Ladri di futuro
I messaggi cinicamente offensivi, nonché deliberatamente diffamatori, che si sono accompagnati alla dipartita di Shlomo Venezia z.l., così come contro l’attività politica di Carla Di Veroli, comparsi sul web, insieme al riproporsi, in varie forme e in diversi contesti, della deliberata e sfacciata apologia del fascismo, hanno rilanciato la discussione sui rischi ai quali è esposta la nostra libertà così come sulla necessità di una più solida normativa che punisca le manifestazioni di denigrazione della democrazia e di sfacciato razzismo. Oggi stesso, domenica 28 ottobre 2012, in occasione della ricorrenza del novantesimo anniversario della marcia su Roma, l’episodio che sancì la trasformazione del fascismo, in quanto movimento politico, in regime liberticida, sono previsti, ed in pubblico, eventi e manifestazioni a “imperitura memoria”. La sede operativa – e ideologica – rimane Predappio, paese natale di Mussolini, laddove si trovano anche le sue spoglie, divenuto luogo di un lugubre culto, di un macabro pellegrinaggio, entrambi peraltro in piena sintonia con lo spirito mortifero del movimento politico di cui il “duce” degli italiani fu il fondatore. Se nella piazza principale del comune romagnolo è prevista un’“adunata” affettuosa dei camerati di ieri e di oggi, il fermento anima altre città d’Italia, come Perugia – da cui si originò a suo tempo la marcia sull’Urbe – , dove si sta svolgendo un “convegno di studi” («Marciare su Roma»), promosso da una decina di organizzazioni della galassia neofascista, più o meno assortite e variamente note alle cronache, tra le quali l’Associazione d’Arma Fiamme Nere, l’Ordine dell’Aquila Romana, l’Associazione Decima Flottiglia Mas-Rsi e così via. A Varese, coniugando manganelli a gastronomia, è programmata una cena commemorativa. Altro, più o meno degno di nota, è in corso di svolgimento nella penisola. Ovviamente l’occasionalità celebrativa si accompagna alla perduranza delle motivazioni ideologiche di fondo: il fascismo, sostengono i suoi apologeti, non si è concluso con l’inglorioso crollo del regime mussoliniano prima e con la fine della Seconda guerra mondiale poi. La sua visione del mondo, il suo feroce antiegualitarismo, la sua concezione apocalittica delle relazioni umane, la sua dottrina razzista, l’esaltazione della violenza come essenza “pura” dell’uomo, sono tutte cose che appartengono alla nostra contemporaneità, sembrano volerci ammonire quanti dichiarano, apertamente e spregiudicatamente, di rifiutare la democrazia come “sifilide dello spirito moderno»”(Pino Rauti). A questa piccola esplosione di nostalgia, una componente essenziale nelle motivazioni rancorose del neofascismo nostrano, si lega quindi la diffusione, in sé forse ancora più inquietante, del “fascismo del terzo millennio”, così come si autodefinisce quello animato da un circuito che trova in CasaPound, “associazione di promozione sociale”, in realtà vero e proprio movimento politico, un suo caposaldo essenziale. Di fatto nostalgici e “innovatori”, passatisti e futuristi, sono due facce della stessa medaglia. Non tutto è ingenuamente riconducibile ad una sola centrale operativa, e neanche ad un unico pensiero, ma è certo che dietro l’apparente pluralismo delle posizioni c’è il filo nero di una comune identità. Parte integrante, mai venuta meno, di questo modo di essere, è la pervicacia del pensiero che sancisce l’inesistenza dell’umanità, sostituita dalla presunta concretezza delle razze, rivendicando inoltre l’ineguaglianza che vigerebbe tra di esse e la gerarchia “naturale” che ne dovrebbe riordinarne la presenza su questa terra. Dentro questa cornice di merito l’antisemitismo rivela la sua consustanzialità al fascismo, sia da un punto di vista ideologico che culturale, non rappresentandone la deviazione senescente ma piuttosto il compimento ultimo, il momento più tristemente autentico. Della dottrina dell’odio nazionalista e di razza l’avversione contro gli ebrei ne è pertanto la cornice. Il nesso tra antisemitismo e negazionismo (quest’ultimo da intendersi come l’insieme di posizioni pseudo-scientifiche e di atteggiamenti falso-storici che negano l’evidenza materiale e fattuale dello sterminio delle comunità ebraiche europee negli anni del dominio nazi-fascista) riposa nella necessità dirilegittimare il primo facendo ricorso alla rimozione della catastrofe del genocidio, il frutto maturo del terrore totalitario. Quando si parla di fascismo e di neofascismo è quindi bene sapere che ci si concentra su qualcosa che è indissolubilmente legato non solo al pregiudizio contro gli ebrei ma anche alla sua traduzione in politiche, di discriminazione prima e di persecuzione poi, perseguite dallo Stato quand’esso si fa regime dell’intolleranza. Si tratta della terribile novità che il Novecento ci ha consegnato: il razzismo sterminazionista realizzato apertamente da una pubblica amministrazione, con il consenso, più o meno compiuto e consapevole, della grande maggioranza della popolazione. In altre parole, la partita non è chiusa. Non basta dirci, infatti, che ci si trova dinanzi a manifestazioni minoritarie, di nicchia, destinate a non raccogliere ulteriore eco. Ogni fascismo è nato in tali vesti per poi, una volta trovate le condizioni utili e necessarie, dettate dalle trasformazioni storiche, mutare in sistema e regimi di massa. Una ferita aperta, per rimanere ai giorni nostri, è la deriva che da alcuni anni sta conoscendo l’Ungheria. Sulla sua scia parrebbe purtroppo essersi incamminata anche la Grecia. Alle rabbiose, truculente e livorose espressioni di piccoli gruppi si lega infatti l’acquiescenza con la quale queste vengono raccolte da parte di quanti – e possono essere molti – vivono con crescente insoddisfazione la crisi delle democrazie. Ai giorni nostri, oltre a un problema di ordine quantitativo (l’incremento delle manifestazioni di odio razzista, di antisemitismo nonché di avversione verso le forme della partecipazione democratica), sussiste una più generale urgenza, quella di porre un freno alla rassegnazione, ai limiti della condiscendenza, che in questi ultimi due decenni è andata sostituendosiall’indignazione e alla condanna. Quasi che ci si trovasse dinanzi ad una sorta di male tanto incurabile quanto ovvio, con il quale convivere. In Italia il declino dell’arco costituzionale, delle culture politiche che avevano sancito la nascita e il faticoso sviluppo di una Repubblica libera dalle incrostazioni della barbarie, si è accompagnato ad una secca riduzione degli anticorpi in seno alla collettività: certi discorsi, un tempo impensabili perché sconfitti con la guerra medesima, di cui erano stati la causa diretta, sono oggi tornati in auge. La reviviscenza del negazionismo, di cui si è fatta ripetuta menzione anche in tanti interventi succedutisi su questa newsletter, ne è una sorta di indice, ovvero di riscontro diretto. In poche parole, a rischio di semplificare, maggiore è la propensione a negare l’evidenza della Shoah, minore è il grado di autonomia e di libertà degli individui. Si tratta di una equazione morale poiché il negazionismo è, in quanto costrutto ideologico, uno strumento per imprigionare le persone dentro un perverso meccanismo di credenze mistificanti, trasformando la storia in un credo superstizioso. La risposte da dare a queste derive sono tuttavia complesse, non potendo essere ricondotte ad un solo strumento. Esiste un problema di pedagogia civile, che rimanda non solo alla necessità di fare conoscere il passato ma soprattutto di sensibilizzare alla sua conoscenza, in un’epoca dove questa virtù è invece ben poco praticata. Si desidera conoscere tanto più quando ci si vuole emancipare. Esigenza, quest’ultima, scarsamente presente tra molti dei nostri contemporanei, semmai impauriti dalle molte difficoltà che il presente, ed il futuro soprattutto, sembrano presentare. Non è quindi la mancanza di consapevolezza del passato che vincola i più ma piuttosto i timori per un tempo a venire, un’epoca minacciosa alla quale non pensare perché imponderabile e piena di angosce. Il negazionismo, in quanto insulsa rilettura di ciò che è stato, dove tutto è ricondotto ad un complotto, quello messo in opera dagli ebrei a danno della collettività planetaria, trova pertanto terreno fertile. Sulla necessità di porre un freno legislativo molti si sono pronunciati. Il problema è, ancora una volta, tanto più in un regime democratico, di non facile soluzione: dove si pone la soglia tra opinione legittima, ancorché radicale e irritante, e deliberata deviazione patologica, dove al pensiero si sostituisce l’insulto immorale a fini politici? Chi ha lavorato sull’analisi del negazionismo, proprio perché bene ne conosce l’insidiosa pervasività, sa come esso non sia un monoblocco, dai perimetri definiti, come tale identificabile aprioristicamente. Non si creda che sia sufficiente sanzionare l’invettiva. Per questo aspetto gli strumenti già esistono. Piuttosto si pone il problema di capire quali siano e dove si collochino i limiti varcati i quali si innesca un processo distruttivo, per poi agire con i mezzi che la democrazia ci offre. Tra questi, va da sé, anche quelli della repressione penale. Il tema, comunque, è di scottante attualità. Sottovalutarlo implica condannarsi a subire un passato che non è mai del tutto “trapassato”.
Claudio Vercelli