Hannah Arendt

La collana editoriale Mediterranea – che, in virtù del generoso impegno dell’Editore napoletano Luciano e della competenza e dell’entusiasmo dei due direttori, Ottavio Di Grazia e Giuseppe Reale, promette di offrire importanti e innovativi contributi agli studi di ebraistica e interculturalità – si è inaugurata con un testo di Pierpaolo P. Punturello di notevole qualità e alto interesse (come sta a dimostrare il vivace dibattito sollecitato in occasione delle due prime presentazioni del libro, recentemente svolte presso il Centro studi sull’ebraismo italiano di Gerusalemme e la libreria Feltrinelli di Napoli, con la partecipazione dell’autore, dei direttori della collana e di diversi altri esperti di varia estrazione): Una donna ebrea: Hannah Arendt.
Gli aspetti principali del pensiero della Arendt, e segnatamente della sua peculiare impostazione dei problemi connessi all’identità e alla condizione ebraica (particolarismo e universalismo, assimilazione e differenza, ebraismo e germanesimo, sionismo, antisemitismo, religione, democrazia ecc.) sono affrontati, nelle pagine di Punturello, attraverso una ricostruzione ad ampio raggio, di scorrevole lettura e denso contenuto; così come sono rievocate, in una lucida sintesi, i molteplici e contrastanti approcci alla “questione ebraica” che segnarono, tra il XVIII e il XX secolo, il percorso intellettuale di molti tra i protagonisti della cultura europea, ebrei e gentili, ‘amici’ e ‘nemici’, in vario modo e con diverse ‘gradazioni’, del popolo ebraico: da Mendelssohn a Herzl, da Kafka a Buber, da Von Humbolt a Mommsen, da Grattenauer a Kautsky, Wagner, Blumenfeld, Goldstein, Weber, Lazare e altri.
La Arendt, come sappiamo, è tra gli autori preferiti dagli “amici critici” di Israele, e ancor più dagli “anti” o “postsionisti”, che amano additarla ad esempio per le sue posizioni articolate, dubbiose e talvolta severe sul sionismo (al cui processo di elaborazione culturale diede, comunque, un fondamentale contributo). E il suo pensiero resta, a distanza di quasi quarant’anni dalla sua scomparsa, sorgente continua di dubbi e domande, anziché di risposte e certezze. Ma, al di là delle sue discutibili, a volte sgradevoli posizioni sul sionismo e lo Stato di Israele, e di alcune controverse considerazioni sui concetti di colpa e responsabilità, resta di perenne attualità, soprattutto, la sua irrisolta domanda di fondo riguardo al rapporto tra umanesimo ed ebraismo: come può e deve reagire un ebreo, quando veda minacciati – “in quanto ebreo”, ma anche “in quanto uomo” – quei valori fondamentali di umanità (vita, dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà ecc.) che l’ebraismo difende in quanto propri, ma anche in quanto universali, appannaggio dell’intero genere umano?
Alcuni punti del pensiero della Arendt appaiono invece, al giorno d’oggi, superati, come la sua dolorosa e ferma rivendicazione della lingua e dell’identità tedesca quale ineludibile elemento identitario (“Was bleibt? Es bleibt die Muttersprache”, ebbe a dire, in una nota intervista, poco prima di morire: “Cosa resta? Resta la madrelingua”). Su altri ancora, possiamo dire, quarant’anni dopo, che la Arendt sbagliò: soprattutto, nelle sue considerazioni sull’antisemitsimo, rievocate da Punturello, secondo cui il moderno antisemitismo biologico e razziale non avrebbe avuto nulla a che fare con quello a fondamento religioso, alimentato per secoli dall’Europa cristiana. Il suo razionalismo di donna moderna portò la Arendt a voler segnare tra i due fenomeni una cesura che è esistita solo nell’esteriorità, nella veste, non nella sostanza, e l’energia con cui ella difese tale distinzione pare inversamente proporzionale alla giustezza delle sue affermazioni.
Alla comprensione dell’antisemitismo la Arendt dedicò un grande sforzo etico e intellettuale; ma, proprio per l’impossibile proposito di interpretare il fenomeno secondo criteri di ragione, il “nocciolo duro” dell’oggetto dell’analisi restò, ai suoi occhi, opaco.

Francesco Lucrezi, storico