Il mese delle occasioni
Osservando le festività del mese di Tishrì con uno sguardo d’insieme, notiamo come esse siano racchiuse fra due inizi. La prima ricorrenza, Rosh haShanah (Capodanno), segna l’inizio di una nuova annata sul calendario, con tutte le speranze e aspettative che ogni novità porta con sé. Ma anche l’ultima delle giornate festive, Simchat Torah (Gioia della Legge), segna un inizio: qui si tratta di ricominciare daccapo la lettura pubblica del Sefer Torah, con tutto lo Studio che l’accompagna. Colpisce senz’altro il fatto che i due inizi, del Calendario e della Lettura, non coincidano. Contro ogni logica apparente: sarebbe stato appropriato che il capitolo della Creazione del mondo (Bereshit) venisse letto il giorno di Rosh haShanah, anniversario della Creazione medesima.
Eppure, i Maestri hanno voluto diversamente. C’è chi spiega la dilazione come un doveroso atto di riguardo per il Sefer Torah: non sarebbe stato dignitoso cominciare una lettura per poi interromperla subito a causa dei Mo’adim. Ma c’è chi dà un’interpretazione diversa. Lo Studio della Torah deve essere intrapreso con gioia, perché la Torah stessa è gioia. Per questo occorre attendere la festa di Sukkot, avere prima sperimentato l’atmosfera gioiosa della Sukkah, il tripudio festoso del Lulav, per poi iniziare il nuovo ciclo di Parashot. Lo Shofar di Rosh haShanah, i Giorni penitenziali e il digiuno di Kippur, con il loro carattere austero, ci richiamano invece il rigore del comportamento. Rigore dell’Azione e Gioia dello Studio sono i due principi fondamentali dell’ebraismo: non a caso essi vengono riaffermati al principio di ogni anno. Rosh haShanah e Yom Kippur vengono prima di Sukkot e Simchat Torah: se non vi è Gioia non vi può essere Studio, ma se non vi è Rigore non vi può essere Gioia. Il mese di Tishrì è chiamato nella Tradizione Yerach ha- Etanim “mese dei Saldi” (I Re 8), cioè dei forti perché, come spiega il Talmud “in esso sono nati i Saldi del Mondo” (Trattato Rosh ha- Shanah 11a), i Patriarchi che sostengono il mondo con i loro meriti. Ma la parola italiana “saldi” può paradossalmente essere intesa anche nel suo significato più quotidiano. I Maestri dicono che Tishrì è “un’occasione” da non perdere per riavvicinarsi a D. Se nel corso dell’anno la Provvidenza non ci manca, pur tuttavia in questo mese Egli è più vicino all’Uomo: “cercate il S. mentre si trova” (Isaia 55). Il duplice inizio di cui abbiamo parlato vuole rinsaldare la nostra fede e il nostro impegno ebraico. Prendiamo l’abitudine di guardare ad ogni cosa con l’ottimismo che caratterizza qualsiasi novità: come se tutti i giorni dell’anno fossero altrettanti inizi! Come è noto, la nostra tradizione riconosce l’esistenza di due Torot, la Torah scritta, ovvero la Bibbia propriamente detta, consegnata a Moshè sul Monte Sinai e nella Tenda della Radunanza e da lui messa immediatamente per iscritto, e la Torah Orale. Quest’ultima raccoglie tutte le interpretazioni della Torah scritta che Moshè tramandò oralmente ai suoi discepoli.
Tali interpretazioni furono a loro volta messe per iscritto in un’epoca molto successiva, allorché si cominciò a temere che le persecuzioni avrebbero potuto privarci di questa eredità spirituale qualora non la si fosse consegnata alla carta. Nacque così la stesura della Mishnah e del Talmud. Naturalmente, il nostro approccio alla Mishnah e al Talmud ha regole e modalità assai diverse da quello verso la Bibbia. La qedushah del Sefer Torah consiste nei canoni fissi attraverso i quali noi tramandiamo la Scrittura: è quindi una qedushah oggettiva. La Torah orale, invece, “santifica il pensiero umano, il cuore dell’uomo e spalanca orizzonti nuovi all’ispirazione della qedushah” ed è dunque una qedushah del soggetto. Non c’è dubbio che la qedushah della Torah scritta, in quanto fatto oggettivo, preceda quella della Torah orale per importanza: il Sefer Torah incarna la qedushah stessa della Parola di D. Ma è anche vero che, su un piano strettamente metodologico, si può pervenire alla qedushah della Torah scritta soltanto se prima si è passati attraverso quella della Torah orale: in pratica, attraverso la Mishnah e il Talmud il cui studio richiede, come si è detto, attenta analisi e riflessione. Sembra che l’andamento delle festività autunnali voglia in qualche modo richiamarci questo principio fondamentale dell’ebraismo. Alla qedushah del Sefer Torah si perviene soltanto alla fine, festeggiando Simchat Torah. Prima si deve affrontare un attento studio di noi stessi, nel lungo periodo penitenziale segnato da Rosh ha-Shanah e Kippur. Questa preparazione è paragonabile ai meccanismi mentali dello studio della Torah orale, fatti di domande e risposte. Non a caso la tradizione adopera lo stesso termine, Teshuvah, per indicare tanto il “pentimento” che la “risposta”. Ma per giungere alla qedushah, occorre anche la ‘anavah, l’umiltà. Se la Teshuvah misura la nostra vicinanza a D., come dice il Profeta: “invocateLo quando è vicino” (Isaia 55, 6), la ‘anavah ci aiuta invece a capire quanta strada dobbiamo ancora affrontare per arrivare a D.
La ‘anavah, ben inteso, non è autoannullamento, accettazione passiva di una presunta nullità; la ‘anavah è consapevolezza attiva della propria finitezza. La ‘anavah è rinuncia ai limiti di un tetto (la dimora nella Sukkah) e tensione verso l’alto (agitazione del Lulav). Le iniziali di queste tre virtù, Teshuvah, Qedushah e ‘anavah, formano la parola tèqa’, con cui si indica il suono dello Shofar: teqà’ be-shofar gadol le-cherutenu, “suona il grande Shofar della nostra Redenzione”. Le-Shanim Rabbot, Tovot u-Mtukkanot.
Rav Alberto Somekh, Pagine Ebraiche, ottobre 2012