Moshè …

In questo Shabbàth leggiamo come Parasha il brano di Shemòth in cui Moshè, implorando il perdono divino per il peccato del vitello d’oro, suggerisce a Ha-Kadòsh Barùkh Hu’ alcuni motivi per non distruggere il popolo d’Israele. Il motivo addotto per leggere proprio questo brano è generalmente – e semplicisticamente – il fatto che subito dopo vengono date alcune regole sui Mo‘adìm; però è una motivazione piuttosto debole, perché sarebbe bastato cominciare con le regole sulle feste, eventualmente aggiungendo dopo il brano immediatamente successivo, che tratta della manifestazione luminosa del rapporto di D. con Moshè (il fatto che il suo volto irradiava), e delle regole dell’anno sabbatico, che a loro volta si collegano col concetto di ricorrenza voluta dal Signore. Perché allora si è stabilito di collegare le regole delle feste a ciò che le precede, piuttosto che a ciò che le segue? Un accenno ce lo fornisce Moshè stesso, quando, rivolgendosi a D., sottolinea che il popolo che Egli vorrebbe distruggere è il popolo “ashèr hotzè’tha mi-Mitzràyim”, “che hai fatto uscire dall’Egitto”. Quest’espressione è stata analizzata dai nostri Commentatori. C’è chi lo interpreta quasi come un gettare la colpa su Ha-Kadòsh Barùkh Hu’ stesso: chi Te lo ha fatto fare di liberarli, non sapevi che erano ancora legati ai concetti imparati in Egitto, con la necessità della visibilità di un simulacro, con nella mente l’immagine del toro sacro? E se lo sapevi, perché punirli? Altri Maestri lo interpretano come un modo per impietosire D.: perché distruggerli, dopo che hai fatto così tanto per liberarli? In ambedue le spiegazioni, ciò che risulta è che nel perdono richiesto c’è una necessità storica: se Egli ci ha liberati, deve accettare che il popolo commetta errori; oppure: se Egli ci ha beneficiato con la liberazione, esiste un perché storico che non può essere distrutto da un episodio, sia pure grave come il vitello d’oro, ma estraneo al disegno, al programma che deve realizzarsi. Ed è questo il programma che Moshè richiama: “ashèr hotzè’tha mi-Mitzràyim”, il fatto che Israele deve sempre testimoniare che è D. che ci ha fatti uscire dall’Egitto. Israele esiste in quanto è il testimone dell’azione di D. nel contrastare l’asservimento dell’uomo ai falsi idoli, il suo soggiacere alle ristrettezze (Mitzràyim – Egitto, e metzarìm – ristrettezze – sono scritte nella stessa maniera) mentali e fisiche della contingenza. L’uscita dall’Egitto è il richiamo all’umanità perché riconosca che i grandi capi, i grandi tiranni, sono idoli di carta di fronte alla Volontà divina, quella volontà che vuole tutte le creature libere ed uguali al Suo cospetto; è un richiamo ad elevarsi al di sopra delle necessità materiali quotidiane per introdurre nella propria vita l’idea di D., per dedicarsi ad elevare il pensiero e l’azione a scopi non solo materiali. Questo è ciò che Israele deve fare, e per questo scopo è necessario che superi tutte le contingenze anche negative del suo operato. L’osservanza delle mitzwòth è quindi anche una garanzia della sopravvivenza del popolo ebraico nel corso dei millenni.

Elia Richetti, presidente dell’Assemblea rabbinica italiana