Davar Acher – Hatikvah
Anche a me sembra importante commentare la bizzarra proposta di “rivedere” se non di abolire del tutto l’inno nazionale Hatikvah “per rispettare la sensibilità degli arabi” che è stata avanzata in Israele un mese fa da alcuni intellettuali e militanti di sinistra, ed è stata oggetto di un’inchiesta nell’ultimo numero di Pagine ebraiche (clicca qui per leggerla su Facebook) e di un commento di Francesco Lucrezi su questo sito. La discussione, decisamente improponibile in tutto il resto del mondo, mi sembra infatti un sintomo assai caratteristico del distacco di una certa – autodesignata – élite intellettuale e giornalistica israeliana dai sentimenti del paese e anche dal buon senso. Non ripeterò qui gli argomenti esposti da Lucrezi per illustrare l’assurdità dell’idea, argomenti che sottoscrivo integralmente. Vorrei invece provare a mettere in luce le illusioni che stanno alla base di una proposta come questa e di molti altri atteggiamenti “post-sionisti” in Israele e altrove.
La prima illusione è quella un po’ infantile della responsabilità universale del popolo ebraico o di Israele per tutto quel che gli accade. Basterebbe che noi ci comportassimo nella maniera giusta, che fossimo buoni e bravi e saremmo finalmente al riparo di ogni guaio. Per questa illusione, i pacifisti dicono che siamo noi e non gli arabi che portiamo la responsabilità del conflitto in Medio Oriente e possiamo risolverlo comportandoci a dovere; come – sostengono alcuni charedim – è stata colpa nostra e non di Hitler la Shoah, e magari la colpa è stata proprio quella di provare a tornare in Eretz Israel. Si può considerare quest’illusione come una versione collettiva di quella ”onnipotenza infantile” che come sanno gli psicologi dell’età evolutiva genera il “pensiero magico” dei bambini e anche certi persistenti sensi di colpa per disgrazie con cui il bambino non può fare nulla, come la scomparsa di parenti. Oppure la si può vedere una versione rozzamente laicizzata della responsabilità che nella nostra tradizione solo la Divinità può imporre a Israele per i suoi peccati. Il fatto è che tutta la nostra storia di piccola minoranza dispersa fra gli altri popoli mostra che è la loro iniziativa e non solo la nostra, sono le loro modificazioni economiche e sociali e non solo la nostra etica a dar luogo alle maggiori vicissitudini del nostro popolo. Qualcosa accadde nell’XI secolo nell’Europa renana, nel XV in Spagna, nel XX in Germania per provocare le persecuzioni; non certo nei comportamenti degli ebrei che le subirono.
La seconda illusione, in un certo senso subordinata a questa, può essere definita della proba cittadinanza: se ci comportiamo secondo i modi approvati dai popoli, se ci conformiamo ai criteri e agli usi della società circostante, se mangiamo e ci vestiamo come fanno loro, se adottiamo le politiche prescritte dai preti o dagli intellettuali (che in fondo sono solo la versione modernizzata dei primi), se diventiamo patrioti leali, bravi cittadini indistinguibili dagli altri, ebbene, allora smetteranno di volerci male e farci male, saremo finalmente accettati. Che la maggior parte degli ebrei tedeschi perseguitati da Hitler o di quelli italiani discriminati da Mussolini fossero per l’appunto bravi borghesi che si vestivano, ascoltavano musica e leggevano poesie come gli altri, che avevano partecipato con onore allo sviluppo del paese e magari si erano conquistate medaglie in guerra; che gli ebrei dell’URSS fossero più socialisti dei loro concittadini, eppure che gli uni e gli altri siano stati perseguitati, espulsi, distrutti – non ha insegnato molto a chi nutre quest’illusione. E non vale l’obiezione che fascismo, nazismo e comunismo erano dittature totalitarie e in una democrazia questa cose non accadono. Anche Dreyfus era un ottimo cittadino e soldato di una patria democratica, ma questo non impedì la sua degradazione e condanna.
La terza illusione, più specificamente legata a Israele, è quella del buon vicinato: se convinceremo gli arabi che non siamo dei cattivi vicini, anzi, che la nostra convivenza può essere di vantaggio per loro, e che comunque noi non vogliamo loro male, anzi nutriamo simpatia e vogliamo essere amici, il conflitto che dura da un secolo si calmerà finalmente e tutti vivremo felici e contenti. Secondo questa illusione, i responsabili del sionismo hanno avuto troppa fretta, o troppe cattive maniere, o troppa incapacità di mostrare la loro volontà di collaborazione, troppa indifferenza per la nobile cultura araba e di qui è nato il conflitto: questione di equivoci, naturalmente, oltre che colpa nostra, secondo l’illusione numero uno. Bisogna dunque rimediare: se mostreremo la nostra volontà di amicizia, se dunque faremo dei passi indietro e daremo dei segnali di non voler essere troppo ebrei in Israele ma ci sforzeremo di assumere un basso profilo e un colore neutro, se dunque rinunceremo all’inno (e magari, come suggerisce ironicamente Lucrezi, anche alla bandiera, allo stemma nazionale, al nome del paese), come d’incanto gli arabi capiranno che siamo buoni come certamente sono loro e (secondo l’illusione numero due), rinunceranno a far la guerra contro di noi e saranno finalmente disponibili ai magnifici destini e progressivi che si apriranno alla nostra collaborazione. Che questa sia un’illusione, perpetuata da decenni da alcune anime belle ben decise a ignorare la realtà, è dimostrato dalla lunghezza e dalla durezza del conflitto. Sono cent’anni che gli arabi spargono il nostro sangue – e senza dubbio anche il loro – per espellerci dal Medio Oriente; i vantaggi economici, la buona volontà di alcuni, la pressione internazionale non contano; se ci sono delle interruzioni della violenza queste sono per loro delle tregue in un compito che dev’essere realizzato e lo sarà senz’altro. Ancora in questi giorni, se a Tel Aviv qualcuno manifesta per la pace, a Ramallah si fanno manifestazioni contro la lontanissima possibilità di una ripresa delle trattative.
La quarta illusione, dipendente dalle altre tre, è che degli atti simbolici e anche molto concreti di apertura alle ragioni dell’altro possano disinnescare il conflitto. Andarsene da Gaza o lasciare all’Anp buona parte dei territori liberati nel ’67 non ha affatto diminuito la violenza, anche se la separazione dei popoli può avere un senso strategico. Sostituire la Hatikvah con “Funiculì funiculà”, il Maghen David sulla bandiera con un felafel stilizzato e rinominare Israele “Aranceto” o “Bagni Mariuccia” o come vi pare, non risolverebbe affatto il conflitto. Anzi, tutto ciò sarebbe letto dall’altra parte, così come è avvenuto per tutte le concessioni del passato, come un segno di debolezza e rinfocolerebbe le certezze arabe e la combattività che ne deriva.
E in effetti questa lettura sarebbe giusta: perché rinunciare all’inno che ha segnato tutto il tragitto del movimento sionista e riassume le ragioni dell’iniziativa ebraica dell’ultimo secolo e mezzo sarebbe una sorta di suicidio simbolico. Certo, la Hatikvah non è lo Shemah o il Kaddish, non contiene il cuore religioso del popolo e ebraico se non per cenni (gli accenni a Sion, per esempio, che i riformisti vorrebbero togliere). Ma essa riassume il destino storico che si è assunto il nostro popolo: cancellarlo, per simbolizzare un’improbabile nazionalità israeliana distinta da quella ebraica, sarebbe una ferita gravissima insieme all’identità ebraica e a quella di Israele (o dell’ “Aranceto” prossimo venturo). L’ebraismo, estirpato da Israele, si troverebbe ridotto suo malgrado al ruolo di fossile religioso stranamente sopravvissuto, come lo hanno definito per secoli la Chiesa e in era moderna anche gli intellettuali laici. Israele diverrebbe un paese senza ragione e senza identità, senza progetto, davvero quel residuo coloniale fallito che vedono gli ultrasinistri di tutti i tipi e le nazioni. Ma il suicidio simbolico, è bene ripeterlo, non impedisce affatto la guerra e il tentativo di genocidio: gli ebrei laici e dimentichi di sé furono travolti dalla Shoah come i più sionisti o i più religiosi. Gli arabi continuerebbero ad assalire l’ “Aranceto”, entrerebbero nelle case dei falafalisti o orangisti che fossero e ne sgozzerebbero i bambini, se non si fossero previamente convertiti, e continuerebbero a volere un Medio Oriente Judenrein. Conclusione: abbandoniamo le illusioni, nei limiti del possibile, cerchiamo di essere noi stessi e di assumere con dignità il nostro destino storico comune.
Ugo Volli twitter @UgoVolli