Un rancido gulasch
L’Ungheria è un paese al centro dell’Europa, sia la sua posizione geografica ma anche per la sua storia. Dal 2004 è membro dell’Unione europea. Le vicende dell’insediamento ebraico, nell’ultimo conflitto mondiale, sono note. Se nel 1941 vivevano nei territori della Grande Ungheria 785mila ebrei, di cui 400mila magiari, con la fine della guerra non ne erano rimasti che circa 206mila. La grande mattanza si svolse tra il marzo del 1944 e il gennaio del 1945, con l’attivo impegno del Nyilaskeresztes Párt – Hungarista Mozgalom, letteralmente il Partito delle croci frecciate – movimento ungarista di Ferenc Szálasi. La partecipazione dei carnefici locali, istigati e protetti dai nazisti, fu volenterosa e, purtroppo, efficace. Su quanto il Danubio si sia tinto di rosso in quei terribili dieci mesi di tragica oppressione e su come Auschwitz fosse divenuta la meta ultima per centinaia di migliaia di persone si sono versati, e a ragione, fiumi d’inchiostro. Quella storia è nota, in buona sostanza. Il paese, dopo la sconfitta, fu trasformato in una cosiddetta democrazia popolare, nazione satellite dell’Unione Sovietica. Di fatto,negli anni che andarono dal 1946 al 1989, non solo un’insopportabile cappa politico-ideologica ma anche un conformismo intellettuale spinto al parossismo impedirono un riesame critico del proprio recente. L’antifascismo di Stato concorse a rimuovere ogni orizzonte problematico, semplicemente celebrando l’apologia del presente “socialista”. Quando l’Ungheria si liberò dal nodo scorsoio della sudditanza a Mosca, con la caduta del muro di Berlino, molti dei problemi che fino ad allora non erano stati affrontati, quindi, si riproposero inesorabilmente con la loro forza. Tra questi anche il rapporto con la componente ebraica della popolazione. L’Ungheria ha una tradizione e una storia robustissime. Ne è parte integrante l’insediamento ebraico, che risale al III secolo dell’era volgare, precedente alla stesso stanziamento magiaro, che si stanzializzò su quelli che sarebbero divenuti i propri territori nazionali solo seicento anni dopo. Al primo censimento, effettuato nel XVIII secolo, risultavano circa 5mila ebrei. Nei cento anni successivi la crescita della comunità fu prima costante e poi sempre più accelerata. Se nel 1805 aveva superato i 125mila membri, cinquant’anni dopo era corrispondente al 3,7% (340mila persone) dell’intera popolazione ungherese. Nel 1880 era pressoché raddoppiata, raggiungendo la considerevole cifra di poco meno di 625mila elementi, mentre trent’anni dopo, su ventuno milioni di ungheresi 910mila erano ebrei. Benché la situazione demografica fosse in decisa evoluzione non altrettanto si poteva dire dell’estensione dei diritti civili, poiché la loro concretizzazione, attraverso gli statuti emancipatori, si compì tra il 1867 e il 1895. Peraltro a questo relativo ritardo, rispetto ai paesi liberali dell’Europa atlantica, si accompagnava il pieno inserimento degli ebrei nella vita economica, potendo svolgere ruoli di avanguardia nella trasformazione del paese, che nella seconda metà dell’Ottocento ancora scontava i ritardi derivanti da una forte presenza dell’aristocrazia terriera. Questi, in estrema sintesi, i precedenti. Per venire ai giorni nostri, se vogliamo cogliere alcuni situazioni indice dobbiamo rivolgere l’attenzione alla condizione dei rom. La quale, pur scontando molte differenze di fondo con il solido insediamento ebraico, è parte della montante questione delle cosiddette “minoranze nazionali”, che nello Stato danubiano si va ripresentando con crescente drammaticità. I rom sono grosso modo 800mila, prevalentemente presenti nelle regioni nord-occidentali del paese, quelle economicamente più depresse. La loro esclusione sociale è un fatto che è andato incrementando dal 1989 ad oggi. Ad essi, come agli ebrei, è rivolta l’accusa di essere corresponsabili della crisi economica in cui versa l’Ungheria. E qui veniamo al dunque. La destra “liberale” governa il paese che, formalmente, rimane una Repubblica democratica, fondata sul parlamento monocamerale. Di fatto, dal 1º gennaio 2012, con l’entrata in vigore della nuova Costituzione, il nome dello Stato è diventato “Ungheria” mentre la parola “Repubblica”, che prima ne caratterizzava il nome completo, è stata cancellata. I deputati del parlamento ungherese, dagli originari 386, sono stati ridotti a 199 membri. Le prerogative dell’opposizione sono state fortemente limitate. Il partito di maggioranza, il Fidesz – Unione Civica Ungherese, nato nel 1988 e poi trasformatosi nel corso degli anni, tra scissioni e ricomposizioni, esprime l’attuale premier, Viktor Orbán. Nelle elezioni politiche del 2010, con il tracollo dello screditato Partito socialista, l’alleanza promossa da Orbán ha ottenuto la maggioranza del 52,73% dei voti, assicurandosi così, in virtù delle leggi elettorali, i due terzi dei seggi parlamentari e l’autosufficienza nella definizione e nell’approvazione di una Costituzione dai tratti decisamente autoritari. In due anni di governo si è succeduto il varo vorticoso di una selva di leggi, molte delle quali di stampo nettamente illiberale, in contrasto con i vincoli imposti dall’appartenenza all’Unione europea: regolamentazione, con indirizzo restrittivo, della libertà di stampa; limitazione dei poteri e del numero delle autorità indipendenti; rimozione del presidente della Corte costituzionale; controllo sistematico sulla magistratura e sulla Banca centrale; statuizione in senso conservatore nel merito delle libertà civili. Alla destra del Fidesz, che è una formazione politica conservatrice, populista, anticomunista e “cristiana”, si colloca lo Jobbik Magyarországért Mozgalom, il Movimento per una Ungheria migliore, attivo dal 2003, avendo raccolto l’eredità del precedente Partito ungherese giustizia e vita» Di fatto lo Jobbik è una organizzazione su posizioni non solo populiste ma ipernazionaliste, basate sulle dottrine del radicalismo di destra. Per molti osservatori la sua ideologia di riferimento è il neofascismo. Alle elezioni del 2010 ha ottenuto il 16,7% dei voti e ben 47 seggi. Tra le sue file milita l’avvocatessa Krisztina Morvai, eurodeputata, che ha inaugurato il suo mandato a Strasburgo affermando che «sarei contenta se coloro che si definiscono fieri ebrei ungheresi se ne andassero a giocherellare con i loro piccoli peni circoncisi, invece di insultare me». Il rapporto di stretta contiguità che Jobbik intrattiene con la Guardia ungherese, un’organizzazione paramilitare, è oggetto di molte polemiche. La Guardia, infatti, è accusata di sostenere e diffondere posizioni razziste, e quindi antisemite, avverse alla popolazione Rom nonché omofobe. In questo quadro, tra le altre cose, nei mesi scorsi si è assistito al tentativo di riabilitare la figura di Miklos Horthy, Reggente d’Ungheria dal 1920 al 1944, alleato dei tedeschi (dai quali fu poi deposto con un colpo di Stato), promotore e promulgatore della legislazione antiebraica che ebbe il suo culmine con l’introduzione, nel 1938, da parte del governo di Kálmán Darányi, di numerose disposizioni discriminatorie che, di fatto, prepararono il terreno alle successive deportazioni naziste. L’ideologia di riferimento della destra ungherese è quella turanista (Turan è l’antico nome con il quale i persiani chiamavano la regione centrale dell’Asia), che situa l’origine dei magiari in Asia, in netta contrapposizione agli slavi. Il turanismo, dottrina geopolitica in voga soprattutto ai tempi del post-ottomanismo per parte delle élite dirigenti turche, in Ungheria conobbe in un primo tempo le sue glorie maggiori grazie alle Croci frecciate, durante il periodo tra le due guerre mondiali. In Turchia fu poi fatta propria dal movimento ultranazionalista Bozkurtlar, i Lupi grigi, dalle cui file, per intenderci, veniva quel Mehmet Ali Ağca che attentò alla vita di Karol Józef Wojtyła. Oggi è recuperata dalla destra radicale ungherese con il tacito consenso di quella al governo, in un gioco di ruoli e di specchi molto pericoloso. Il panturanismo è praticato anche dai nazionalisti finlandesi ed estoni, per indicare un più ampio movimento transnazionale, includente popoli diversi, discendenti però da un comune ceppo asiatico, e tra questi, oltre ovviamente agli ungheresi, i baltici, i turchi, i manciuriani, i giapponesi, i coreani e le comunità dell’Asia centrale. Il quotidiano d’area Magyar Nemzet, il secondo in termini di tiratura a livello nazionale, da tempo veicola questa impostazione, che rimanda al principio per il quale «la più antica civilizzazione europea arriva dall’Ungheria». In questo quadro, dove tra l’altro l’euroscetticismo è la moneta corrente dei risentimenti collettivi, il cattolicesimo tradizionalista trova nuova ispirazione e linfa. Poiché la vera cornice ideologica, in Ungheria come negli altri paesi dell’Europa centrale, della reviviscenza del fascismo riscontra nel riferimento alla dottrina cattolica più regressiva i suoi corollari imprescindibili. I magiari, secondo questa impostazione, sono un popolo che somma su di sé la benedizione divina, in quanto duplici depositari: da un lato dell’onore della difesa del sacro altare e, dall’altro, della matrice profonda del sangue europeo, che rinvia addirittura ai sumeri, agli sciiti e agli unni (non si cerchi al riguardo una coerenza di religiosità e percorsi storici, trattandosi di ricostruzioni al limite della deliberata manipolazione). Le ideologie revansciste correnti in Ungheria hanno ad obiettivo, ça va sans dire, gli «elementi stranieri», che inquinerebbero, con la loro stessa presenza, il paese e i suoi interessi. La gravissima crisi della moneta nazionale, il fiorino, dovuta all’isolamento in cui Orbán ha portato l’economia del paese, è imputata agli ebrei. La Morvai, rivolgendosi alla comunità ebraica ungherese, aveva avuto modo di dichiarare che “la gente come voi è abituata a vedere la gente come noi mettersi sull’attenti ogni volta che date sfogo alle vostre flatulenze. Dovreste per cortesia rendervi conto che tutto questo è finito. Abbiamo rialzato la testa e non tollereremo più il vostro tipo di terrore. Ci riprenderemo il nostro paese”. Questo, per intenderci, è il programma politico che va avanzando in un paese dell’Unione europea.
Claudio Vercelli