Obbrobrio e seduzione

Mi permetto qualche riflessione in occasione di Yom HaZikaron laShoah ve-laG’vurah 5773. In questo periodo mi capita con una certa frequenza di essere chiamato a parlare del volume sul negazionismo che ho pubblicato da poco presso un editore nazionale. Lo faccio spesso con grande piacere, qualche volta, invece, un po’ controvoglia. Non mi sottraggo alla discussione ma laddove immagino di sapere che questa si svolgerà secondo canali prevedibili e rituali mi sento leggermente demotivato. Il pubblico è quasi sempre numeroso: i libri che trattano, a vario titolo, ed anche nei più svariati modi, la storia del nazismo e delle sue malefatte (nel caso del mio testo il fuoco della riflessione è centrato su chi dà corpo ad una vera e propria controstoria, ossia un ribaltamento concettuale e anche materiale dei fatti medesimi, per cui quello che successe non sarebbe mai avvenuto), riescono ancora a raccogliere una buona attenzione. Naturalmente le motivazioni dei partecipanti sono tra di loro diverse per non dire assortite. C’è chi è appassionato di storia contemporanea, c’è chi è moralmente partecipe delle vicende che sconvolsero l’Europa e con esse dello sterminio sistematico delle comunità ebraiche, c’è chi sente di dovere assolvere a una sorta di debito civile, c’è chi viene a curiosare e poi ci sono quelli che, a vario titolo, potremmo definire pubblico professionale, che segue certi percorsi di lettura e di studio per formazione propria, a partire dagli studenti e dai docenti.
Il tema del negazionismo suscita in genere una forte polarizzazione: la stragrande maggioranza esprime un netto rifiuto, una piccola minoranza, a volte silente, tende invece a sentirsi non solo incuriosita ma anche attratta da ciò che si presenta con i caratteri del sensazionalistico, del ribaltamento del giudizio di senso condiviso, dell’aggressione spudorata (e falsamente ribelle) nei confronti di ciò che è invece assodato. Si tratta, in questi casi, di eccezioni. Pur tuttavia anche queste sussistono. Ma non è tanto su tale aspetto che vale la pena di soffermarsi quanto sull’effetto di trascinamento, per così dire, che il tema del negazionismo, che altrimenti parrebbe per molti di rilievo secondario (quando in realtà non lo è), esercita su tutta una serie di questioni che in ogni incontro, puntualmente, si ripropongono. La più importante di esse è quella della “pensabilità” della Shoah.
Così posta, tra il grande pubblico, la questione non ha nessun carattere strettamente filosofico. Rinvia semmai al problema, in sé irrisolto, di come razionalizzare e concettualizzare, del pari a qualsiasi evento storico, qualcosa che pur essendo un fatto concreto, cioè realizzato dagli esseri umani sulla base di una lucida volontà, sembra invece sfuggire alle abituali categorie che si usano per capire e giudicare le scelte collettive. È raro che qualcuno chieda del come si è consumato l’omicidio di massa, quand’anche in fondo non sa bene come le cose si siano effettivamente svolte, mentre è diffusissima la domanda sul perché. Quesito a tratti imbarazzante poiché è il punto di contatto tra ciò che è razionale, prevedibile e quindi commensurabile con quanto, invece, sfugge a tali categorie, che sono e rimangono comunque l’unico orizzonte del nostro modo di pensare e di pensarci.
I negazionisti, a ben vedere, risolvono sbrigativamente la matassa, il viluppo creato da questi interrogativi usando la spada, così come si fa con il nodo di Gordio: la Shoah non è pensabile perché non è mai avvenuta. Il vero scandalo non è il fatto che sia stata realizzata su questa terra da degli uomini contro altri uomini ma che ci sia ancora chi si ostina a perpetuare quella che loro chiamano la «menzogna di Auschwitz». In questo modo le inquietudini che ognuno di noi serba rispetto al nesso tra modernità e barbarie si sciolgono d’incanto, come per effetto di una potente magia. Per i negazionisti, che rinnovano l’antica tradizione antisemitica, il mondo in sé sarebbe buono e giusto se non fosse abitato da quegli individui menzogneri, gli ebrei, che nella loro incessante opera di mistificazione delle cose e della vita altrui sono arrivati a commettere un crimine intollerabile, quello di essersi inventati il ruolo di vittime (quando in realtà semmai sono solo dei carnefici).
La seconda questione che emerge continuamente è la riflessione sul ruolo del nazismo e dei fascismi e, come si dice tra gli storici, su come essi debbano essere “storicizzati”, ovvero contestualizzati con le loro specificità nell’epoca in cui si manifestarono e di cui furono, che ci piaccia o meno, espressione compiuta. Poiché, e qui il rimando ad alcuni aspetti del presente si fa pressante, un po’ tutti gli interlocutori colgono come l’affaticamento delle democrazie liberali negli anni venti, il vicolo cielo costituito dalle crisi economiche, le incongruenze dei sistemi politici così come l’assenza di democrazia economica e sociale costituiscano, allora come anche oggi, una miscela micidiale nella crescita e poi nell’affermazione di movimenti populistici, a base carismatica, che nel nome di un rinnovamento totale di società altrimenti ripiegate su di sé disintegrano le libertà, i diritti e, a volte, la vita stessa. Paralleli immediati tra quel che stato e quel che è oggi la nostra realtà quotidiana sono fuori luogo o comunque gratuiti, se non ponderati con la massima circospezione.
Tuttavia vi è il ripetersi, in certe situazioni, di alcune condizioni strutturali che non possono non fare riflettere. Soprattutto su un aspetto: se le società vengono abbandonate a sé, se le loro classi dirigenti deflettono al ruolo che gli compete, se viene meno la protezione e la tutela della collettività dinanzi a quei grandi problemi contro i quali i singoli, così come le famiglie, possono poco o nulla, allora si apre una voragine dentro la quale rischia di passare molto se non di tutto. A fronte del severissimo giudizio morale sul nazismo e sui fascismi, condiviso da tanti, non c’è altrettanta consapevolezza della sfida politica e culturale che quei sistemi ideologici continuano a rappresentare. Non basta contrapporre ad essi gli effetti disastrosi che produssero con le loro scelte scellerate, peraltro sottoscritte da una parte della popolazione. Non è un monito sufficiente. Ancor meglio: non è con un monito che si neutralizzi la potenza seduttiva di proposte politiche che hanno un vero punto di forza nel banalizzare la realtà, offrendo all’angoscia dei tanti percorsi di soluzione che, pur essendo nei fatti pericolosissime scorciatoie, sollevano dal peso della sofferenza personale tramutandola nell’insofferenza verso un capro espiatorio terzo. Quanto le democrazie si inceppano, cosa che avviene quasi sempre nel momento in cui i meccanismi che garantiscono la redistribuzione della ricchezza prodotta e la coesione sociale vanno in frantumi, nulla è più certo. Illusorio è poi il cullarsi nel pensiero che si tratti di un fatto di mera “educazione”. Il cliché del nazista cattivo e incolto ha funzionato assai poco nello spiegare il perché della compromissione del fior fiore della gioventù tedesca, cresciuta negli anni della Repubblica di Weimar, volenterosamente fattasi assoldare da un partito, divenuto infine regime, che ha garantito a parte di essa una mobilità sociale che nessun sistema liberale era stato capace di offrire. Per questo, e per molto altro, la partita rimane aperta, che ci piaccia o meno. Il nazifascismo, da questo punto di vista, non è mai del tutto morto. Neanche noi, tuttavia.

Claudio Vercelli

(7 aprile 2013)