A proposito di furto
In un suo breve, toccante intervento, significativamente intitolato “il furto”, Anna Segre esprime – traendo spunto dalle ripugnanti farneticazioni di Lars von Trier, al Festival di Cannes -, con rara efficacia, il triste sentimento di espropriazione che colpisce gli ebrei quando le manifestazioni di antisemitismo non provengono da qualche rozzo e inacculturato facinoroso, ma, al contrario, da raffinati artisti, le cui opere, fino a quel momento, avevano suscitato emozione e ammirazione. Si può continuare ad ammirare l’opera di qualcuno che apertamente ti disprezza? È evidente che è difficile: “La frase sgradevole – scrive la Segre – è come un veleno che si propaga e intossica tutto ciò che ha intorno. Il personaggio che prima ammiravamo si rivela nemico, e di colpo una luce sgradevole cala su libri, canzoni o film che abbiamo adorato; non riusciamo più a sentirli “nostri” come prima, e contemporaneamente ci sentiamo defraudati per questa perdita. Intorno a noi colleghi e amici continuano con l’ammirazione di sempre, e in fondo li invidiamo perché ci piacerebbe continuare a leggere quei libri o guardare quei film con gli occhi di prima. Così ci sentiamo in qualche modo discriminati, diversi dagli altri, e non per nostra scelta. Chissà se Lars von Trier si è reso conto di avermi rubato Dogville?”.
Tali considerazioni ci rimandano a un problema di fondo, che è quello della relazione tra etica e arte, e del rapporto tra l’artista e la sua opera: l’arte dovrebbe sempre essere eticamente ‘corretta’ e edificante? E le eventuali colpe dell’artista si riflettono, e in che misura, anche sulla sua opera?
In genere, com’è noto, tale tipo di collegamento viene naturalmente effettuato nei confronti dei filosofi e in genere dei pensatori, le cui idee personali difficilmente possono essere scisse dalle opere, facendo sì che il giudizio morale sul percorso biografico dell’autore si sovrapponga, o coincida col giudizio sui suoi prodotti culturali (talvolta, con un automatismo anche eccessivo: si pensi ai casi di Giovanni Gentile e Carl Schmitt, rivalutati solo dopo la fine della guerra fredda e il crollo del muro di Berlino, o di Martin Heidegger, rigettato come filosofo ‘nazista’ solo per una compromissione col regime alquanto episodica e marginale [in pratica, per una sola prolusione universitaria]). Nel campo delle arti, invece, i giudizi sulla biografia e sulle idee dell’artista non portano, generalmente, diretto nocumento (o vantaggio) alla sua opera: per Richard Wagner, per esempio, è evidente, e ben conosciuto, il profondo legame tra il tenebroso e tempestoso spirito nibelungico della musica e il violento, morboso razzismo del suo creatore, ma ciò non ne ha minimamente intaccato la fama mondiale (se non in Israele, ma, anche lì, in modo non definitivo e irreversibile); anche Paul Valery era aspramente antisemita, ma la sua poesia non ha per questo pagato alcun prezzo; e nessuno rimprovera a Caravaggio la sua vita violenta e dissoluta (che, anzi, ha contribuito a conferire un fosco e inquietante fascino personale al sommo maestro del Seicento).
Nel caso di Lars von Trier, evidentemente, il problema si pone soprattutto per il fatto che non si tratta di un personaggio del passato, ma di un soggetto vivente e attivo, che può continuare a fare danno, e alle cui fortune non si vuole in nessun modo contribuire. E la sensazione del furto, purtroppo, c’è. Può essere una magra consolazione per la Segre sapere che essa non riguarda solo gli ebrei: provai un’identica sensazione, per esempio, quando, leggendo l’autobiografia di Leah Rabin, appresi dell’evidente ripugnanza manifestata da Gabriel Garcia Marquez, in una cerimonia pubblica, nel darle la mano, prima di abbracciare con ostentata foga Yasser Arafat (e, prima di quell’occasione, lo scrittore non aveva incontrato nessuna delle due persone). E, in quel caso, si trattò di un ‘furto’ di ben maggiore portata. Di Dogville, in fin dei conti, si può anche fare a meno.
Francesco Lucrezi, storico