Il figlio dell’altra, fra umanità e disperazione

“Abbiamo già avvertito i tuoi genitori, stanno arrivando”, dice Yassin. “Quali?” è l’insolita risposta di Joseph, sdraiato su un letto d’ospedale. E non perché sia in stato confusionale, ma perché effettivamente non sa più chi siano i suoi genitori. I due personaggi sono infatti i protagonisti del film Il figlio dell’altra, della regista ebrea francese Lorraine Lévy, proiettato ieri sera in anteprima al cinema Anteo di Milano. La Comunità ebraica, che ha organizzato l’evento riempiendo una sala da quattrocento posti, ha devoluto tutto il ricavato ai movimenti giovanili.

“Abbiamo già avvertito i tuoi genitori, stanno arrivando”, dice Yassin. “Quali?” è l’insolita risposta di Joseph, sdraiato su un letto d’ospedale. E non perché sia in stato confusionale, ma perché effettivamente non sa più chi siano i suoi genitori. I due personaggi sono infatti i protagonisti del film Il figlio dell’altra, della regista ebrea francese Lorraine Lévy, proiettato ieri sera in anteprima al cinema Anteo di Milano. La Comunità ebraica, che ha organizzato l’evento riempiendo una sala da quattrocento posti, ha devoluto tutto il ricavato ai movimenti giovanili.
La trama del film riscopre e ricontestualizza in una cornice nuova e ardita un tema che è un grande classico della letteratura, lo scambio di bambini nella culla. Al momento della visita medica per iniziare il servizio militare, i genitori del diciottenne israeliano Joseph scoprono che il ragazzo non è il loro vero figlio, bensì quello di una coppia palestinese che vive a Gaza e ha cresciuto lì il loro bambino, Yacine. Un errore dell’ospedale di Haifa dove le due madri hanno partorito contemporaneamente nel 1991, dovuto al panico causato da un’evacuazione durante la guerra del Golfo.
“Vuoi dire che io sono l’altro… e che l’altro sono io?”, chiede Joseph non appena riceve la notizia. Una domanda rivolta a se stesso, alla madre, ma anche al pubblico, per cercare se non di risolvere, quanto meno di comprendere il conflitto dalle molte facce che costituisce la vera trama del film. È un conflitto di sentimenti, legato all’amore che i genitori provano per entrambi i figli, diverso ma altrettanto intenso, rappresentato dalle due madri che proprio attraverso quest’ultimo riescono da subito a trovare il modo di comunicare. Ideologico, legato invece alla guerra e all’odio da essa generato, identificabile certamente anche in qualche inevitabile cliché, ma che nella scena che raffigura i due padri seduti al sole al tavolino di un bar senza scambiarsi una parola e senza nemmeno guardarsi, si manifesta in tutta la sua semplice violenza. Più che in qualsiasi sparatoria, più che in qualsiasi acceso dibattito, perché almeno in quei casi uno scambio avviene. Ma soprattutto è un conflitto interiore, che si sviluppa nei due ragazzi. Joseph, musicista e sognatore, cresciuto negli agi di Tel Aviv, che non ha nessuna voglia di iniziare il servizio militare. Yacine, vissuto nella problematica Striscia di Gaza, appena diplomato a Parigi, pronto a iniziare gli studi di medicina. Questioni identitarie, religiose, politiche. Questa vita è veramente la mia? Ebreo o musulmano? Israeliano o palestinese? È possibile che io sia quello che ho sempre pensato essere l’esatto opposto di me?
Ma la lezione che Lorraine Lévy vuole fondamentalmente trasmettere è in realtà molto semplice. Il film è intriso da uno speranzoso umanesimo, nel senso che vuole mostrare che nonostante le differenze politiche, religiose e culturali, le persone alla fine sono persone. E questo emerge nell’amicizia sincera che nasce fra Joseph e Yacine, nient’altro che due giovani alla ricerca di se stessi, due diciottenni che scoprono di non sapere chi sono e si ritrovano ad avere più cose in comune che in contrasto. Un meraviglioso ma non scontato né melenso messaggio di ottimismo, senza dubbio. Allo stesso tempo però è impossibile non avvertire, di sottofondo, anche un tenebroso senso di disperazione, nel senso etimologico di perdita di speranza. Perché in realtà il conflitto fra queste due famiglie, che restano la rappresentazione simbolica marcata e inequivocabile dei due universi a cui appartengono, quello israeliano e quello palestinese, viene affrontato e parzialmente si risolve solo e soltanto per un capriccio del destino, una circostanza totalmente casuale. Mai si sarebbe pensato altrimenti di abbattere quel muro, ideologico ma anche reale, che viene tante volte inquadrato in tutta la sua altezza. E alla fine, è questo il vero conflitto raccontato da Il figlio dell’altra, l’alternanza fra speranza e disperazione, che sta alla base di tutti gli altri, e non a caso è il solo che non si risolve. Lasciando lo spettatore a meditare sul suo destino insieme ai due protagonisti: “Se avessi potuto scegliere, cosa avresti voluto essere?” chiede Joseph a Yacine. “James Bond”.

Francesca Matalon twitter @MatalonF

(16 gennaio 2013)