritte, così come la non condivisione di interventi pregiudizialmente negativi su Israele, è che io, che provengo da quell’altra metà e più dell’ebraismo italiano e che non vive a Roma, ho spesso difficoltà a capire la genesi di certe vicende e talvolta l’eccessiva sovraesposizione delle stesse. O no?
Riflettere su questi temi mi sembra importante.
Riccardo Hofmann, consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane

“Nemici fra noi”

Mi associo a quanto ha scritto Sergio Della Pergola sulla recente visita del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Dopo 44 anni dalla fine della Guerra dei Sei Giorni, Giorgio Napolitano non è l’unico amico di Israele a sostenere l’urgente necessità della creazione di uno Stato palestinese accanto allo Stato d’Israele. Aggiungo che gli attuali “nemici” d’Israele non comprendono solo quelli che, in vari angoli della Terra, non accettano l’esistenza del nostro Stato. Il gruppo di questi nemici comprende anche molti ebrei italiani, in Italia e anche in Israele, incapaci di liberarsi da superate ideologie colonialistiche che contrastano – fra l’altro – con gli interessi del nostro stesso Stato. Alla luce di quanto accade attualmente nei Paesi arabi (confinanti e non con Israele), oltre a Netanyahu e a Lieberman anche non pochi israeliani ed ebrei della Diaspora, fra cui molti italiani, dovrebbero finalmente accendere una lampadina rossa per cominciare a riflettere seriamente.
Sandro Natan Di Castro

Havi’u et Hayom: “Oltre il muro”

Pochi giorni fa, sui muri della scuola ebraica, è apparsa una scritta: un anonimo autore insultava un membro della nostra comunità. Un’opinione dura e forse poco condivisa, espressa su una lettera pubblicata da Shalom, la causa che probabilmente ha spinto a compiere tale gesto. Due giorni di attesa, e l’insulto continuava ad imbrattare le mura di un edificio che per definizione dovrebbe essere il luogo della cultura, del confronto, del rispetto reciproco. Assistere a tutto questo e rimanere da parte non ci è stato possibile: in questo episodio abbiamo visto una minaccia alla libertà di espressione e di pensiero, proprio all’interno della realtà che è a noi più vicina: la comunità ebraica. La difesa di un valore, dunque, e non di un’opinione è stata la spinta a mobilitarci.
L’idea è stata quella di coprire simbolicamente quella che per noi era un’espressione di intolleranza, nell’attesa che venisse rimossa definitivamente; così, muniti di fogli bianchi e scotch, abbiamo creduto, forse ingenuamente, di impegnarci per salvaguardare un interesse generale. La reazione a tutto questo, però, è stata totalmente inaspettata. Il giorno dopo, un’altra scritta è apparsa accanto alla precedente, e stavolta l’oggetto dell’insulto eravamo noi. Noi, Havi’u et Hayom, un gruppo di giovani ebrei nato dall’esigenza comune di proporre uno spazio di incontro e di crescita, autonomi rispetto a qualsiasi altro gruppo o movimento già esistente. Troviamo che la modalità con cui siamo stati criticati non sia soltanto sbagliata, ma sia soprattutto scoraggiante: ci ha stupiti il clima di intolleranza che regna nella nostra comunità, la totale assenza di un dialogo, l’impossibilità di esprimere un qualsiasi pensiero. È triste e frustrante pensare che proprio tra noi ebrei regni un clima così aspro e chiuso al confronto; la nostra storia ci dovrebbe indurre a privilegiare la libera espressione e il dibattito anche sulle tematiche più spinose, perché solo dal confronto può nascere il dialogo indispensabile a mantenere viva e vitale la nostra comunità e a consentire a tutti di coltivare la propria identità ebraica.
I ragazzi di Havi’u et Hayom

Parla Moni Ovadia “Contro di me un atto fascista”

“Un atto intimidatorio e fascista, figlio della temperie berlusconiana”. Moni Ovadia, attore, scrittore e molto altro, bolla così lo striscione anonimo apparso domenica scorsa sul muro della scuola ebraica di Roma: “Ogni ebreo è nostro fratello, Moni Ovadia e Giorgio Gomel no”. Il segno più rumoroso di una polemica che sta lacerando la comunità ebraica italiana. Una ferita (ri)apertasi la settimana scorsa, con una lettera di Gomel al mensile Shalom, in cui l’economista si scagliava contro “l’happening e barbecue con i nostri fratelli di Itamar”. Un’iniziativa organizzata dalla comunità ebraica romana, in quell’insediamento nel West Bank, vicino alla città palestinese di Nablus, dove nel marzo scorso un’intera famiglia di coloni ebrei è stata uccisa. Gomel ha protestato, ad alta voce: “Itamar non è un posto da barbecue e i suoi abitanti non sono i “nostri fratelli”. Itamar è uno degli insediamenti illegali dal punto di vista del diritto internazionale, tra i più assurdi per la geografia e la storia politica. Difficile immaginare un’iniziativa peggiore di questa”. Ne è nato un putiferio, tracimato nello striscione che ha coinvolto Ovadia: anche lui schierato a sinistra, e contrario agli insediamenti dei coloni.
Ovadia, cosa ha provato appena saputo di quella scritta?
Le dirò che quasi me lo aspettavo, vista l’aria che tira nella comunità. Certi ebrei sentono molto la temperie berlusconiana, questo clima in cui si insulta invece che discutere, e in cui chi ha la maggioranza dei voti pensa di avere il diritto della ragione. La tecnica dell’intimidazione è fascista, tipica di tutti i sistemi totalitari.
Perché si è arrivati a questo?
Perché la situazione si è fatta molto pesante. C’è il crescere delle destre europee, e in più si è tornati a discutere di processo di pace in Medio Oriente. In certi circoli ebrei, Obama viene definito antisemita solo perché ha timidamente proposto di tornare ai confini del 1967. Il nodo centrale è questo: si possono criticare le idee, ma non insultare chi le esprime.
Anche Gomel è stato duro: la precisazione sui fratelli l’ha fatta per primo lui
Innanzitutto, Giorgio si è espresso con una lettera firmata, non come gli autori di quel vigliacco striscione. Poi, ha criticato con argomentazioni precise l’uso strumentale del termine fratello.
Lei e Gomel comunque non siete isolati. Gad Lerner vi ha difeso sul suo blog, e un gruppo di oltre 50 ebrei romani ha provocatoriamente proposto di scrivere sul muro della scuola “i nostri nomi di proscritti”. Mentre Renzo Gattegna, il presidente dell’Unione Comunità ebraiche italiane, ha deplorato “l’uso di termini diffamatori e ingiuriosi”.
Guardi, come sottolinea giustamente Lerner, nella sua dichiarazione Gattegna non cita neppure il mio nome e quello di Gomel, come se fossero troppo pericolosi. La verità è che episodi del genere vanno condannati con forza, a prescindere. “La calunnia è grave quanto l’omicidio”, sta scritto nel Talmud.
Ma l’isolamento…
Sono anni che non mi invitano alle manifestazioni per la Giornata della cultura ebraica.
Riccardo Pacifici, presidente della comunità ebraica romana, ha annunciato un convegno “in cui discutere della vicenda degli insediamenti”: ha invitato l’ambasciatore di Israele, un rappresentante di Itamar e Gomel. Lei ci andrebbe?
Non a queste condizioni. Perché non invitano anche un rappresentante dell’opposizione? Il governo non può rappresentare tutto Israele. E comunque non ho voglia di espormi a gogne. Per inciso: Pacifici ha fatto la distinzione tra ebrei buoni e cattivi.
Se potesse parlare a quattr’occhi con gli autori dello striscione?
Gli porrei una domanda: “Volete discutere con me, o volete ergervi a miei giudici e carnefici?”.
Luca De Carolis, Il Fatto Quotidiano, 26 maggio 2011

Giorgio Gomel: “Faciloneria, insensibilità e realtà delle colonie”

L’avviso dell’Ufficio giovani della Comunità di Roma del 21 aprile invitava a un “Happening e barbecue con i nostri fratelli a Itamar”. Non diceva niente di una espressione di solidarietà per l’orribile assassinio della famiglia Fogel di qualche settimana prima. Parlava di una “giornata gioiosa con i cittadini di Itamar” (cittadini di quale stato ? Una specie di stato di Giudea e Samaria, come alcune correnti del movimento dei coloni predicano, un terzo “stato” oltre a quello di Israele e a quello “virtuale” di Palestina?).
Il tono era appunto da festa e gita bucolica. Ho trovato l’iniziativa improvvida e demagogica: Mi ha colpito la mancanza di senso della misura e di onestà intellettuale. Semmai Itamar è un luogo in cui meditare e ragionare. Ragionare sull’immane errore storico e politico degli insediamenti, uno dei maggiori ostacoli oggi a un negoziato di pace che conduca a una soluzione del conflitto basato sulla spartizione della terra contesa – chiamatela Eretz Israel o Palestina – fra due popoli con pari dignità di diritti. Oltre 500.000 persone abitano oggi in 140 insediamenti e outposts abusivi fra il West Bank e Gerusalemme est. Vi si sono insediate dalla fine degli anni ’70 con il sostegno dei governi di Israele in terreni di proprietà di palestinesi o espropriati da Israele in quanto “state lands” .Una parte rilevante dei coloni è poco disposta allo sgombero anche nell’ambito di un accordo di pace; è pronta a ricorrere alla violenza nell’opporsi all’ eventuale decisione dell’evacuazione, come dalla striscia di Gaza; rifiuta di vivere come cittadini di un futuro stato di Palestina, minoranza ebraica in uno stato arabo, alla stessa stregua della minoranza araba nello stato di Israele.
Ad un’opinione così liberamente espressa su Shalom – il giornale della Comunità -, opinione che riflette quella di forse la metà o più degli israeliani e di molti ebrei della Diaspora (i movimenti Jstreet negli Stai Uniti e Jcall in Europa ne sono solo la voce più attiva) si reagisce con una scritta insultante contro di me, sui muri della Scuola ebraica, luogo che dovrebbe essere deputato all’educazione al sapere e al rispetto dell’altro. La scritta resta lì come atto di oltraggio e di intimidazione per tre giorni, sotto gli occhi di studenti, insegnanti, abitanti della zona.
Questi atti di intolleranza non sono nuovi nella Comunità di Roma. Come garantire il rispetto dell’altro e il civile confronto delle idee è il tema essenziale che la Comunità, con il Centro di cultura e la Scuola, deve affrontare con serietà.
Giorgio Gomel

Bon ton e dimensione morale

Alcune delle reazioni seguite alla vicenda della lettera di Giorgio Gomel a Shalom e delle scritte contro di lui sui muri della scuola ebraica lasciano letteralmente esterrefatti. Sembra che si tratti essenzialmente di una questione estetica, di buone maniere, di bon ton o, nel migliore dei casi, di tolleranza delle altrui opinioni. Sembra che la dimensione morale sia ormai un’opzione, un vezzo di tempi decadenti e decaduti.
Ebbene, Giorgio Gomel ha tutto il diritto di dire quel che pensa. Per parte mia, sono contrario a qualsiasi reato di opinione, persino a quello dei negazionisti. Figurarsi. Ma la mia personale opinione è che quel che egli ha scritto fa semplicemente orrore. Mi fa orrore dal punto di vista morale. Trovo allucinante che una persona – non un ebreo, ma una persona – scenda a un simile livello di ottusità morale.
Qui non si tratta di scrivere centomila battute sui coloni e spaccare il capello in quattro. Ma abbiamo perso tutti la testa? Non si tratta di decidere se i “coloni” di Itamar fossero o non fossero “estremisti nazional-religiosi” e quindi indegni di essere considerati “nostri fratelli”. Considerare il giudizio politico come preliminare al giudizio morale è segno di totale smarrimento. Queste persone – aventi la dignità di ogni essere umano – sono state barbaramente uccise e i loro bambini, tra cui un neonato, selvaggiamente sgozzati.
Voglio dire chiaramente una cosa ai signori paladini dei palestinesi. Se domani una famiglia di palestinesi militanti, magari di quelli che educano i propri figli a giocare con i mitra, venisse sterminata alla maniera di Itamar e i loro bambini, incluso qualche neonato, venissero sgozzati alla maniera di Itamar, la mia prima preoccupazione sarebbe di esprimere condanna morale e orrore per un simile delitto, e di chiamarli “miei fratelli”. Avanti a tutto viene il rispetto dell’uomo e l’ebraismo ci avrebbe dovuto insegnare questo.
Sono certo che Giorgio Gomel, in un caso come il precedente, si comporterebbe come me. Ma non si è comportato così per i “coloni” di Itamar: li ha calpestati nella furia del suo fanatismo ideologico. Nella sua lettera non è riuscito a trovare una parola, una sola parola, per dire che i “coloni” di Itamar sono suoi fratelli, se non altro per essere stati i martiri di un delitto contro l’umanità, ed è riuscito soltanto a esprimere un concetto che si riassume col dire “se la sono voluta”. Che una persona che viene detta intelligente – ma penso che l’intelligenza disgiunta dal senso morale non valga niente – si comporti così e poi abbia l’ardire di parlare di onestà intellettuale, è il colmo. Per parte mia, non ho mai inalberato un cartello in vita mia e mai scritto sui muri, e non lo farò mai. E considero ovvio rispettare la rivendicazione di Giorgio Gomel e dei suoi fans al diritto di opinione: una rivendicazione miserabile rispetto alla sostanza morale della questione.
Giorgio Israel

“Ma quale violenza”?

Tanto per aggiungermi al profluvio di parole sulla vicenda, vorrei puntualizzare un paio di cose tecniche (non opinioni, ma fatti) riguardo alla lettera di Giorgio Gomel che leggo  nel collage di interventi sulla vicenda Itamar/scritte sui muri.
Nella sua replica alla polemica, Gomel sostiene che una parte rilevante degli abitanti degli insediamenti della West Bank “è pronta a ricorrere alla violenza nell’opporsi all’eventuale decisione dell’evacuazione, come dalla striscia di Gaza”.
Quando nel 2005 il governo israeliano ha attuato il piano di disimpegno, sono stati evacuati tutti i 21 insediamenti di Gaza e 4 in Samaria. Nei mesi precedenti si è parlato a lungo di guerra civile, di possibili violenze inaudite, di trauma collettivo irrecuperabile. Invece il popolo israeliano ha dimostrato di poter superare anche questa dura prova (peraltro non era nemmeno la prima volta che Israele evacuava territori). Certo, c’è stata opposizione, ci sono stati scontri, alcuni episodi di violenza tra militanti e forze di polizia e soldati che attuavano il piano. Per di più, a oggi, una larghissima parte degli evacuati da Gaza non ha ancora ricevuto le compensazioni promesse, né un’abitazione permanente (molti  vivono ancora nelle cosiddette “caravillot”). Qualcuno ne sente parlare? Persino in Israele si grida poco allo scandalo e la questione del disimpegno viene affrontata solo nell’ambito di considerazioni strategiche, mentre il risvolto umano di quella vicenda si trova ormai molto alle nostre spalle. Israele è andata avanti.
Non si capisce quindi perché Gomel nella sua analisi non tenga in considerazione questo precedente a dir poco fondamentale. Sarebbe solo un auspicio se, in caso di disimpegno dalla Cisgiordania, si ripetesse quanto accaduto a Gaza nel 2005.
Secondo punto: secondo Gomel, sempre una parte rilevante degli abitanti degli insediamenti della West Bank “rifiuta di vivere come cittadini di un futuro Stato di Palestina, minoranza ebraica in uno stato arabo, alla stessa stregua della minoranza araba nello stato di Israele”.
Sarebbe più che giusto che esistesse la possibilità per gli ebrei di vivere in una Palestina governata solo dai palestinesi, godendo di piedi diritti come è garantito ai cittadini arabi in Israele, senza dover temere per l’incolumità delle loro vite, con la garanzia di accesso a tutti i luoghi di culto ebraici che dovessero eventualmente rimanere entro i confini dello Stato palestinese. In tal caso, ogni singola persona potrebbe valutare se vivere in Palestina o in Israele.
Ma stupisce che Gomel prenda anche solo in minima considerazione quest’ipotesi, del tutto irrealistica a oggi e, peraltro, ne imputi la colpa agli ebrei ivi residenti al momento e non a una leadership palestinese che non sembra contemplare questa possibilità.
Senza considerare poi che, ad avere un paio di dubbi sulla possibilità di vivere in Palestina, non sono solo gli ebrei, ma gli arabi stessi, come molti arabi israeliani affermano informalmente (per paura di ritorsioni da parte delle proprie leadership) e in alcuni casi anche più apertamente, come dimostra un sondaggio del novembre scorso in cui è emerso che la maggior parte degli arabi di Gerusalemme Est, al momento, preferirebbe continuare a vivere in Israele anche qualora nascesse uno Stato palestinese (ma allora forse gli israeliani non sono così cattivi!).
Sharon Nizza

Alcune precisazioni

Nel riconoscermi quasi interamente nel richiamo alla serenità di dialogo nella Comunità ebraica di Roma, ritengo doveroso evidenziare alcuni punti:
1) La “polemica” è scaturita dalle affermazioni del Sig. G.G. il quale in un momento di forte emotività come quello causata dalla efferata e crudele strage di Itamar, ha ritenuto opportuno deridere la visita di solidarietà alla famiglia ed agli abitanti di Itamar ed inoltre ha voluto ridicolizzare il termine “fratelli” che il Presidente della C.E.R. Pacifici, aveva usato in un articolo su Shalom, per evidenziare l’attaccamento non ideologico ma affettivo con chiunque appartiene al Popolo d’Israele.
2) Non ho prove, ma spero di essere creduto sulla parola, immediatamente ho stigmatizzato il luogo dove quella scritta è stata fatta.
( Con la stessa onestà, affermo di non aver stigmatizzato la frase)
3) Chi ritiene di avere la forza della cultura, deve avere anche l’intelligenza, che niente e nessuno lo autorizza a calpestare e denigrare la sensibilità degli altri, nel qual caso deve essere pronto anche ad assumersi le responsabilità per l’inevitabile reazione di chi si è sentito offeso e denigrato negli affetti e nei valori più profondi.
Un sincero Shalom
Settimio Di Porto (Mino)

Sul concetto di Fraternité

Come nel 1982, quando di fronte all’operazione “Pace in Galilea” gli ebrei italiani si divisero sulle pagine della stampa fra chi firmava appelli per il ritiro delle truppe israeliane dal Libano e chi gridava al tradimento, anche oggi la questione mediorientale accende gli animi della piccola comunità ebraica nostrana. Con alcune differenze che sarà il caso di notare. Allora il dibattito si svolgeva sulla stampa nazionale, costituiva di per sé una notizia e spingeva i commentatori a dedicare spazio e riflessioni: lettere a “Repubblica”, interventi su “L’Unità”, editoriali sul “Giornale”. La società italiana era interessata al dibattito che si animava fra gli intellettuali ebrei e dedicava uno spazio inedito e di grande interesse. Oggi, con tutto il rispetto per il grande lavoro di comunicazione che l’UCEI sta facendo con Pagine Ebraiche (a cui è importante abbonarsi !) e la newsletter Unioneinforma, il dibattito sembra essere relegato alla sua dimensione interna, diventando visibile solo con qualche manifesto sui muri del ghetto di Roma. Nonostante l’enorme lavoro di comunicazione e il grande e onorevole impegno che le comunità ebraiche profondono per la diffusione della cultura e della conoscenza dell’ebraismo, della sua storia e delle sue tradizioni, l’impressione è che alla società italiana non interessi più molto, nel 2011, di cosa mai pensino gli ebrei italiani e i loro intellettuali di quel che succede in Medioriente. Questo stato di cose dovrebbe produrre una riflessione più ampia sulle strade che l’ebraismo italiano sta percorrendo e sul senso di certe scelte. Se infatti è indubbio che le vicende politiche, culturali, sociali e religiose che si manifestano in Israele hanno un peso importante sugli ebrei della diaspora, e quindi anche di quella italiana, è altrettanto vero che l’accapigliarsi in pubblico sull’idea di chi sia fratello di chi nel mondo ebraico e in Israele sia da considerarsi un esercizio piuttosto sterile e manifestamente inutile. Si tratta di una riproposizione in piccolissimo (ché gli ebrei italiani sono lo zero virgola zero del più spopolato dei sobborghi di Tel Aviv) che in definitiva non fa altro che alimentare tensioni interne alle comunità ebraiche italiane e non aiuta in alcun modo la costruzione di un percorso di pace in Medioriente. E di certo se le comunità ebraiche focalizzassero meglio le loro energie in una direzione progettuale, cercando di sganciarsi dalla cronaca quotidiana di quel che accade in Israele, ci si guadagnerebbe tutti, innanzitutto in lucidità. E la progettualità non manca: per fare solo piccoli esempi degli ultimi tempi, si pensi alla visita della delegazione della Regione Lazio al Beith Wizo Italia (luogo in cui da decenni le ebree e gli ebrei italiani finanziano esperienze di convivenza e di pace), si pensi all’incontro a Roma dei responsabili delle federazioni olimpiche israeliana e palestinese con gli auspici del Maccabi capitolino, si pensi infine alla caldissima accoglienza ricevuta dal Presidente Napolitano nella comunità ebraica italiana a Yerushalaim. Sono solo alcuni segni recenti di un lavoro continuo e positivo, che certamente connette l’esperienza ebraica italiana con la realtà israeliana e lascia ben sperare per un rapporto sempre più stretto, in cui al concetto di fratellanza sia restituito quel grande significato che dai tempi della rivoluzione francese ha rappresentato il centro concettuale su cui si è costruito l’ebraismo di oggi.
Gadi Luzzatto Voghera, storico

Jarach: “Dall’Ucei equilibrio e parole di saggezza”

Caro Renzo, credo tu mi conosca abbastanza bene per sapere che non tendo a scrivere per farmi bello né a fare complimenti formali. Sento oggi il bisogno di esprimerti la mia riconoscenza per le sagge e pacate riflessioni sui fatti di Roma, di cui tra l’altro non conosco i dettagli, ma nelle quali ho molto apprezzato il tentativo di condannare un odioso episodio senza cadere in condanne e solidarietà a singoli. Trovo questo il giusto ruolo del Presidente dell’UCEI nella difesa di principi e valori, astenendosi da attribuzioni di patenti a buoni e cattivi. In occasione della riunione di Giunta mi è stato richiesto di inviare messaggi di solidarietà e/o di condanna e ho potuto sostenere che il mio Presidente aveva correttamente espresso quello che è anche il mio pensiero e che la solidarietà a qualcuno si sarebbe interpretata come accusa a qualcun altro stravolgendo il messaggio sui valori e disvalori. Grazie, continua a difendere così la nostra immagine.
Roberto Jarach, presidente della Comunità Ebraica di Milano

“Sgradevolmente stupito”

Leggo e seguo da tempo le pagine su cui appaiono in questi giorni le roventi polemiche per i fatti di Roma. Non sono di cultura ebraica, nonostante il cognome, ma mi interessa da anni cercare di afferrare il ‘senso’ dell’ebraismo. So bene che si dice “dove ci sono due ebrei, ci sono tre opinioni diverse”, cosa che ho sempre interpretato come una caratteristica positiva di una cultura non dogmatica, ma vi confesso che i toni usati, l’astio, la ferocia verbale e poi i fatti, le scritte, i manifesti e quant’altro mi hanno lasciato sgradevolmente stupito. D’altra parte, perché non dovrebbe essere così ? Gli ebrei italiani sono diversi dagli italiani non ebrei ? Certo che no (perché non avrebbero dovuto essere anche fascisti, diceva Tullia Zevi). Infatti sembrano proprio polemiche da italiani-italiani. Che sia una sottile, pericolosa, brutta forma di assimilazione ? Chi ha un’opinione diversa è davvero, per forza, un nemico ?
Entro nel merito: pensare che dei bambini sgozzati non siano “fratelli” non (ripeto: NON) è opinione che mi sento di condividere. Pensare che i genitori di quei bambini non abbiano responsabilità per aver portato quegli stessi bambini a vivere in un territorio pericoloso e ostile in quanto non israeliano (un insediamento illegale, mi pare di aver capito) anziché in un villaggio israeliano mi sembra invece poco realistico. Quei genitori hanno avuto delle responsabilità, anche se sono essi stessi delle vittime di una questione estremamente complessa e più grande di loro come quella israelo-palestinese. E qui finisce – per me – la riflessione sui caduti di Itamar, che deve lasciare il campo in silenzio anche ad un semplice rispetto umano.
Ma subito si riapre la riflessione sulle colonie che, chissà perché, qualcuno nega che siano colonie. Non credo che sia una questione semantica, credo, un po’ più banalmente, che esista nel comune sentire (già la definizione di “territori occupati” è indicativa) una qualche idea di dove inizi e dove grossomodo finisca Israele e dove grossomodo ci sarà, prima o poi, uno stato palestinese. Andare a vivere al di là di questa linea per ora immaginaria, ma altrettanto realistica di una tracciata sul terreno, è “colonia”. Chiamatela pure ‘insediamento’ se volete, la sostanza non cambia. Stare in Israele non è “colonia” per il semplice fatto che Israele non è una “colonia”. Forse lo era, ma oggi non più. E’ uno stato riconosciuto e indiscutibile. Né ha alcuna ragione chi intende metterlo in discussione. Troppo poco intelligente ? Poco filosofico ? Davvero se immagino che non sia giusto oltrepassare quella linea immaginaria (verde o simil-verde) tradisco tutto il popolo ebraico e tutta la storia ebraica ? Beh, io non lo credo. Ho letto con attenzione tutte le opinioni su questo, ma continuo a non crederlo. Mi sembrano cervellotiche, astratte considerazioni che mirano solo a fare del passato (antico) una realtà presente. Cosa che, semplicemente, non è. E lo dico senza spirito polemico.
Fabio Della Pergola

I fratelli e i razzisti

Dalla lettura di “l’Unione informa” e del Portale dell’ebraismo italiano moked.it ho imparato questa settimana molte cose interessanti. Per esempio che gli attuali “nemici”(fra virgolette) d’Israele non comprendono solo quelli che, in vari angoli della Terra, non accettano l’esistenza del nostro Stato. Il gruppo di questi nemici (questi sì, senza virgolette) comprende anche molti ebrei italiani, in Italia e anche in Israele, “incapaci di liberarsi da superate ideologie colonialistiche”. (lo assicura Sandro Natan Di Castro) Ho poi appreso che “i coloni […] non sono innocentemente e sentimentalmente i “nostri fratelli”, che la solidarietà con loro “rivela una mancanza di sensibilità, di senso della misura e di onestà intellettuale che colpisce” e che questa – anche se dalle elezioni e dai sondaggi non sembrerebbe – è proprio l'”opinione che riflette quella di forse la metà o più degli israeliani” (così Giorgio Gomel, si sa gli economisti hanno fra gli strumenti di lavoro la palla di cristallo). Sono stato informato che “chiunque non sia obnubilato dal fanatismo riconosce l’apporto culturale d’eccellenza recato dall’opera di Moni Ovadia a tutti noi” (Gad Lerner).
In definitiva, anche cercando di non personalizzare il dibattito, avendo espresso l’opinione che le vittime di Itamar – cinque persone, fa cui tre bambini, uno di pochi mesi, sgozzate mentre dormivano pacificamente a casa loro, meritavano tutta la nostra solidarietà e che tutto il popolo di Israele porta le ferite che sono state loro inferte e che in fondo siamo resi tutti coloni (o esiliati) dal fondo della nostra condizione ebraica – capisco ora di essere un nemico di Israele senza virgolette, un individuo senza sensibilità senso della misura e coerenza intellettuale e infine anche un obnubilato del fanatismo. Che dire, mi accontento di questi gesti di fratellanza. Anche perché approvo pienamente i contenuti del famoso striscione “atto intimidatorio e fascista” secondo Moni Ovadia, quello che diceva “Tutti gli ebrei sono nostri fratelli, Ovadia e Gomel no”. Il ragionamento è semplice: chi non dice di non essere “sentimentalmente fratello” dei “coloni di Itamar” di quelli assassinati e anche di quelli vivi: perché potrebbe rivendicare un posto nella fratellanza del popolo ebraico? La rifiuta da solo, dire che non è un fratello degli ebrei non è insultarlo ma ribadire la sua scelta.
E’ curioso che affermazioni del genere che ho riportato siano difese nel nome della libertà di espressione: davvero Gomel e Ovadia hanno diritto di dire agli altri (a me, lo ripeto, senza personalizzare) che siamo fascisti, nemici di Israele, obnubilati, disonesti intellettualmente, e quant’altro – senza che noi obnubilati fascisti possiamo neanche ribadire che non li sentiamo come nostri fratelli?
Ma c’è un problema più grave e difficile da porre, che è la mia riflessione di questa settimana: la differenza fra antisionismo e antisemitismo, che è sempre incerta, dove si pone in questo caso? Un tale che deplora senza pudore che “i coloni”, “edificando case e strutture, costringono l’esercito israeliano a una onerosa opera di protezione” cioè che dà la colpa del terrorismo alle sue vittime, dato che non sono i terroristi, nella sua visione, a produrre la necessità di protezione, è tanto lucido nei confronti del popolo ebraico quanto sono amici delle donne quelli che sostengono che la colpa degli stupri e delle stuprate, che sono troppo sfacciate o spudorate. A me questo atteggiamento sembra proprio non antisionista, ma antisemita. C’è chi uccide e chi sta in divieto di sosta. Ma dato che la vittima è in contravvenzione (secondo il punto di vista di chi parla) e l’assassino è un bravo palestinese che “lotta” per i suoi “diritti”, non deve avere solidarietà e se chiede un po’ di protezione, questa è un’aggravante… Potrò dirlo senza che qualcuno mi soffochi la parola in bocca, naturalmente in nome della libertà di parola? Per essere un fascista obnubilato senza senso critico, a me un ragionamento del genere appare proprio razzista, anche se viene da un ebreo. Anzi, a maggior ragione perché viene da un ebreo.
Ugo Volli

“I nostri fratelli” secondo Yossi Sarid, giornalista di Haaretz

Il dossier degli interventi che si sono susseguiti dopo il fattaccio delle scritte e dell’enorme striscione (stampato in tipografia) contro Giorgio Gomel e Moni Ovadia è corposo. E ormai ci vuole tempo e buona volontà per leggerlo tutto. Mi limito perciò a un paio di osservazioni: – anche Settimio (Mino) Di Porto ripete che Giorgio Gomel nella lettera inviata a Shalom ha voluto “deridere la visita di solidarietà alla famiglia e agli abitanti di Itamar” nonché “ridicolizzare il termine ‘fratelli’ ”. Ma entrambe le affermazioni non corrispondono a quanto ha fatto Gomel con la sua lettera: criticare la decisione di invitare a un ” Happening & Barbecue a Itamar…un’esperienza indimenticabile per i grandi e per i piccoli…..una giornata diversa e gioiosa ” è cosa ben diversa dal deridere una visita di cordoglio alla famiglia Fogel per l’efferato crimine (condannato subito da tutti compreso Giorgio Gomel). Significa criticare il più che evidente sfruttamento di un fatto che ci ha colpito tutti e di un lutto che richiede rispetto, trasformandolo in qualcosa di assolutamente stonato: quello che sembra – ha scritto giustamente Gomel – un invito “a una gita bucolica in un luogo ameno” è in realtà un atto di solidarietà alla linea politica dei coloni più estremisti, di una delle colonie illegali non solo per il diritto internazionale, ma anche per i Tribunali di Israele. In questo senso Gomel ha scritto che quei coloni non sono innocentemente e sentimentalmente “nostri fratelli”. 
Esemplari sono le parole usate dal giornalista e attivista di sinistra Motty Fogel, fratello di Udi: con grande dolore, pietà e rispetto, ha accennato – in una cerimonia funebre organizzata congiuntamente da israeliani e palestinesi del movimento Combatants for Peace – alla scelta di suo fratello e sua cognata di vivere in una simile colonia, scelta ben diversa dall’impegno per la pace e la riconciliazione fatta da lui e dal suo movimento.
 – Queste precisazioni valgono anche come obiezione preliminare agli  interventi estremistici di Riccardo Pacifici, di Giorgio Israel, e ai vari interventi di Ugo Volli.  A quest’ultimo sull’essenziale ha risposto, ma sembra ahimè invano, Sergio Della Pergola. 
Cosa poi significhi in concreto e in certi contesti l’appello a considerare tutti gli ebrei innocentemente e sentimentalmente “nostri fratelli” lo spiegano bene le parole di Yossi Sarid (che traduco da un articolo di Haaretz del 4 dicembre 2009).
I have no brother 
When I see West Bank settlers hitting Palestinian children on their way to school, I deny any kinship.
By Yossi Sarid  

Non ho fratelli
Quando vedo coloni della West Bank colpire bambini palestinesi che stanno andando a scuola non riconosco di avere con loro alcuna affinità
“I coloni sono nostri fratelli”, ha affermato il primo ministro Netanyahu questa settimana, cercando di farci comprendere la loro santa collera. Lasciate che io dica chiaramente: non sono miei fratelli. Non ho alcun fratello così, né sorella. 
E ‘difficile essere un ebreo. Recentemente è stato ancora più difficile, e non perché il mondo intero sia contro di noi, ma perché noi siamo contro il mondo intero. Il Primo Ministro David Ben-Gurion aveva ragione: è importante quello che gli ebrei fanno – e quel che abbiamo fatto è stato escluderci, tagliarci fuori dal mondo, come un pianeta che è uscito dalla sua orbita. I coloni ci hanno tagliato fuori dal mondo: il mondo ci guarda attraverso il suo telescopio e si domanda: “Ma è questo Israele?” Anch’io mi pongo la stessa domanda.  
[……] Noi non apparteniamo alla stessa famiglia. Quando li vedo entusiasti di incendiare i campi, di abbattere piante di olive, attaccare bambini che stanno andando a scuola, picchiare soldati e cacciar via chi è venuto a ispezionare, mi guardo per assicurarmi che essi non sono me.  Io nego ogni tipo di parentela con loro, non faccio parte di loro. 
Quando vedo un ebreo investire con l’auto ripetutamente un terrorista arabo ferito, io sono assolutamente certo che qualsiasi connessione tra di noi è una pura coincidenza,  pura casualità, qualcosa da cui sento l’obbligo di staccarmi. Devo salvare la mia immagine umana prima di diventare così  [….]
E quando vedo ebrei espellere degli arabi dal quartiere di Gerusalemme Est di Sheikh Jarrah, – strappandoli dalle loro case e prendendone possesso,  con i letti ancora caldi, e gettando per strada nel freddo intere famiglie –  sono sopraffatto dal disgusto.
Cosa ho a che fare io con questa gente? Certo fratelli non siamo proprio, ma piuttosto estranei nella notte. Ci si dice che ci sono giudici a Gerusalemme. Dove sono i giudici? Che cosa ne è successo di loro?
E sono proprio coloro che predicano l’amore per il prossimo, ma non lo praticano, che dimostrano la maggiore disponibilità a commettere crimini di odio.  E proprio chi in ogni occasione afferma che “siamo tutti ebrei”, è colui che, basandosi solo su legami di sangue, ignora i valori comuni.   […..]
perchè non ci separiamo da loro prima che la loro eresia faccia crollare la casa sulle nostre teste?   […..] 
Un legame di sangue non è una condizione o la garanzia di un linguaggio comune per quanto riguarda alcuni valori.   E non tutti i nostri connazionali sono nostri alleati.
Che Shimon Peres si alzi e ci dica chiaramente.  Che cosa ne dobbiamo fare dello stato ribelle […..] di Sebastia in Cisgiordania, che pone in pericolo l’esistenza di un altro Stato – quello che Herzl e Ben-Gurion crearono  […..] a Basilea e Tel Aviv ?

Giuseppe Damascelli

I nostri fratelli di Itamar sbagliano ma Moni Ovadia vale meno di Enrico Fink

Permettetemi di presentarvi alcune brevi considerazioni in merito al dibattito sollevato dalla scritta contro Giorgio Gomel e Moni Ovadia recentemente apparsa sui muri esterni della Scuola Ebraica di Roma.
Poiché tale scritta costituisce oggettivamente una perniciosa intimidazione ho ritenuto mio dovere apporre la mia firma a un appello di solidarietà politica recentemente circolato.
Ciò posto mi preme osservare che il ragionamento di Ugo Volli secondo cui è legittimo negare la propria fratellanza ebraica a Giorgio Gomel e Moni Ovadia se essi negano la loro fratellanza ebraica agli abitanti di Itamar è fondato.
Ma, ammettendo pure che Giorgio Gomel abbia sbagliato a negare che gli abitanti di Itamar, in quanto ebrei, sono nostri fratelli, la sostanza di quanto da lui è stato affermato è sacrosanta:
i nostri fratelli ebrei di Itamar, vivendo nei Territori Occupati, compiono un atto moralmente inaccettabile contribuendo a una occupazione, illegale per il diritto internazionale ai sensi delle risoluzioni 242 e 338 delle Nazioni Unite, che costringe una popolazione di più di un milione di palestinesi in uno stato di apartheid, con sistematiche violazioni dei più elementari diritti umani denunciate dalla associazione israeliana B’Tselem.
Constatare tale semplice dato di fatto non ha evidentemente nulla a che vedere con i fumi dell’ideologia paventati da Giorgio Israel.
Personalmente non amo poi chi fa dell’impegno in favore dei giusti diritti dei palestinesi uno strumento di autopromozione professionale ed è per tale motivo che la mia solidarietà politica va immensamente più a Giorgio Gomel che a Moni Ovadia sul cui “contributo culturale di eccellenza” sostenuto da Gad Lerner invito a interrogare il mio amico musicologo Enrico Fubini che potrà assai meglio di me illustrare quanto il rigore filologico musicale di Moni Ovadia sia inferiore a quello di Enrico Fink, assai meno famoso non essendo un campione di presenzialismo antiberlusconiano e di ruffianate filopalestinesi.
Non condivido con Gad Lerner l’idea che la solidarietà politica debba automaticamente tradursi in un apprezzamento artistico, né che la cooptazione politica possa soppiantare, come criterio di valutazione, il merito.
Gavriel Segre

Fratellanza

“Dite ai vostri fratelli: siete il mio popolo”. Sono le parole del profeta Hoshea (2:3) che abbiamo letto questo Shabbat. Non basta essere fratelli, sembra dire il profeta, bisogna essere anche popolo, in ebraico ‘am, vicino a ‘im, che significa “con”, l’essere insieme. Le discussioni degli ultimi giorni, di cui è stata data ampia documentazione nel dossier in fondo questa pagina, mostrano come neppure sia chiaro e condiviso il concetto di fratellanza: chi è “mio fratello”? Ma anche se si accettasse il concetto di fratellanza, le sue implicazioni sarebbero tutte da verificare, perché la fratellanza biblica comprende una buona dose di conflittualità. Hoshea aggiungeva un’ulteriore considerazione, non solo il passaggio dalla fratellanza al popolo, ma anche l’idea del “mio popolo”, nel senso di popolo scelto e sempre caro al Signore, malgrado tutte le turbolenze del suo comportamento. In questa prospettiva le discussioni di questi giorni ci hanno riportato molto indietro, ma bisogna avere in mente una prospettiva molto più avanti.
Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma

Stanchi di che?

Avrei preferito non essere coinvolto nel recente dibattito sollevato in seguito all’assurda scritta sui muri della scuola ebraica di Roma a opera di qualche invasato insensato.
Chiamato però in causa nel notiziario quotidiano “l’Unione informa” di domenica 29 maggio 2011 da Ugo Volli ( la cui ideologia seguo quasi sempre con attenzione, come quella espressa periodicamente su Israele da altri pubblicisti di carriera, ho l’onere di dover rispondere.
È superfluo convincere Ugo Volli che quanto è accaduto a Itamar (come in altri episodi più o meno simili in passato) costituisce un eccidio brutale, barbaro, efferato da parte palestinese, da condannare e punire con massima fermezza e inflessibilità. Le vittime erano israeliani esattamente come me e quindi fratelli (senza virgolette, caro Volli), uccisi con una barbarie e una ferocia inimmaginabili.
La vita tuttavia continua. Non si può né si deve fermarsi, neppure dopo un tragico episodio come questo. La pace è tuttora lontana, anche se parzialmente più vicina di alcuni anni fa, ma c’è ancora chi si batte per raggiungerla sostenendo i propri diritti senza tuttavia disconoscere a priori quelli della parte avversa. Non è un ritornello riconoscere che anche in questo caso si deve raggiungerla non fra amici, a seguito di un occasionale diverbio, ma fra due popolazioni contendenti, ognuna con le proprie motivazioni, ragioni e pretese.
Su “l’Unione informa” ho letto in passato alcune brevi affermazioni di collaboratori e rappresentanti dell’ebraismo italiano (tralascio i nomi e cito pochi brani unicamente per motivi di spazio) : “… siamo stanchi di sentire che gli abitanti degli insediamenti continuano a essere un ostacolo alla pace, soprattutto per il loro diritto di allargare le proprie abitazioni per dare spazio alle famiglie che crescono…”.
“… Nei territori occupati in seguito alla guerra si svilupparono insediamenti che in gergo giornalistico divennero ben presto colonie. Si può su questo punto criticare la politica di insediamento dei governi israeliani successivi. Tuttavia la categoria semantica «colonie» resta problematica. Il potere coloniale è ben altra cosa: si fonda su una metropoli e sulla installazione di territori immensi e lontani, in una discontinuità storico-geografica, di cui si sfruttano le risorse e dai quali si ricavano redditi…”.
“…la parola “colono”… È un uso del linguaggio così inaccettabile e velenoso da meritare una riflessione, al di là del rifiuto dell’odio. Non si tratta solo di un linguaggio giuridicamente sbagliato e fondamentalmente razzista, vi è in esso un attacco all’identità ebraica. C’è in esso qualcosa di antiebraico, più generale di tutte le spiegazioni che si possono dare sul fatto che Giudea e Samaria sono territori contestati e non territori occupati; che non esiste nessun diritto legale palestinese a tutte le terre al di là di una linea armistiziale che fu stabilita nel ’49 con un accordo a Rodi in cui se ne escludeva esplicitamente la funzione di confine internazionale…”.
Rispondo.
Stanchi di che? Di ascoltare e riconoscere la verità sul fatto che gli insediamenti israeliani in Cisgiordania costituiscono un notevole ostacolo (non l’unico, ne esistono altri da parte palestinese) al raggiungimento di un accordo? Cosa devono esprimere i palestinesi che in 44 anni di sottomissione hanno visto giorno dopo giorno crescere e svilupparsi nuovi insediamenti in un territorio destinato dall’inizio (leggi: dalla fine della Guerra dei Sei giorni) alla difesa militare d’Israele e non ad una base espansionistica per una popolazione mossa solo da visioni storiche oltranziste (oltre a puri calcoli economici) e quindi inaccettabili, non diverse da quelle sollevate da settori del mondo arabo nei confronti di Israele. Non dimentichiamo il fatto che Israele ha accettato i confini assegnati nel ’48-’49 e per un ventennio (fino al ’67) non ha sollevato pretese né speranze di future espansioni da attuare alla prima occasione. E non dimentichiamo intenzionalmente che i palestinesi non sono solo gli assassini delle vittime di Itamar.
È auspicabile anche che alcuni opinionisti ebrei italiani, che sulle colonne dei vari periodici ebraici (e su giornali di indubbio servilismo all’attuale governo italiano) non continuino quindi a sorvolare su ogni espressione di diritto all’indipendenza palestinese, necessaria oggi allo stesso Stato d’Israele, risollevando nei loro scritti spesso e in modo talvolta fanatico formule storiche e religiose affatto consone all’epoca attuale in generale ed agli ultimi avvenimenti medio orientali in particolare.
Da qualunque angolo visivo si voglia esaminare ed interpretare la continuazione del “controllo” israeliano su territori assoggettati inizialmente per fini militari, successivamente e unilateralmente per stanziamenti civili fin dalla giusta guerra dei Sei Giorni, non c’è dubbio sul fatto di paragonarlo ad una forma di moderno colonialismo, anche se non simile al modello classico, caratterizzato quest’ultimo fra l’altro dalla distanza geografica fra i confini del “colonizzatore” e quelli del “colonizzato”. È di fatto colonialismo il controllo e l’assunzione di risorse geografiche ed economiche, l’espropriazione di terreni, la limitazione di settori del commercio, il reclutamento di mano d’opera a bassi livelli economici, la creazione di immediati servizi logistici per ogni insediamento, l’ostacolo applicato ai movimenti interni della popolazione assoggettata, il generale atteggiamento di superiorità espresso verso la cultura e le tradizioni del colonizzato, l’aggiornamento dei confini dello Stato nelle carte geografiche ufficiali.
Essere ebreo non indica solo manifestare giustamente contro i nemici dello Stato d’Israele, le loro minacce, il loro terrorismo e la loro violenza, né soltanto realizzando la propria aliyà o sentendosi partecipi dell’esistenza dello Stato ebraico tramite supporti economici, investimenti per acquisti di abitazioni private, scambi turistici o sventolando la bandiera israeliana nel Giorno dell’Indipendenza.
Essere ebreo impegna anche a non accettare definitivamente l’occupazione e la conquista israeliana della Cisgiordania, ancora attiva dopo 44 anni dalla fine della guerra dei Sei Giorni, ed a riconoscere con dignità il diritto di ogni essere umano di qualunque provenienza (in Israele ed in ogni angolo del mondo) ad insorgere con la propria voce contro la sottomissione, l’umiliazione, la dipendenza e la discriminazione prolungate di un’intera popolazione desiderosa, non meno di Israele, di veder riconosciuta la propria indipendenza.
Il mio consiglio (non necessariamente accettabile) è di attenersi a quanto succede da 44 anni da ambo le parti dei confini controversi e di non applicare ad altri ebrei, da destra a sinistra e con troppa baldanzosa auto-sicurezza, il termine “razzista”.
Sono nato all’epoca delle leggi razziste, israeliano da più di 50 anni, più che fiero dello Stato d’Israele a cui appartengo, ma a differenza di altri non dimentico mai contro chi e quanto hanno dovuto lottare gli ebrei per ottenere il diritto alla propria indipendenza.
Sandro Natan Di Castro, Haifa

Qui Roma – Dopo le polemiche un documento condiviso

Un documento condiviso redatto da esponenti delle tre forze elette in aprile in rappresentanza dell’ebraismo capitolino è stato approvato dal Consiglio della Comunità ebraica di Roma. Eccone il testo.
Il Consiglio della Comunità Ebraica di Roma prendendo atto delle veementi polemiche sorte tra i nostri iscritti a seguito delle iniziative di solidarietà organizzate dalla CER in favore degli abitanti di Itamar, comunicate nel Consiglio del 13 aprile scorso ribadendo che il dialogo e il libero dibattito, nel rispetto delle altrui opinioni, sono condizioni intrinseche del sistema dei nostri valori ebraici e democratici, condanna ogni forma di provocazione e intimidazione, verbale e scritta, o azione che possa portare a una irreparabile frattura tra i membri della nostra Comunità, impegna sé stesso a operare scelte volte a unire la nostra Comunità, ripristinando un clima di concordia e tra i propri iscritti, a favorire, attraverso le proprie istituzioni, un sereno confronto di idee e una maggiore conoscenza dei temi che più coinvolgono emotivamente le comunità ebraiche e la società israeliana, invita tutti i propri iscritti a utilizzare i mezzi di comunicazione e le occasioni di incontro per un sano e libero confronto di opinioni, a essere consapevoli che una maggiore attenzione nel linguaggio e nei contenuti delle proprie espressioni è il primo passo per realizzare un confronto costruttivo con gli altri, rispettoso delle idee e delle sensibilità di tutti, ribadisce il legame di fratellanza tra tutti gli appartenenti al popolo ebraico, ovunque essi risiedano, nel rispetto delle diverse e individuali scelte politiche e ideologiche.

Con Giorgio Gomel e Moni Ovadia

Ci associamo alla lettera scritta da Giorgio Gomel a Shalom contro il disdicevole barbecue nel luogo di un assassinio orribile e ingiustificato. Nulla, nulla può spingere a sgozzare esseri umani, bimbi, nel sonno…
Poiché anche noi siamo contrari alla colonizzazione dei Territori Occupati, desideriamo che, chiunque sia l’autore della scritta infame contro Gomel e chiunque nella Comunità la condivida, come è avvenuto con i successivi recenti striscioni contro Giorgio Gomel e Moni Ovadia, scriva sui muri della nostra Scuola al Portico d’Ottavia anche i nostri nomi di proscritti.
Aldo Zargani, Elena Magoia, David Calef, Daniele Naim, Lina Zargani, Mario Roffi, Paola Di Cori, Giuseppe Damascelli, Fiammetta Bises, Lello dell’Ariccia, Stefano Levi Della Torre, Bruno Segre, Roberto Piperno, Clotilde Pontecorvo, Laura Pontecorvo, Chiara Pontecorvo, Andrea Damascelli, Lee Colbert, Susanna Sinigaglia, Giorgio Segrè, Lina Cabib, Andrea Billau, Lucio Damascelli, Marina Morpurgo, Guido Artom, Giorgio Canarutto, Valeria Fano, Paolo Amati, Emanuele Segre, Bruno Contini, Anna Bises Vitale, Lancillotto Vitale, Bruno Osimo, Manuel Disegni, Paola Canarutto, Deborah Taub, Gavriel Segre, Tamara Levi, Gigliola Belforte, Gisella Kohn, Celeste Nicoletti, Sergio Lattes, Ivan Gottlieb, Carla Forti, Anna Foa, Marina Piperno, Franco Lattes, Jardena Tedeschi, Luca Zevi, Lia Montel Tagliacozzo, Marina Del Monte, Joan Haim

Moni Ovadia no

È a tutti noto il documento espresso dalle varie delle liste della Comunità ebraica di Roma, nonché i vari appelli alla libertà di espressione e alla moderazione pubblicati sui vari media ebraici. Voglio dissentire da questo spirito di rinnovata fratellanza.
La scritta fatta in piazza coinvolgeva Giorgio Gomel e Moni Ovadia. Ora Gomel esprime, sulla stampa ebraica, delle idee a mio avviso non condivisibili ma si limita a questo e può quindi appellarsi alla libertà di parola.
Moni Ovadia no! Moni Ovadia non si limita a esprimere delle parole all’interno del dibattito ebraico. Moni Ovadia ritiene che si debba passare all’azione contro Israele. Recentemente – visibile su youtube – ha espresso la propria approvazione e adesione alla freedom flotilla 2; ovvero a un gruppo di terroristi che intende compiere un operazione militare contro Israele! Nel respingere la fredom flotilla 1 dieci soldati israeliani sono rimasti feriti: cosa succerà la prossima volta? Quanti terroristi imbarcheranno le navi a cui l’attore – io direi il buffone – Moni Ovadia manda la sua approvazione? Non si può rimanere inermi e appellarsi alla libertà di parola di fronte a chi, con le proprie azioni, causa lo spargimento di sangue di altri ebrei. Moni Ovadia compie quello che lo shulchan aruch chiama maase rodef; io di questo individuo non voglio sentirmi fratello, vada a Gaza o nei festival antisemiti e filohamas e là troverà i suoi fratelli. I miei Fratelli sono quei hayalim che con ogni mezzo, e a rischio della propria vita, fermeranno la freedom flotilla.
Michele Steindler

Non giocate con il Din Rodef

Chi abbia letto il mio precedente intervento si sarà reso conto che, pur avendogli espresso la mia solidarietà politica firmando un appello in suo favore, non sono stato certo tenero con Moni Ovadia che ho chiaramente dipinto come un mediocre interprete di musica ebraica, di valore assai inferiore a quello di suoi meno famosi colleghi quali Liliana Treves Alcalay, Evelina Meghnagi, Miriam Meghnagi ed Enrico Fink, assai accorto nel gestire opportunisticamente la propria visibilità mediatica mediante un accurato presenzialismo antiberlusconiano e prese di posizioni filopalestinesi, mai rilasciate alla stampa ebraica ma sempre riservate ai compiacenti mezzi di informazione della sinistra italiana, che non costituiscono un meritevole impegno sociale in favore del legittimo diritto all’autoderminazione del popolo palestinese ma sono delle autentiche ruffianate (non in altro modo, ad esempio, può essere classificata la recente esaltazione su l’Unità, da parte di Ovadia, di un personaggio quale Vittorio Arrigoni, non certo per una soluzione “due popoli due stati” bensi’ per la distruzione di Israele, sulla cui condanna morale, pur con tutta la dovuta deferenza per il triste destino che gli è toccato in sorte, in ambito ebraico non dovrebbero a mio avviso esserci dubbi).
Però il recente intervento di Michele Steindler mi inquieta in quanto esso fa implicitamente riferimento al din rodef.
Per chi non lo sapesse il din rodef è una legge tradizionale ebraica, sancita alla pagina 73a del trattato Sanhedrin del Talmud Babilonese, che legittima la liceità dell’omicidio extragiudiziale di un ebreo intenzionato ad uccidere un altro ebreo.
Tale statuto giuridico è divenuto tristemente famoso per il ruolo da esso giocato nella legittimazione, da parte di numerose autorità rabbiniche israeliane, dell’omicidio di Itzchak Rabin, legittimazione che, come è stato magistralmente evidenziato da Israel Shahak e Norton Mezvinsky nel loro straordinario libro “Jewish Fundamentalism in Israel”, non è esagerato ritenere abbia armato la mano di Igal Amir.
Non giochiamo con il din rodef e l’emissione di fatwe intolleranti lasciamola ai fondamentalisti islamici.
Gavriel Segre