30 anni – Nel nome di Stefano

Il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni e il presidente della Comunità ebraica della Capitale Riccardo Pacifici hanno annunciato che nella giornata di mercoledì si svolgerà, alla presenza del Presidente della Repubblica, una solenne celebrazione per ricordare il feroce attacco terroristico che colpì la sinagoga di Roma 30 anni fa.
Nove ottobre 1982: è da poco terminata la funzione di Sheminì Atzeret quando, all’uscita del Tempio Maggiore, un commando di terroristi palestinesi attacca con granate e mitragliatrici la folla. Stefano Gay Taché, 2 anni, è colpito a morte. Al suo fianco i genitori e Gadiel, il fratello di due anni più grande che riuscirà a sopravvivere soltanto dopo una lunga e drammatica battaglia nelle corsie d’ospedale. Complessivamente i feriti saranno alcune decine. Degli assassini nessuna traccia. Abdel Al Zomar, condannato all’ergastolo dalla giustizia italiana, vive in Libia dalla metà degli anni Ottanta. È un libero cittadino. A trent’anni dall’attentato sembrano finalmente maturi i tempi per iscrivere il nome di Stefano tra le vittime del terrorismo solennemente menzionate dal Capo dello Stato ogni 9 maggio al Quirinale. Un obiettivo che in questi anni ha visto molte persone stringersi al fianco della Comunità ebraica di Roma, alla famiglia Taché e a tutte le persone colpite dall’immenso peso di quella tragedia. “Nel 1982, davanti alla sinagoga maggiore, durante la celebrazione di una festa ebraica, la vita di un bambino di due anni fu stroncata da una banda di terroristi che non ha esitato ad ucciderlo in nome della guerra al sionismo. Il nome di Stefano Gay Taché – ha scritto il vicedirettore del Corriere della sera Pierluigi Battista in un suo recente intervento – non può essere più escluso da quella lista”.

30 anni – Roma non dimentica

In questi giorni ho ricevuto il numero di ottobre di Pagine Ebraiche. C’è una foto che mi ha commossa e allo stesso momento mi fatto pensare molto. Sono sicura che di quella foto molti di voi non sanno chi sono i protagonisti. E’ la foto dell’attentato al tempio, quella con il vigile che tiene in braccio un bambino ferito e vicino c’è un signore dai capelli biondi. L’uomo con i capelli chiari è David Di Segni, ex deportato a Mauthausen, unico superstite di una numerosa famiglia, tutta deportata. Era mio zio. Quella foto rappresenta quello che è stata la nostra storia del Novecento, la sofferenza della nostra comunità e non a caso un sopravvissuto alla Shoah stava accanto a una vittima di quel vile attentato. La storia della sofferenza si ripete, ma la sofferenza viene protetta da coloro che hanno già sofferto. Scusate se mi sono permessa questa interpretazione, ma credo che quella sia una fotografia piena di significato e pochi se ne possono rendere conto. In qualche maniera potrebbe essere sottolineato. Non so chi leggerà queste mie righe, ma vorrei almeno rivolgermi al direttore di questo giornale. Scusate ancora il disturbo, un cordiale Shalom.

Grazia Di Veroli