La violenza dell’utopia
Al termine di un dibattito scolastico su Israele e Palestina svolto (contrariamente ai miei timori) in modo pacato e amichevole, con interventi intelligenti da parte degli studenti, arriva l’ultimo discorso che si autoproclama conciliante, una voce femminile che dichiara di prendere le distanze dalle discussioni e lacerazioni create dal mondo maschile. Dunque – dice – basta parlare di Israele e Palestina, di ebrei, cristiani e musulmani, di due popoli e due stati: viviamo felici e contenti tutti insieme appassionatamente in un unico stato per tutti. Seguono applausi scroscianti. Dobbiamo dedurne che la stragrande maggioranza dei presenti fosse a favore dell’eliminazione di Israele? (È quello che il discorso proponeva in sostanza, al di là delle parole gentili). Non credo: le reazioni agli interventi precedenti inducevano a pensare che se alle stesse persone che hanno applaudito fosse stato chiesto se secondo loro Israele ha diritto di esistere probabilmente una larga maggioranza avrebbe risposto affermativamente. Da un lato ci si può rammaricare per il modo con cui spesso in molti ambiti (e non solo a proposito di Israele) si celano proposte inquietanti dietro a un velo ingannevole di pacatezza e ragionevolezza, dall’altro può essere in parte confortante, quando si leggono gli esiti preoccupanti di sondaggi e cose simili, pensare che forse chi ha risposto potrebbe non aver valutato davvero fino in fondo le implicazioni della domanda.
È difficile per i ragazzi rendersi conto di quanto l’utopia sappia essere a volte violenta, con il suo desiderio di sottomettere la realtà a uno schema prefissato e con il suo programmatico rifiuto di prendere in considerazione tutti i fatti che a questo schema non si conformano. È un peccato che questa rigidità intollerante sia rivendicata come specificità femminile.
Anna Segre, insegnante