Delenda Budapest

Torniamo sulle vicende ungheresi motivati in ciò dall’ennesima notizia sulle incontenibili voglie di censura che sembrano esprimere, a piè sospinto, le autorità di quel paese. Dopo le minacce subite dal premio Nobel Imre Kertész è ora la volta dello scrittore magiaro Péter Esterházy, che si è visto tagliare l’intervento ad un programma radiofonico nazionale perché aveva espresso alcune caute critiche nei confronti del governo in carica, presieduto da Viktor Orbán. Esterházy ha causticamente rilevato come non si trattasse per lui della prima volta, avendo già dovuto fare i conti, trent’anni fa, con l’allora regime comunista. Quasi a lasciare intendere che il cambio di casacca dei gruppi dirigenti non ha comportato mutamenti nello stato di libertà vigilata suo e dei suoi connazionali. Che cosa sia l’Ungheria di oggi – formalmente ancora una repubblica parlamentare, membro dell’Unione europea, concretamente un sistema autoritario – non è facile da dirsi. Dal 1º gennaio 2012, con l’entrata in vigore della nuova Costituzione, la definizione istituzionale dello Stato si è infatti ridotta al toponimo Ungheria, Magyarország. La parola Repubblica, che prima accompagnava il nome completo del paese, è stata cancellata nel nuovo testo costituzionale. I deputati del Parlamento ungherese sono stati inoltre ridotti a 199 membri. Nel complesso potremmo parlare di un regime presidenzialistico di radice iperpopulista e nazionalista, con venature reazionarie e fascistizzanti. Le origini di questo processo, acceleratosi negli ultimi due anni, sono tuttavia lontane nel tempo e si riannodano alla situazione di cent’anni fa. Con la fine della Prima guerra mondiale e la dissoluzione dell’Impero austro-ungarico il paese, caratterizzato originariamente da una composizione sociale e culturale multietnica particolarmente vivace, vide amputarsi di due terzi il suo territorio. Il trattato di Trianon, nel 1920, assegna quasi duecentocinquantamila chilometri quadrati agli Stati limitrofi, parte dei quali di nuova costituzione. Così con l’Austria, la Cecoslovacchia, la Jugoslavia, la Romania. All’epoca, mentre almeno quattrocentomila magiari abbandonarono i territori così ceduti, altri tre milioni e mezzo, rimanendo dentro i confini dei nuovi Stati, decaddero da maggioranza politica a minoranza culturale, spesso poi vessata. Da quel momento il nazionalismo ungherese iniziò a prendere sostanza, sostenuto successivamente dall’alleanza con la Germania nazista. Ne seguì, come è risaputo, l’immane tragedia dell’ebraismo ungherese, per buona parte disintegrato nel corso del 1944 e, dopo il crollo del feroce regime delle Croci frecciate, movimento politico collaborazionista, l’occupazione sovietica. Il sofferto periodo della Repubblica popolare d’Ungheria (Magyar Népköztársaság), tra il 1949 e il 1989, fu contrassegnato dalla satellizzazione a Mosca, malgrado la sollevazione del 1956 e le ripetute manifestazioni di opposizione. All’epoca, i trascorsi nazionalisti e fascisti, nonché le politiche antisemite e antitzigane perseguite nel paese tra il 1919 e il 1944, erano stati cancellati dalla memoria ufficiale. Con la caduta del muro di Berlino, nel 1990 lo sciovinismo più fanatico e aggressivo ha ripreso fiato e legittimazione nel discorso pubblico. È stato recuperato a pieno titolo il leitmotiv della Grande Ungheria, affermando che nell’agenda politica nazionale avrebbe dovuto trovare spazio la rinegoziazione dei trattati di pace di settant’anni prima, in quanto troppo punitivi. Di fatto, già con l’inizio dell’epoca postcomunista, il dibattito politico era infatti andato a imbottigliarsi, sempre più spesso, intorno alle ansie di rivendicazione territoriale che minoranze politiche agguerrite cercavano di porre al centro della discussione. Liberali e socialisti, peraltro, si manifestavano incapaci di rispondere a quella che si stava rivelando un’offensiva culturale tanto potente quanto ossessiva. Soprattutto, le due grandi formazioni politiche erano fragili e inette nel governo dei delicati processi economici e sociali che si accompagnavano alla complessa transizione dal collettivismo alla democrazia di mercato. Lo stato perdurante di grave crisi produttiva e finanziaria, la subalternità alle rigide richieste dell’Unione europea (di cui l’Ungheria è divenuta parte dal 2004), la perdita di credibilità dei gruppi dirigenti del centro e della sinistra si sono così sommati in una miscela pesantissima. La destra radicale, o comunque autoritaria, dalla metà del decennio trascorso ne è stata sempre più spesso premiata. Manipolando ed esacerbando i risentimenti collettivi, si è conquistata progressivamente uno spazio fino ad allora altrimenti inaspettato. Già nel 1993 l’estrema destra aveva dato vita ad una organizzazione, il Magyar Igazság és Élet Pártja – Miép, il Partito ungherese della giustizia e della vita, che però aveva raccolto scarso seguito. Nel 1999, a seguito dell’impegno di alcuni gruppi di giovani, quasi tutti studenti, era nato lo Jobbik Magyarországért Mozgalom, il Movimento per una Ungheria migliore, trasformatosi nel 2003 in partito politico. Di matrice ipernazionalista, radicale, antieuropeo, populista ma anche per più aspetti fascista e antisemita, al debutto, con le elezioni politiche del 2006, raccoglie il 2,2 per cento dei voti. Tre anni dopo, alle elezioni europee arriva al 14,8 per cento e alle legislative del 2010 ottiene il 16,47 per cento dei consensi, potendo così contare su 47 deputati al Parlamento nazionale. Il fondatore di Jobbik, Gàbor Vona, già membro dell’altro grande partito di destra, il Fidesz, è anche il leader della Guardia ungherese, un gruppo paramilitare che accompagna le manifestazioni pubbliche del partito. Vona ha impresso una radicalizzazione politica a Jobbik, battendo sui tasti dell’avversione nei confronti delle popolazioni zingare, del pregiudizio antiebraico, del più esasperato antieuropeismo, della lotta al cosiddetto mondialismo e al signoraggio bancario. Tutti cavalli di battaglia delle destre fascistoidi continentali. La forte mediatizzazione che le sue eclatanti prese di posizioni sollecitano gli garantisce una riserva di visibilità e di popolarità altrimenti insperata. I voti gli arrivano perlopiù dai giovani e dalle donne, due categorie pesantemente colpite dalla persistente crisi economica. La proposta politica di Jobbik, basata sulla rivalutazione dell’autoritarismo che aveva connotato il paese negli anni Trenta e Quaranta, e del collaborazionismo con il nazismo, rivendica la necessità di un governo forte, gerarchico, dal pugno di ferro. Diverso, ma solo per alcuni aspetti, è il caso del partito Fidesz – Magyar Polgári Szövetség, l’Unione civica ungherese che, dopo le elezioni politiche del 2010, quando con il 52,73 per cento dei voti è diventato il partito di maggioranza assoluta e quindi l’azionista di governo, ne esprime anche il premier nella persona di Viktor Orbán. Il Fidesz, Fiatal Demokraták Szövetsége (Alleanza dei giovani democratici) nasce nel 1988, su una piattaforma anticomunista. Dopo alterne vicende, tra scissioni, ricomposizioni e nuove spaccature, tre anni fa ha conquistato i due terzi del Parlamento nazionale, procedendo quindi ad una serie di riforme costituzionali tutte in chiave antiliberale. La leadership del partito è costituita da un gruppo ristretto di individui, legati tra di loro da vincoli di ordine amicale, professionale e, in alcuni casi, anche di parentela. Si tratta perlopiù dei figli di una parte della vecchia nomenclatura comunista, dalla quale hanno ereditato privilegi corporativi e facilitazioni d’accesso ai luoghi di decisione. Da questo punto di vista, le posizioni espresse nel corso del tempo dal Fidesz hanno spesso un forte carattere opportunista, fungendo non da elemento del confronto ideale bensì da strumento per mantenere in posizione di saldo ancoraggio al potere del suo ceto dirigente. Il partito ha seguito l’evoluzione dell’Ungheria postcomunista, sfruttando abilmente le contraddizioni maturate in seno alle altre forze politiche. Il passaggio al capitalismo negli anni Novanta ha comportato profondi rivolgimenti nel paese, con la perdita di almeno un milione e mezzo di posti di lavoro e la distruzione del sistema delle cooperative rurali. La popolarità dei primi esecutivi postcomunisti, durati in carica per quattro anni, tra il 1990 e il 1994, espressione della destra nostalgica, si era esaurita nel momento in cui con la morte dell’allora premier conservatore Jósef Antall la compagine anticomunista si era trovata senza leadership. Il Fidesz, composto perlopiù da giovani turchi, uomini già legati al potere ma in posizione subalterna, si era da subito mosso per occupare le posizioni lasciate libere da una destra incapace di andare oltre il revanscismo. Con le elezioni del 1998 la lista quadruplicò i voti, arrivando al 29,4 per cento dei consensi. Da allora la crescita di consensi fu costante, giungendo al 41,6 per cento del 2002, risultato confermato quattro anni dopo. La successiva crisi del Partito socialista aprì le porte alla schiacciante maggioranza ottenuta nelle legislative del 2010. Il partito di Orbán non ha mai espresso un programma politico compiuto, limitandosi ad orientare pro domo sua il malcontento diffuso nel paese, generato sia dalla perdurante crisi economica che dagli errori commessi dalla sinistra di governo ungherese. La sfiducia verso la politica, il disincanto seguito alle speranze nate alla fine degli anni Ottanta, hanno fatto da miscela nella costruzione del consenso di cui si alimenta. Ideologicamente il Fidesz si basa sulla commistione di nazionalismo magiaro, conservatorismo spinto e un forte clericalismo, riconoscendo alla Chiesa cattolica un ruolo di supplenza negli affari politici. Il trittico di riferimento è la formula famiglia-Chiesa-patria. La presenza dei cattolici è, ad esempio, molto pronunciata nel sistema scolastico, dove un quinto delle scuole sono religiose. Il ricorso al nazionalismo è peraltro funzionale allo stornare l’attenzione della popolazione dai molti problemi economici. Orbán e i suoi, attraverso una politica spericolata, ai limiti della provocazione, con la concessione della cittadinanza agli ungheresi dell’estero, presenti come minoranze magiare nei paesi mitteleuropei, ha creato frizioni di ogni tipo. Non da ultimo, il secco peggioramento delle relazioni tra Budapest e l’Unione europea, soprattutto sulla questione del debito che l’Ungheria ha nei confronti di Bruxelles e delle istituzioni internazionali. Il governo di destra usa a tutt’oggi come strumento di ricatto la denuncia del vecchio trattato di Trianon, dichiarando il paese vittima delle macchinazioni del “capitale straniero”. Nelle pieghe di questo discorso il rimando all’antisemitismo è pressoché immediato. Il fantasma della Grande Ungheria ritorna così a fare capolino nei discorsi quotidiani, coniugandosi alle numerosi limitazioni delle libertà in atto da più di due anni. Più in generale la deriva ungherese non può però essere letta solo come un fatto interno al paese. L’ingresso nell’Unione europea, dopo la transizione dal comunismo ad un liberalismo incerto e fragile, ha comportato costi sociali enormi, una sorta di ristrutturazione sociale dagli effetti amplificati, con ricadute di lungo periodo. I ceti popolari ne hanno pagato le conseguenze più onerose. Il populismo ha fatto quindi breccia tra quella grande parte della popolazione che fatica quotidianamente a sopravvivere e che spera che un passato di glorie idealizzate possa compensare un presente di penurie.

Claudio Vercelli

(13 gennaio 2013)