In cornice – A porte chiuse

Non fa piacere vedere una sinagoga chiusa, vederne tre è quasi troppo, specie se sembrano sbarrate, trasformate in fortezze da non penetrare. E’ quel che mi è capitato di vedere a Istanbul, dove iniziato col cercare di visitare il grande bet haknesset Ahrida, il più noto e importante della città. Risale all’inizio del XV secolo, e anche se è stato più volte vittima di incendi, pare che mantenga grande fascino con la sua tevà a forma di nave – metafora o dell’arca di Noè o della fuga in nave dalle grinfie dell’Inquisizione –, il suo pavimento di marmo di Marmara, il suo Ehal con le porte ornate di madreperla. Niente da fare: un grande chiavistello chiude il cancello, e le cartacce lì davanti indicano che da tempo nessuno è entrato. Strano, perché è stato restaurato con grande impegno all’inizio degli anni ’90, e potrebbe diventare una meta turistica interessante, pur in una città splendida. Percorrendo qualche centinaia di metri oltre la Ahrida, in direzione del centro città, si arriva alla sinagoga Yanbol, costruita oltre 300 anni fa; pare sia in legno, con quadri di panorama a ornare il soffitto, e un ricco Aron Hakkodesh con la madreperla. In realtà è difficile da individuare perché è piccola e senza neppure una mezuzà all’esterno; la porta sbarrata, il filo spinato sul terrazzino e la telecamera, indicano che si è arrivati al posto giusto. Certo, si può dire, ambedue le sinagoghe si trovano nel quartiere di Balat, abitato da sempre da ebrei, ma poi gradualmente abbandonato con il miglioramento delle condizioni economiche. Ma allora perché anche il bet haknesset di Sirkeci, a due passi dal centro, potenziale ottimo punto di riferimento per i turisti di passaggio, è chiuso con una porta blindata, senza mezuzà, con il solito filo spinato sui muri? Ho ben presente l’attentato alla sinagoga di Nevé Shalom e Bet Israel di una decina di anni fa, ma, leggo, la comunità di Istanbul conta oggi intorno alle 15.000 persone. Sono una goccia fra i 17 milioni di abitanti della città, ma comunque una bella realtà in termini italiani. Certamente in città sono aperte altre sinagoghe, a partire da quella di Nevé Shalom vicino alla torre di Galata, ma la sensazione lasciata dalle altre sinagoghe chiuse, pur essendo possibili mete di tanti turisti sia per essere visitate sia per pregarvi, indicano che la situazione non è tranquilla. E poi l’assenza di mezuzot all’esterno è particolarmente inquietante, quasi fosse imperativo mimetizzarsi, quasi ci si trovasse in una zona di pericolo. Probabilmente dovremmo interessarci di più a quello che succede ai nostri correligionari a Istanbul che vivono in un’economia in crescita, fra gente ospitale e in una città splendida, ma probabilmente non vivono un buon momento.

Daniele Liberanome, critico d’arte