Gaza, un quadro in costante movimento per una storia non breve

A distanza di qualche settimana dalla conclusione delle tensioni più esacerbate tra Israele e Gaza, e quindi dall’operazione difensiva Pilastro di difesa (altrimenti conosciuta anche come Colonna di fumo), e in concomitanza alla visita di Khaled Meshaal nella Striscia, quest’ultimo leader storico di Hamas, è possibile qualche riflessione sul contesto in cui questi fatti si sono andati ad inserire. Poiché, al di là dell’apparente peculiarità dell’ultimo episodio bellico, dettata dalla necessità di rispondere al persistenze lancio di razzi e ordigni esplosivi sia contro il sud d’Israele (a partire da Sderot) che poi, nel corso del piccolo conflitto innescatosi, contro il centro del paese (ed in particolare Tel Aviv e Gerusalemme) da parte sia di Hamas che del Movimento per il Jihad islamico in Palestina (quest’ultimo prossimo ai sciiti di Hezbollah), c’è una complessa trama da tenere in considerazione. Prima di tutto va considerata la natura di quella entità che conosciamo come “Striscia di Gaza” nel suo percorso storico. Non si tratta di uno Stato sovrano ma di un segmento di terra a sé, oggi rivendicato da una pluralità di soggetti: dall’Autorità nazionale palestinese, che invece trova il suo insediamento legale ed elettorale in Cisgordania; da Hamas; dai gruppi salafiti. Sono quindi tre gli attori politici-militari che ruotano intorno a quell’area. Nella quale vivono poco meno di 1,7 milioni di persone (con un tasso di crescita del 3,3 per cento annuo), nella quasi totalità dei casi di religione musulmana e per circa lo 0,7 per cento di origine cristiana. La storia delle egemonie esercitate in età moderna e contemporanea su circa 360 chilometri quadrati di territorio è piuttosto articolata: dal 1517 al 1918 la Striscia è sotto il controllo ottomano; con la fine della Prima guerra mondiale ricade nel mandato britannico, esercitato, come sappiamo, fino al 1948. In quel contesto Gaza e le aree limitrofe non esprimevano un’identità peculiare. Alla data della nascita dello Stato d’Israele l’intera popolazione che risiedeva sul territorio dell’attuale Striscia non superava gli 80mila individui. Elementi economici di rilievo erano il piccolo porto, l’attività ittica e le coltivazioni. All’interno di un’economia perlopiù di sussistenza. Con la risoluzione Onu 181 del novembre 1947, secondo i criteri di ripartizione del territorio, Gaza sarebbe dovuta entrare a far parte del futuro Stato arabo, che avrebbe visto la sua origine dalla piena applicazione del dispositivo della decisione presa dal consesso internazionale. Sia detto per inciso, che se si parlava della nascita di uno Stato ebraico la risoluzione non identificava del pari, con identica nettezza, la figura politica di uno “Stato palestinese” richiamandosi piuttosto ad una comunità politica indipendente araba. Affermiamo questo per rimarcare, nel merito di quanto concerne la discussione dell’oggi, che ciò che è definita come “identità palestinese”, sia pure allora coltivata da alcune élite locali, avrebbe poi assunto una fisionomia più netta solo con il trascorrere dei decenni. Le cose, sul piano storico, sono poi andate come è risaputo. Nel 1948 l’area intorno a Gaza si trovò isolata dalla più ampia distesa dei territori cisgiordani. Con il 1949, con gli accordi di Cipro e la stabilizzazione delle linee armistiziali, fu pertanto assunta in amministrazione dall’Egitto, così come avvenne per la Giudea, la Samaria e parte della Galilea per parte giordana, in attesa che gli sviluppi politici, diplomatici ma soprattutto militari ne definissero il destino. Questo stato di cose durò fino al 1967. La scelta del Cairo, al pari di Damasco, fu quella di mantenere un controllo amministrativo senza annettere a sé i territori. Da ciò derivò per i loro abitanti l’impossibilità di acquisire la cittadinanza egiziana. La medesima cosa capitò ai profughi arabi stabilitisi nel Libano meridionale e in altre aree del Medio Oriente. Si trattava di una opzione precisa, che individuava nell’uso di coloro che vi si trovavano a risiedere, condannati ad una apolidia di fatto, la possibilità di creare una sorta di “massa di cuscinetto”: profughi in (eterna) attesa di una sistemazione definitiva, vaticinata nella disintegrazione dell’”entità sionista” e nel “ritorno a casa”, e quindi ostili allo Stato ebraico; elementi di aree considerate no-men-lands, vere e proprie zone di interposizione tra sé ed Israele. La “questione palestinese” germina dal connubio tra abbandono delle terre d’origine e mancata risistemazione in quelle di accoglienza. Non è un caso, trattandosi semmai di una strategia politica che aveva ad obiettivo quello di pungolare Gerusalemme il più possibile, sfruttando il diffuso malcontento popolare. Con il 1967 il quadro cambia ancora, subentrando l’amministrazione israeliana che cessa nel 1994, nel quadro degli accordi di Oslo. Ciò che restava di quest’ultima, con l’eccezione di una serie di prerogative riconosciute ad Israele per la sua sicurezza, verrà di fatto a cessare, con l’evacuazione della popolazione civile israeliana insieme allo smantellamento di 21 insediamenti ebraici, nell’agosto del 2005, nell’ambito del piano unilaterale di disimpegno voluto dall’allora governo presieduto da Ariel Sharon. Nella Striscia e nella città di Gaza, governate dall’Autorità nazionale palestinese, ossia dagli uomini di Yasser Arafat, il ritiro israeliano comportò una serie di effetti detonanti. La pessima gestione delle finanze pubbliche e la diffusissima corruzione divennero da subito il fuoco della polemica, delegittimando l’autogoverno palestinese. L’amministrazione di al-Fath, infatti, aveva lasciato buona parte della popolazione insoddisfatta. Alle elezioni legislative del 2006 Hamas, il movimento islamista legato ai Fratelli musulmani egiziani, ottenne il 44 per cento dei consensi, mentre al-Fath non superò il 41 per cento. Hamas di fatto conquistò democraticamente, ossia con l’assenso dei votanti, il controllo della Striscia. Formò un governo che non vedeva la partecipazione degli avversari e l’anno successivo, dopo una infinità di frizioni, di fatto procedette ad un vero e proprio regolamento di conti, con l’espulsione forzata dei propri avversari, dopo una dura guerra civile. Anche da ciò, e dall’avvio di una intensa attività terroristica contro Israele, sono poi derivate le vicende a noi più prossime (il lancio di ordigni contro la popolazione dello Stato ebraico, le tregue temporanee, l’embargo, le azioni militari di Gerusalemme), fino ai fatti delle settimane scorse. Evitiamo di elencarle nello specifico, essendoci per più aspetti ben note. I fatti degli ultimi due mesi arrivano dopo una serie di mutamenti che hanno coinvolto profondamente Hamas. Da almeno quattro anni, infatti, il movimento islamista al potere nella Striscia subisce le pressioni ai fianchi dei gruppi jihadisti e salafiti. Gaza mette in contatto l’Asia con l’Africa e questi ultimi sono in forte attività nel continente nero. Non di meno, Hamas ha dovuto riposizionarsi nei confronti del pencolante regime di Assad. Gli uomini di Ismail Hanyeh, infatti, hanno optato per il sostegno alla Coalizione nazionale siriana, la composita organizzazione la cui esistenza è stata formalizzata a Doha nel novembre di quest’anno, e che raccoglie gli oppositori al regime dell’oftalmologo damasceno. La Siria – e anche questo fatto è abbondantemente risaputo – da sempre ospita “amorevolmente” le élite del movimento islamista. Ma il mutamento del quadro geopolitico, oltre anche ad una non facile dialettica tra i due tronconi di Hamas (quello più “pragmatico”, presente nella Striscia, e quello “ideologico”, riparato a suo tempo a Damasco), ha obbligato a scelte di discontinuità rispetto ai tempi trascorsi. Così anche per ciò che concerne il tentativo che il movimento-regime ha compiuto di ricontrattare i rapporti con i paesi arabi sunniti ed in particolare con il Qatar, uno dei burattinai della crisi siriana, nonché con l’Egitto passato sotto il controllo dei Fratelli musulmani, anch’essi però messi a dura prova dalla contestazione popolare di questi giorni. Il Cairo, durante l’operazione Piombo fuso del 2008-2009, aveva rivelato i suoi reali intendimenti chiudendo il valico meridionale di Rafah. In quegli stessi mesi Teheran aveva invece proceduto a rafforzare il rapporto con Hamas, usando la triangolazione con il Sudan per rifornire Gaza di missili anticarro e razzi a media gittata Fajr 3 e 5. Anche da ciò, e dalla cooperazione con il governo egiziano, derivò quindi l’azione preventiva, nel gennaio del 2009, di bombardamento della colonna di autocarri che stava trasportando il materiale nella Striscia. Ma questo è, per l’appunto, il passato. L’attuale contesto geopolitico regionale è diverso da quello di anche solo tre anni fa. Il riavvicinamento di Hamas alla Fratellanza musulmana, in ascesa il tutta l’area Memo (Mediterraneo-Medio Oriente) nasce infatti da un preciso calcolo d’interesse, che solo l’incistarsi della crisi politica in atto in Egitto in questi giorni potrebbe vederlo rimesso in discussione. Dai riallineamenti politici e diplomatici di Hamas sono comunque derivati scetticismo crescenti e diffidenza. Per l’Iran, che si ritiene escluso, e di riflesso dalla Siria, che si reputa tradita. All’interno della Striscia forze come l’immarcescibile Fronte popolare per la liberazione della Palestina, organizzazione laica ma strettamente legata da una sintonia operativa con il radicalismo islamico, e il Jihad islamico si sono adoperate in tutti i modi per mettere in crisi l’azione politica di Hamas. Ad essi, infatti, vanno attribuiti molti dei ripetuti lanci di razzi contro Israele. La quale da tempo aveva invece stabilito contatti riservati nell’ipotesi del raggiungimento di una tregua stabile. Di fatto, il continuo flusso di armi provenienti dal Sudan, ed in particolare da Yarmouk, a sud di Karthoum, nonché l’ossessivo bombardamento contro i civili israeliani, hanno posto le premesse per i passaggi successivi, tra i quali la morte di Ahmad al-Ja’bari, il vero negoziatore per parte islamista, durante una operazione militare delle forze aeree di Gerusalemme. Lo stallo delle negoziazioni è stato infatti fatale, facendo precipitare una situazione di crisi che già da tempo si era ulteriormente incancrenita. Dopo di che l’insieme della cose che abbiamo preso in considerazione deve a sua volta essere confrontato con altri fronti aperti. Non è probabile che il governo egiziano arrivi a sfiduciare gli accordi di Camp David e a troncare i rapporti con Israele. Non può permetterselo perché ha molte spine nel suo fianco meridionale. La Turchia neo-ottomana di Erdogan deve vedersela con i curdi. L’Iran potrebbe conoscere qualche cambiamento con l’eventuale uscita di scena di Ahmadinejad, a conclusione del suo ultimo mandato presidenziale. Allo stato attuale delle cose, però, tutto si gioca intorno alla Siria. Hamas guarda anche in quella direzione, così come deve porsi il problema, del pari al Cairo e a Gerusalemme, della nuova instabilità che si misura nel Sinai. Il movimento-regime sa di non avere chance di vittoria contro Israele. E tuttavia cerca riscontri simbolici molto netti, per puntellare il suo potere. Non è un caso se si sia autoproclamato “vincitore” nei recenti scontri. Dopo di che, il perdurare della fragile tregua dipende da molti elementi che nessuno dei protagonisti in campo riesce da solo a governare.

Claudio Vercelli