pace…
Leggendo le tremende pagine delle Tokhechòth, delle ammonizioni contenute in questa Parashà, non si può non rendersi conto che queste terribili profezie, previste nel caso in cui il popolo ebraico si allontanasse dalla via della Torà, si sono purtroppo puntualmente avverate, specialmente durante la Shoah. Non intendo minimamente asserire con ciò che la Shoah sia stata una punizione divina per la scarsa osservanza delle mitzwòth, o che una maggiore osservanza l’avrebbe potuta evitare: sarebbe bestemmia contro la memoria di milioni dei nostri confratelli, morti testimoniando la loro appartenenza all’Ebraismo. Il mio discorso si limita a far notare quanto sia attuale la nostra Torà e quanto, di conseguenza, tutto potrebbe ripetersi se – come a volte sembra – dovessero prevalere le forze del male. Ed allora, come evitare il ripetersi di una simile catastrofe? La risposta sembra banale: ricercando e propagandando la pace. In quanto Ebrei, dobbiamo promuovere una cultura di pace, un insegnamento di pace, una legge di pace. Ma anche su questo è necessario fare chiarezza: sulla stessa parola “pace” non c’è univocità, non c’è accordo; e troppo spesso noi stessi non siamo in grado di essere in pace gli uni con gli altri. Quale pace dobbiamo o possiamo propagandare? La risposta sta nella stessa parola che generalmente traduciamo col termine “pace”: “Shalòm”. Non si ottiene alcun risultato duraturo con la pace fatta di patteggiamenti, di rinunce per l’altro, e nemmeno con quella fatta “tollerando” la presenza dell’altro. Il vero “shalòm” si ha quando ognuno si sente più “shalèm”, più completo grazie all’altro. Questo è il messaggio che il mondo deve ancora recepire; ma non fa parte del modo di essere ebraico il propugnare un’idea declamandola nelle piazze, facendo opera di convinzione o proselitismo: il nostro modo di portare avanti un’idea, un insegnamento, un concetto od una legge è quello di diventarne l’esempio vivente. Se ognuno di noi saprà essere “shalèm”, completo, in se stesso, con Ha-Qadòsh Barùkh Hu’, con ogni nostro simile, allora la cultura della pace potrà diventare patrimonio dell’umanità intera.
Elia Richetti, presidente dell’Assemblea rabbinica italiana