Lo specchio dell’odio

È di questi giorni la notizia dell’ampia azione repressiva svolta dalla polizia italiana, su sollecitazione della Procura di Roma, contro i gestori di un noto sito che costituisce, non solo nel nostro paese, il bacino collettore delle posizioni più marcatamente razziste, ispirate al suprematismo bianco, al nazionalismo esasperato, quest’ultimo di marca rigorosamente etnicista, all’antisemitismo, al negazionismo e al dichiarato filonazismo. L’iniziativa si è tradotta in perquisizioni, arresti, notifiche di mandati di cattura a individui in parte già soggetti a provvedimenti di restrizioni della loro libertà e, soprattutto, nell’oscuramento del sito medesimo. Quest’ultimo, legato ad un portale americano, costituisce dalla metà degli anni novanta uno spazio di comunicazione e di discussione tra i sostenitori di quelle posizioni che fanno dell’intolleranza una dottrina di principio. Non a caso gli indagati sono accusati di incitamento all’odio razziale e di antisemitismo. Fin qui la cronaca. Il giro di vite arriva peraltro dopo un crescendo di aggressioni verbali e di provocazioni, non da ultima la minaccia di passare alle “vie di fatto”. Tra queste si contano anche la pubblicazione di liste di “proscrizione”, nelle quali erano elencati i nomi di docenti universitari ebrei (e anche non tali), accusati della loro “ascendenza di razza”, così come di personaggi pubblici, a partire dal ministro per la Cooperazione e l’integrazione Andrea Riccardi, ritenuti “colpevoli” di interessarsi di immigrazione con l’intenzione, evidentemente, di ibridare e rendere “bastarda” la “razza italica” (la virgolettatura, in questo caso, non può che abbondare).
Quanti si fossero deliziati nello scorrere le tante pagine, con i vari post dei numerosi frequentatori di questa allegra compagnia, i più provvisti di nickname indiscutibilmente “ariani”, avrebbero trovato squadernato l’intero catalogo del pregiudizio antisemitico, abbondantemente condito da un eclatante razzismo e suggellato da tutti i più vieti paradigmi della concezione cospirazionista della storia, un classico dell’apocalitticismo di marca nazista. In buona sostanza, ribadivano ad ogni piè sospinto i non pochi affezionati internauti di questo sito, il male che c’è su questa terra viene in tutto e per tutto dagli ebrei i quali, facendo catenaccio tra di loro, in quanto “razza”, attraverso le loro trame occulte, orientano i destini del pianeta a proprio favore. Si tratta – va da sé – di una partitura già ascoltata o, se si preferisce, di un film già visto in innumerevoli occasioni.
La sua ripetitività, tuttavia, è l’esatto motivo per il quale ci si deve inquietare. Poiché il rischio non si cela quasi mai nell’inedito, ma in ciò che, nel suo rinnovarsi come sempre uguale a sé, diventa una tradizione consolidata. L’antisemitismo contemporaneo risponde a quest’ultimo motivo. E si ibrida, con grande versatilità, alle circostanze, alle situazioni e ai medium della comunicazione rivolti verso il grande pubblico. In altre parole, la pericolosità del sito antisemita non sta mai nelle sole persone che ne compilano i contenuti, e li implementano con inquietante costanza, ma nella sua capacità, attraverso le innumerevoli possibilità di rifrazione che il web offre, di divenire un po’ come il centro di una raggiera dove determinate idee, per quanto deteriori, entrano poi comodamente nella discussione di senso comune. Per essere ancora più chiari, ed entrare nello specifico: si può mettere in gattabuia il neonazista di turno, se ha commesso un reato, ma non ci si può illudere che così facendo il problema della pervasività della sua propaganda venga risolto. Si tratta, in questo caso, di un problema che non si può pensare di affrontare con i soli strumenti della repressione penale poiché esso sfida, in quanto questione che rimanda anche al grande nodo degli effetti culturali e cognitivi della diffusione delle comunicazioni nella società di oggi, ogni sorta di filtro, anche e soprattutto quello di autorità. Del pari, la pur necessaria distinzione tra opinione, ancorché radicale (e come tale più che lecita), e diffamazione deliberata, rischia di rivelarsi un’arma se non spuntata tuttavia molto debole. Già si è avuto modo di dire, in altri interventi, che i confini non sono sempre così agevolmente tracciabili. Lo spazio virtuale tende infatti a eliderli così come ad eluderli. Li elide perché è un vero e proprio habitat della comunicazione dove i vincoli che valgono per l’informazione tradizionale vengono invece travalicati pressoché costantemente. La cybersfera invita i suoi frequentatori, una moltitudine, a farlo, essendo per elezione l’ambito dove tutto può essere detto al di fuori di ogni cautela, ossia indipendentemente da qualsiasi verifica: ognuno può parlare, in una sorta di falsa democrazia della comunicazione. Non di meno essa è anche il contesto in cui ognuno si sente autorizzato a farlo, perché si trova dinanzi a qualcosa che è come un quaderno aperto, dove ogni persona può quindi lasciare scritto qualcosa. Il senso di responsabilità, per ciò che è stato vergato, il più delle volte è prossimo allo zero. Si tratta quindi di un universo dove le parole corrono le une dietro alle altri, e così le immagini e le raffigurazioni. Tutto è colto con il senso dell’equivalenza, nessuna gerarchia di rilevanza si dà, ogni affermazione vale del pari alle altre, in un processo di vera e propria svalutazione dei percorsi che stanno invece alla base della formazione di significati fondati su riscontri oggettivi. Un riscontro di questo fondamentale aspetto lo si ha, proprio in queste ore, con la battaglia dei blog e dei siti in corso parallelamente al confronto armato tra Israele e Hamas. Una veloce scorsa a quella che non è semplice disinformazione ma costruzione di un mondo parallelo, quello che si basa sulla determinazione di una realtà virtuale (tanto più fittizia quanto più accetta), illustra meglio di tanti discorsi quale sia il nesso profondo tra diffusione del pregiudizio e costruzione del consenso nella nostra società: il ricorso alle più trite raffigurazioni, che vorrebbero inchiodare gli israeliani al ruolo perenne di aggressori e, quindi, di carnefici, alimenta l’aspettativa da parte di un vasto uditorio di sentire dire esattamente quelle cose, ossia che le colpe stanno da una sola parte. Perché la semplificazione è la grande cornice del populismo mediatico.
Ancora, l’elusione – altro corno del problema – si manifesta in tanti modi, a partire dalle tecniche che permettono di aggirare gli oscuramenti imposti dalle autorità nazionali attraverso il «mirroring», la riproduzione di un sito, e dei suoi contenuti, in un paese diverso da quello in cui è stato vietato. In questo universo virtuale a sé, con il quale però coabitiamo e, soprattutto, interagiamo ogni giorno, più o meno consapevolmente, bisogna quindi imparare a muoversi con una certa cognizione di qual è la posta in gioco. Diceva un paio d’anni fa Sergio Luzzato, in un articolo comparso sul Sole 24 Ore, parlando della negazione della Shoah (che è un elemento di immediato corredo all’antisemitismo e, oramai, anche all’antisionismo): «le attuali fortune del negazionismo partecipano di una crisi ermeneutica generalizzata, della quale soprattutto meriterebbe discutere: e tanto più in quanto tale crisi investe frontalmente le nuove generazioni. Oggi, chiunque sia insegnante […] sa che i ragazzi hanno un unico criterio di verità: “L’ho trovato su internet!”. Oggi, il digital divide non separa soltanto chi l’accesso a internet non ce l’ha: separa una generazione (la nostra) che ancora si è formata, bene o male, sulla forma-libro e sulla critica dei testi, da una generazione (quella dei nostri figli) il cui nativismo digitale significa un’impreparazione spesso totale rispetto alle insidie conoscitive della rete». Anche per questo il fenomeno dell’odio in formato digitale o, se si preferisce, in modalità web 2.0, non è un aspetto circoscritto, di nicchia, ma piuttosto un grande serbatoio di pulsioni che possono intrecciarsi, all’occorrenza, con le tante derive del senso comune. Ancora una volta vale la pena di ribadire che dall’incontro tra le ideologie dell’avversione e del pregiudizio, che presentano purtroppo un solido ancoramento, e l’indebolimento degli anticorpi della coesione sociale, fatto che si verifica quando le società sono in crisi sociale, economica e civile, può generarsi l’impensabile.
Più semplicemente, forse, può prorompere ed esplodere quanto è stato rimosso. Ma allora, in quel preciso momento, certe cose possono rivelarsi troppo forti per essere combattute con i mezzi abituali di tutti i giorni, correndo il rischio di scoprire a proprie spese che i rimedi correnti non servono più a nulla.

Claudio Vercelli