città rifugio…

Nella parasha di Shofetim, letta shabbat scorso, la Torah torna per la quarta e ultima volta sul tema della città rifugio, una sorta di misura di custodia cautelare per chi si è macchiato di un omicidio involontario e deve soggiornare al riparo della vendetta del parente stretto della vittima “il cui cuore è riscaldato, “ki yecham levavò” (Devarìm , 19; 6 ) dal delitto commesso. Leggendo la pagina 10a del trattato talmudico di Makkòt restiamo ammirati dall’elevato livello di urbanesimo di queste città rifugio nelle quali devono essere disponibili servizi che garantiscano al rifugiato una normale struttura di una società ebraica, “…affinché rifugiandosi in una di queste città possa salvarsi la vita (Devarìm, 19; 5): bisogna far di tutto affinché egli possa veramente vivere…” (T.B. Makkòt 10a). Ancora oggi nella libera e civilizzata società occidentale le condizioni delle nostre carceri sono sempre più inaccettabili e la dignità dell’uomo non ha più alcun valore. I nostri Maestri si sforzano di trasformare anche una situazione tragica e oppressiva in una speranza di vita. Vita nel senso pieno del termine. Un esilio quindi che non deve significare una prigione o un campo di concentramento. E dove è perfino previsto che il Maestro segua il suo discepolo assassino in questa diaspora per non lasciarlo senza lo studio della Torah.

Roberto Della Rocca, rabbino