Stare attenti, molto attenti
Che ad Auschwitz si stesse “attenti”, molto attenti, non ne dubito. Del pari, credo che ognuno stesse “al suo posto”, contando anche i respiri che faceva, in una sorta di scala sociale rovesciata, dove la morte era collocata all’apice e la vita al gradino più basso. L’infelice espressione della professoressa romana, le reazioni che ha innescato, le parole che sono state usate dalla medesima, come da altri, per giustificare l’ingiustificabile (come si dice in questi casi, peggio la toppa del buco), sono state fatte oggetto di molti commenti. La pressoché totalità dei quali di secca presa di distanza e di condanna. Le cose sembrano così essere tornate al loro posto anche se la contestata docente si è soffermata sul fatto che “nella scuola italiana non c’è più la disciplina di una volta”. Dopo di che, ad onore del vero, verrebbe la voglia di aggiungere che la summenzionata se l’è cavata con assai poco, al di là della sanzione morale. Si tratta di una guarentigia, quella che è riconosciuta ai dipendenti della pubblica amministrazione italiana, per i quali la rimozione dall’incarico è fatto assai raro, che da tutela dell’imparzialità nell’assolvimento del ruolo pubblico svolto si è trasformata in un privilegio spesso discutibile. Ma tant’è, essendo in presenza di un caso dove di fatto ci si è trovati dinanzi ad una sorta di autosospensione di natura diplomatica. Detto questo va aggiunto che è evidente una cosa, ovvero che se la parola “Auschwitz” sta sulla bocca dei più non è assolutamente detto che le accezioni, i significati che ad essa sono attribuiti, collimino. Se essa richiama, in ognuno di noi, un toponimo che ha una funzione antonomastica, ossia indica un significato univoco, che rinvia al senso universale dell’orrore, la vicenda summenzionata ha rivelato, se mai ce ne fosse stato bisogno, che c’è chi la intende anche e soprattutto come sinonimo di “ordine”, laddove il termine è qui declinato come qualcosa di addirittura positivo. Non a caso la professoressa ha tempisticamente giustificato il suo precedente dire con l’affermazione che il rimando al lager in terra polacca indicava “un posto organizzato”. Che era, per inteso, uno dei significati che i nazisti attribuivano sia alla deportazione che all’eliminazione delle proprie vittime. L’idea che si possa istituire un mondo purificato dalle presenze sgradite, quelle che per il fatto stesso di esistere minerebbero la “naturale gerarchia” intrinseca alle cose, è un’utopia salvifica tanto pericolosa quanto diffusa. Allora come oggi. La differenza è che nel passato si è rivelata nei suoi devastanti effetti, dai quali si sono poi dovute prendere pubblicamente le distanze; nel presente, invece, è come una sorta di pensiero terribile, ma serissimo, che emerge solo nei momenti in cui si allenta il regime dell’autocontrollo da parte di coloro che coltivano questi convincimenti. Il modello di Auschwitz, infatti, richiamava anche questo: la dolorosa (per i carnefici) ma necessaria azione di rimettere le “cose al loro posto”, dopo che le razze, i ceti e le classi inferiori le avevano ribaltate, prendendo per sé quello che invece sarebbe appartenuto esclusivamente, per insindacabile diritto, a chi è superiore per nascita. Vogliamo chiamare razzismo questo atteggiamento? Senz’altro è razzista ma, nel medesimo tempo, rivela di essere anche qualcosa di più (e peggio) di una convinzione altrimenti riconducibile alla mera patologia del tempo corrente. Auschwitz è per certuni il paradigma di un ordine che nel mondo civile è venuto a mancare. Tralasciamo, almeno per un momento, lo schifo che tale pre-giudizio può ingenerarci e cerchiamo invece di cogliere il filo logico di un lucido e potente delirio. Il nesso tra lo sviluppo politico del nazismo (come dei fascismi), da un lato, e richiesta di ordine, nonché di protezione, è fortissimo. Ordine inteso come prevedibilità, in quanto ritorno ad una ipotetica età dell’oro dell’uomo, dove ognuno aveva un ruolo predeterminato e nessuno poteva venire meno ad esso, pena l’espulsione dal consesso civile; protezione come azione esercitata dallo Stato, dai pubblici poteri, a difesa non della vita dei singoli bensì dei corpi sociali, cioè delle aggregazioni riconosciute tra le persone, inquadrate come parte di un organismo unitario, dal quale dipendono in tutto e per tutto, senza autonomia alcuna. Quei regimi politici si sono presentati come tra quanti, nel caos di una modernità sempre più “liquida”, dove le cose e le persone, per l’appunto, “non stanno al loro posto” e sono poco “attente” perché per nulla rispettose delle gerarchie costituite, avrebbero ristabilito la sequenza giusta, presentata come rigorosamente “naturale”, dei ruoli. Virgolettiamo più volte le parole, in un caso come questo, poiché siamo in presenza di quella che i francesi chiamano la langue de bois, il linguaggio stereotipato, quello che falsifica il senso delle cose, creando con artifici linguistici una sorta di realtà parallela, pesantemente ideologica. Riconoscere questa manomissione di significati, se per noi implica il denunciarne il carattere fittizio per altri è invece la ragione per proseguire nella sua accettazione. Il linguaggio di quel potere è infatti stato molto consolante: diceva che il male può essere estirpato, una volta per sempre, a patto di sapere essere radicalmente determinati. Da ciò veniva fatta derivare la necessità, più volte richiamata e rivendicata dai fascismi, di procedere all’espulsione degli elementi estranei, definiti una volta per sempre come parassitari, dalla comunità nazionale di popolo, così come avevano ribattezzato le società sulle quali esercitavano il loro indiscusso predominio. Non si può dare un ordine giusto (non poiché equo e neanche solidale ma perché ispirato ai principi della biogenetica che governerebbero i fatti sociali), se non si procede ad una radicale rimessa al “loro posto” di quegli elementi che, invece, stavano alterando gli “equilibri” di cui la razza era depositaria. Il potere nazista, che non ha mai tematizzato apertamente lo sterminio ma ha sempre rivendicato la necessità di quella miscela tra spietatezza e razionalità che ne era alla base, esercita su molti individui ancora oggi un’indiscussa fascinazione. Non c’è verso di esso una spinta trash o il gusto dell’orrido, due espressioni di nicchia che rinviano perlopiù a pensieri deviati. Piuttosto c’è il diffuso convincimento che quel regime, quel tipo di potere totale, sia non solo maggiormente efficace ed efficiente dei sistemi liberaldemocratici, ma costituisca la giusta risposta al loro affaticamento, soprattutto quando questo deriva dalle torsioni ingenerate da una crisi economica che ne mette a dura prova gli istituti e la loro credibilità. La giustezza e la superiorità del sistema di potere totalitario riposerebbe, per l’appunto, nell’essere non lo schermo di interessi specifici, com’era concretamente nei fatti, bensì la proiezione di qualcosa che è visto come ovvio al punto tale da essere considerato “naturale”: la gerarchia dei più forti; la spietatezza verso i deboli che, in ragione di ciò, non sono degni di vivere; la distruzione della varietà culturale e della diversità umana in quanto germi della corruzione dell’unica esistenza in diritto di darsi, quella della razza-nazione superiore. Si tratta di un pensiero molto moderno, nella sua ossessiva ripetizione. E che ha trovato nelle tristi parole di una docente di una scuola italiana la sua manifestazione. Quanti altri, in cuor proprio, coltivano queste idee? Non vorremmo proprio doverci trovare nella situazione di doverli contare.
Claudio Vercelli
(14 aprile 2013)