L’odio di sé
E adesso si teorizza anche su Moked, con mirata selezione di casistica, l’odio ebraico di sé. La cosa suscita un qualche fastidio in chi non condivide le sue idee e comincia a farsi imbarazzante. Oltretutto, come in una raccolta di figurine, qualche ebreo storicamente vergognoso di sé viene accostato a semplici ebrei critici, magari anche pesantemente critici. Il quadro fa una certa impressione, perché tende a dimostrare che qualsiasi ebreo si opponga alle idee ‘giuste’ di un altro ebreo (che funge da pietra di paragone e modello di perfezione) o si opponga a un certo ‘sistema’ ebraico è di fatto un ebreo che odia se stesso, e non un ebreo che la pensa diversamente o che vuol essere ebreo in modo diverso. Lo sforzo teorizzante sottende la volontà di dimostrare che o si è con Israele ‘senza se e senza ma’ oppure si è odiatori di sé e impliciti traditori della causa ebraica (ne ha scritto Sergio Della Pergola qualche tempo fa su queste pagine – ‘hasbarah’.) È una posizione che suona terrificante. Terrificante come leggere che “diagnosticare” nell’ebreo l’odio di sé significa “provare a decifrare le radici ideologiche e psicologiche della sua posizione e suggerire la sua insostenibilità dal punto di vista ebraico, indicarla come esterna all’ebraismo”. Insomma, qualcuno conosce il metodo scientifico per individuare la malattia dell’odio di sé e sa decidere chi è dentro all’ebraismo e chi non ha diritto di residenza. E ci sono dunque ebrei dal pensiero apolide e diasporico che devono essere espulsi, come ai bei tempi. Questa volta, però, per mano di altri ebrei, puri e perfetti. Siamo di fronte a una lotta per l’emarginazione del più debole e per la presa del potere (solo intellettuale?)? Il confronto di opinioni si sta facendo battaglia personale: per invalidare le idee si insulta e si delegittima chi le esprime. Teorizzare l’odio di sé non è una “diagnosi” (sarebbe psicologismo amatoriale), ma un insulto scientifico nelle mani di soggetti interessati. Terrificante perché si continua nell’assai eccepibile tentativo di mettere la museruola alla libertà di pensiero e di espressione, elevando a norma il pensiero unico e mettendo all’indice il dissenso. Terrificante e offensiva quanto sarebbe la posizione di chi sostenesse che coloro che assumono supinamente certe posizioni assolute sono deboli di spirito e di intelletto, che si lasciano plagiare da grandi lobbies o sono magari finanziati sottobanco dal sistema. Poiché io non mi sento odiatore di me stesso – anche se può capitare che qualcuno in malafede strumentalizzi le mie parole a fini di anti-israelianismo o di puro antisemitismo –, così come non credo affatto che chi non la pensa come me sia plagiato o finanziato da chicchessia per pensare ciò che pensa, insisterei a dire che il confronto sulla politica di Israele (o sul senso del witz) dovrebbe avvenire attraverso la contrapposizione e l’analisi delle idee e dei fatti piuttosto che mediante accuse personalizzate che cercano di individuare abusivamente nell’altro “le radici ideologiche e psicologiche” che detterebbero le sue supposte idee sovversive o autolesionistiche. Io (un io esemplificativo) il mio ebraismo lo vivo meglio sentendomi libero di pensare e dire ciò che penso e dico. Così chiunque ha il diritto di viverlo a suo modo, e nessuno lo accusa di secondi fini né gli ‘diagnostica’ malattie di alcun genere, contagiose o meno. Se però critico un governo di Israele non mi va di sentirmi accusare di lesa maestà o di tradimento e odio di me stesso, o di pensarmi accostato a Weininger che uccidendosi ottenne “il plauso di Hitler”. È come se io cercassi di far prevalere le mie ragioni dicendo che lo stesso sforzo di teorizzazione ai danni di ebrei lo ha usato Hitler per dimostrare la loro inferiorità razziale e la necessità della loro eliminazione. Stiamo superando i limiti della decenza intellettuale e argomentativa. Fermiamoci e facciamo un passo indietro. Credo che nessuno sarebbe d’accordo di applicare gli stessi parametri logici al terreno dell’adesione religiosa, dove si diagnosticasse che chi aderisce alla riforma o al conservatorismo abbandonando il modello tradizionale e originale dell’ortodossia è un ebreo che odia se stesso, tradisce la propria origine e annacqua l’ebraismo fornendo armi al nemico, ossia all’assimilazione. Inviterei pacatamente a un riposizionamento intellettuale, a un ritorno alla tolleranza (absit iniuria verbis) e al rispetto dell’altro. Manteniamo il senso realistico della complessità delle situazioni che analizziamo, piuttosto che rappresentarle falsate dalla semplificazione. Del resto, nessuno può negare che l’ebraismo si esprime al meglio nella dialettica, senza arroganze di parte. Allora, da parte mia garantisco che, pur nella libertà ebraica del mio pensiero, io sarò sempre accanto a chi difende il diritto di Israele all’esistenza e alla sicurezza, ma mi aspetto che chi mi sta di fronte sia sempre accanto a me nel mio diritto a essere rispettato (anche da lui) per quel che penso e quel che dico. Un io esemplificativo, naturalmente.
Dario Calimani