Cultura italiana

Al di là della caso specifico di un’assemblea comunitaria (sulla quale l’Unione informa di ieri ha già riferito dettagliatamente), mi pare valga la pena di riflettere su cosa si intenda esattamente quando si afferma che si ricerca un Rabbino “di cultura e tradizione italiana”. Forse si tratta di una questione eminentemente pratica (occorre un rabbino che parli italiano, o che sia cittadino italiano per poter essere riconosciuto dallo Stato come Ministro di Culto), oppure si ritiene importante che il rabbino conosca la storia dell’Italia, la letteratura italiana, ecc. perché solo così può entrare davvero in sintonia con gli iscritti alla Comunità. O magari si vuole che conosca bene i canti e gli usi locali. O ancora si dà per scontato che esista una specificità italiana nel modo di vivere l’ebraismo e che questa specificità debba essere tutelata. Quest’ultima mi sembra l’ipotesi più interessante e meritevole di discussione al di là dei problemi contingenti. Esiste davvero questa specificità? E in cosa consiste? Difficile parlare di un’alakhà italiana perché la globalizzazione ci ha imposto determinati standard per essere accettati dall’esterno (e abbiamo dovuto rinunciare a tradizioni famigliari tramandate da molte generazioni, per esempio i biscotti di Pesach fatti in casa). Si può forse parlare di un modello italiano: unità nell’ortodossia e Comunità che si propongono come casa comune di tutti gli ebrei indipendentemente dalle loro idee e dal loro livello di osservanza. Non è detto però che tutti i rabbini nati e cresciuti in Italia condividano questo modello; viceversa, possono esistere rabbini non italiani che in esso si riconoscono in pieno: quale di queste due tipologie di rabbino si potrebbe definire più propriamente “di cultura e tradizione italiana?”
Le culture non rimangono sempre uguali a se stesse: si evolvono, mutano, accolgono stimoli provenienti dall’esterno, lasciano cadere usi e costumi che appaiono superati. Inoltre nel corso della storia – e oggi più che mai – l’Italia ha visto l’arrivo di ebrei di diverse provenienze, culture e tradizioni che hanno portato i loro usi, la loro mentalità, i loro valori; dunque la stessa “cultura e tradizione italiana” non è affatto compatta e monolitica, e non è sempre uguale a se stessa. Senza tener conto di ciò si corre il rischio che in nome della tradizione italiana ogni novità che attraversa il mondo ebraico di oggi (per esempio la ricerca di un ruolo più attivo per le donne) sia rigettata come influenza estranea da cui difendersi. In tal caso ci sarebbe da chiedersi: quali cultura e tradizione italiane si vogliano tutelare? Quelle di ieri, di oggi o di domani?

Anna Segre, insegnante