vita…

“We-ìm mizbàch avanìm tà‘asse-Lì lo’-thivnè ethhèn gazìth ki charbekhà henàfta ‘aléha wa-techaleléha”, “e se un altare di pietre Mi farai, non farle scalpellate, perché sollevando sopra (una di) esse la tua spada, la profani”. Nessuna religione arriva ad aborrire qualsiasi forma di violenza quanto la religione ebraica: guerre sante, campagne armate per diffondere il proprio credo, roghi di miscredenti e di eretici, sono stati e sono all’ordine del giorno in tutte le civiltà; l’ebraismo, invece, non ha mai imposto la sua maniera di vedere, e in tutte le guerre di religione si è sempre trovato sulla difensiva. Anche all’interno, qualunque violenza è aborrita. Perfino la pena di morte, che la Torah prevede per alcune gravissime mancanze e soprattutto per chi fa uso della violenza in determinate maniere e circostanze, è estremamente difficile che possa essere comminata; e anche quando essa viene decretata (ed il tribunale che la decretasse una volta ogni settant’anni è definito sanguinario!), i giudici che a norma di legge fanno uccidere un uomo devono espiare per questa loro violenza legittima e legale con un digiuno. La Torah ci insegna, dunque, il distacco totale da ogni tipo di violenza sia nella sfera umana sia, e a maggior ragione, in quella divina. Per questi motivi l’altare nel Tabernacolo e nel Santuario non può essere fatto con pietre sulle quali sia stato usato un metallo: in quanto strumento di morte, esso è inadatto a costruire lo strumento di maggior vicinanza con D.o, ossia ciò che simboleggia l’allungamento della vita. Si tratterebbe di “profanazione”, ossia di pretendere di associare il sacro – e la vita è sacra di per sé – con ciò che allontana la sacralità dalla persona, perché la rende corpo solo materiale, morto.
Ancora al giorno d’oggi, troppi sono i sistemi politici nei quali la violenza è d’uso quotidiano, troppi sono i Paesi nei quali essa è strumento di potere o anche solo di lotta per la supremazia. Renderci conto della portata di una mitzwà della Torah che potrebbe sembrare superata (dato che al giorno d’oggi non abbiamo l’altare) deve indicarci la strada da percorrere nei nostri rapporti interpersonali e collettivi; se noi riusciremo a trarne i debiti insegnamenti per noi, allora il nostro comportamento potrà ispirare anche altri, e si potrà avverare la previsione profetica di un mondo senza violenza, di un mondo sereno e armonico in tutte le sue componenti.

Elia Richetti, presidente dell’Assemblea rabbinica italiana

(31 gennaio 2013)