Qui Pisa – La sfida delle donne per i diritti

Ad aprire la ricorrenza dell’8 marzo a Pisa è stato un convegno presso la Procura della Repubblica promosso dal Dipartimento Educazione e Cultura dell’Ucei e la Comunità ebraica locale in collaborazione con il Comitato Pari Opportunità dell’Ordine degli Avvocati. Il titolo dell’incontro, La sfida delle donne per i diritti – Dialogo tra l’ordine giuridico ebraico e lo Stato italiano, ha voluto subito porre l’accento su alcuni punti: sulle battaglie di oggi e l’evolversi della legge in tema di diritti in entrambe le tradizioni giuridiche; sulla sfida che è spesso affidata alle donne e sul fatto che si tratta di conquistare i diritti in favore non solo della donna ma di tutta la società civile. Per fare questo è essenziale, appunto, un dialogo tra i cittadini, la loro cultura e la legge. Nello specifico, il dialogo tra la tradizione giuridica ebraica e quella statale è importante per vari motivi: perché ogni ebreo/a è anche cittadino/a e appartiene alla cultura del paese in cui abita (compreso lo Stato di Israele) e perché da sempre la giurisdizione ebraica ha dialogato con il proprio tempo, influenzando e facendosi influenzare dalle leggi e i costumi appartenenti ai popoli vicini, pur mantenendo un nucleo originale forte che però si è potuto allargare – e in questo caso, oserei dire, sia a discapito che a vantaggio delle donne.
Dopo i saluti delle autorità tre sono stati gli interventi che hanno guidato questo dialogo. Rav Luciano Meir Caro ha mostrato che nell’ebraismo l’uomo e la donna sono uguali di fronte alla legge e che figure femminili, insieme a quelle maschili, hanno costruito e determinato attraverso i loro atti e scelte, l’identità e la storia di tutto il popolo ebraico; inoltre bisogna notare che le leggi matrimoniali nell’ebraismo sono fondamentalmente a tutela della donna.
L’avvocata Lucia Vergini ha offerto invece una panoramica della normativa vigente nello Stato italiano riguardo alla donna e si è soffermata sulle sfide attuali, sostenendo la necessità di un reale riconoscimento sociale della donna nel mondo del lavoro, dove non troviamo ancora purtroppo una effettiva coerenza tra leggi – che garantiscono la parità – e comportamento. Basti pensare non solo al linguaggio – per cui spesso le donne non vengono chiamate per il loro titolo professionale ma attraverso semplici appellativi come “signorina” o “dottoressa” – ma anche al fatto che oggi il salario medio maschile è ancora molto più alto di quello femminile. Per superare questa ingiustizia bisognerebbe sviluppare una tradizione femminile che dia conto della specificità di questo genere, con tutta la sua ricchezza e diversità, senza dover imitare o declinarsi al maschile. Una lotta per una pari diversità, potremmo dire, che passi attraverso il reciproco riconoscimento pubblico. 
La storica Marisa Patulli Trythall ha infine mostrato, attraverso uno sguardo storico trasversale che questo è possibile, se abbiamo la forza di assumerci sempre più la responsabilità di esserci e agire nella storia: in questo senso, nonostante i pregiudizi misogeni che troviamo nel Talmud, le donne ebree hanno dato un esempio degno di nota: “È in quello scorcio di secolo, tuttavia, che si concentra l’opera di tante donne che cambieranno il corso della storia del movimento socialista e del femminismo. Citando i loro nomi si evidenzia subito una straordinaria presenza ebraica: Rosa Luxemburg, Clara Zetkin, Anna Kuliscioff. Le loro azioni, le proposte, la loro sinergia con le sindacaliste americane, con i movimenti politici italiani, improntano ancora la nostra storia: con la celebrazione, per esempio, della giornata dell’otto marzo. Fu nel corso della II Conferenza Internazionale delle donne socialiste, tenutasi a Copenhagen il 26-27 agosto 1910, che fu presentata da Clara Zetkin, una mozione per istituire la Giornata Internazionale della Donna. La giornata inizialmente era celebrata in date diverse, negli Stati Uniti e in Europa, fin quando, nel 1921, non fu fissata definitivamente all’otto marzo, in ricordo dell’otto marzo 1917, inizio della Rivoluzione russa di febbraio (secondo il calendario giuliano). Ma perché una così qualificata e numerosa presenza ebraica femminile? Perché sia agli albori del movimento femminista, nel XVIII secolo, sia in seguito e fino ai giorni nostri, l’alfabetizzazione delle donne ebree è andato in controtendenza rispetto alle medie nazionali. Il dato italiano del 1901, per esempio, ci dice che il 97,6% delle bambine ebree tra i 6 e i 14 anni sapevano leggere e scrivere, a fronte di una media nazionale del 56,6% globale. Così come il 92,5% delle donne ebree era alfabetizzato a fronte di una media della popolazione del 57%. Abbiamo solo accennato all’opera di donne ebree che hanno segnato la storia, molte altre, non meno significative, hanno smentito tutte le affermazioni maschiliste e vanificato anche le citazioni più dotte, create per mantenerle in soggezione, fossero esse di carattere religioso o laico.” E ancora Marisa Patulli cita Hannah Arendt, intervistata da Gunter Gauss: “Ma lei mi chiede dell’effetto che i miei lavori hanno sugli altri. Se mi consente una chiosa ironica, questa è una domanda tipicamente maschile. Gli uomini vogliono sempre esercitare una grande influenza, ma per me non è poi così essenziale. Se penso di esercitare dell’influenza? No. Io voglio comprendere, e se altri comprendono – nello stesso senso in cui io ho compreso – allora provo un senso di appagamento, come quando ci si sente a casa in un luogo.” Aggiungerei a questo punto che, come sosteneva Leibovitz, il femminismo non è una minaccia ma un contributo necessario alla realizzazione di una società più giusta.

Ilana Bahbout, coordinatrice dipartimento Educazione e Cultura UCEI

(10 marzo 2013)