Obiettare per negare
Avere scritto un profilo storico del fenomeno del negazionismo, ossia un volume che ne inquadra personaggi (autori, per così dire, anche se la parola è per alcuni tra questi un po’ troppo impegnativa), “correnti di pensiero”, gruppi e quant’altro mi sta portando a fare variegate esperienze con pubblici diversi, un po’ per tutta la penisola, laddove vengo chiamato a parlare del volume e, insieme ad esso, dei suoi contenuti. Già mi è capitato di farne qualche richiamo, al riguardo, in uno o due articoli precedenti. Del negazionismo ho detto nei termini di un «fatto sociale», espressione ampia, e quindi generica, con la quale si definisce un insieme di fattori, a partire da una mentalità più o meno diffusa, comunque radicata in alcuni segmenti della popolazione. In non pochi casi essa implica un abito ideologico di riferimento, perlopiù riconducibile alla destra radicale. Dopo di che, come ben sanno coloro che hanno avuto a che fare con esso, a volte – soprattutto per via del conflitto israelo-palestinese – incontra e coinvolge anche settori di una sinistra non meno accesa nelle sue posizioni di taglio “internazionalista” e “altermondialista”. Se la mentalità negazionista, qualora con essa si intenda un costrutto culturale e ideologico dai contorni molto definiti, che induce a giudicare la storia sulla scorta di una serie di presupposti inderogabili, tra i quali quello per cuiessa sarebbe il prodotto di una deliberata “manipolazione ebraica”, è in fondo un elemento relativamente secondario, diverso invece è lo scetticismo programmatico. Che porta però ai medesimi risultati di chi parte da posizioni strutturate sul piano politico. Lo scettico è colui che intende come poco o nulla verosimile ciò che sente dire, ritenendo il giudizio di buon senso, ancorché comprovato, al di là di ogni ragionevole dubbio, come il prodotto di una fonte dubitabile a priori. Quanto meno, come il risultato di una convenzione culturale che, per il fatto stesso di esistere, va messa in mora. C’è in ciò qualcosa di molto profondo, nel senso di radicato nell’animo umano, a partire dal fatto che non pochi dei nostri contemporanei reputano le parole del discorso pubblico, veicolate dai mezzi di comunicazione di massa, semplicemente come una copertura di interessi altrimenti inconfessabili. Questo atteggiamento, è non di meno sempre più presente tra gli interlocutori. Conta in ciò, tra le altre cose, il senso di spiazzamento che le trasformazioni in atto nelle nostre società stanno inducendo nella percezione comune: se parte di esse, infatti, si impongono su ognuno di noi come il risultato di un processo in cui non ci sentiamo chiamati in causa, se non per pagarne i costi, allora la tendenza a leggere e interpretare quanto andiamo vivendo come il prodotto di un occultamento dell’operato di forze che agiscono contro la collettività,diventa un paradigma diffuso. Il vero negazionismo, se così lo si vuole chiamare, trae profonda linfa da questa situazione, poiché alla sua radice c’è il complottismo, ossia la convinzione che ciò che si vede sia il risultato non di un legittimo scontro e di un netto conflitto tra interessi distinti (in tale modo operano le forze sociali alla luce del sole in democrazia) ma come il rullo compressore di una potenza invisibile. La tendenza ad interpretare la crisi economica, ma anche sociale e morale, che stiamo vivendo in simili termini, in assenza di risposte convincenti da parte dalle forze politiche come di quelle economiche e civili, purtroppo trova addentellati nel senso di emarginazione e spossessamento che certuni stanno subendo. Recentemente, alla fine di una lezione, un allievo non più giovane, peraltro di solida capacità culturale, mi ha fatto la “confidenza” per cui lui saprebbe a chi attribuire le cause delle difficoltà in cui versa il nostro paese: la massoneria e, insieme ad essa, il sistema del signoraggio bancario. Di lì a dire gli “ebrei” il passo è brevissimo e non ho difficoltà a pensare che si sia trattenuto solo per considerazione personale nei miei confronti. Non di meno, ieri l’altro, durante una conferenza per le classi dell’ultimo anno di un vivace liceo laziale, un istituto stimato sul piano didattico e culturale, un ragazzo, dai toni miti e gentili, al momento del dibattito è intervenuto controbattendo tutte le mie affermazioni ed esprimendo il suo scetticismo nei confronti della tangibilità storica dello sterminio delle comunità ebraiche, a suo dire messa in seria discussione dalla “ricerca operata dagli studiosi revisionisti”. In casi come questi, dove la mitografia prende il posto della storiografia, la confutazione delle tesi negazioniste rimane un’impresa ai limiti dell’impossibile. Ovvero, è tanto necessaria quanto destinata a confrontarsi con l’inossidabileimpenetrabilità di chi pensa alla Shoah come ad una falsità. Non c’è infatti nulla che possa scalfire il convincimento mitico, che si alimenta da sé, corroborando poi atteggiamenti politici variamenti articolati, che da essoinfine traggono parassitaria legittimazione. È come cercare di argomentare contro chi continua ritenere la terra piatta o si rifà al più stretto creazionismo, rifiutando l’idea di un’evoluzione progressiva, e a volte discontinua, dell’umanità. Siamo su pianeti diversi, in buona sostanza.Non voglio stare qui a resocontare il concreto svolgimento del confronto che ho appena richiamato. Posso aggiungere però alcune considerazioni. Il negazionismo, comunque e ovunque si manifesti, non è un fenomeno di ignoranza o di lacuna. Chi nega Auschwitz ha un’idea precisa di Auschwitz medesimo: non è mai esistito, non almeno come luogo di sterminio di massa, mentre al suo posto sussisterebbe una colossale presa in giro. Non di meno, il negazionismo non è una corrente storiografica, per quanto radicale, anche se aspira spasmodicamente ad essere considerata come tale, nel tentativo di avere un accredito e un grado di legittimazionediversi da quelli che, fino ad oggi, ha ottenuto (pari allo zero nelle scienze). Piuttosto esso si nutre di un sistema di pseudovalori antiscientifici, che io chiamo a «cerchi concentrici», dove l’obiettivo è di nascondere la possibilità di un male radicale nella storia europea, letteralmente espellendolo dall’orizzonte culturale e mentale comune. Così facendo può legittimarsi a negare l’eredità tragica del nazismo e dei fascismi, in quanto discontinuità che ingenera catastrofe, procedendo poialla loro normalizzazione agli occhi dei contemporanei: furono regimicome gli altri, che diede spazio alla modernizzazione, e la cui unica concreta responsabilità rimane quella di avere perso la guerra (venendo poi giudicati ingiustamente al tavolo dei vincitori, per ciò che i negazionisti dicono non avessero fatto). Da ciò deriva poi il risultato che si può così rimuovere il senso di colpa tra i tedeschi e, più in generale, negli europei, rompendo il tabù del limite che la Shoah ha introdotto nelle coscienze. In fondo, se Auschwitz non è mai stato, che male c’è a ripetere certi “esperimenti” totalitari? Si reintroduce, così, una sorta di antisemitismo “elegante”, che attacca gli ebrei in quanto deliberati falsificatori. Per ilnegazionismo la “cattiveria giudaica” si sarebbe spinta al punto di ritagliarsi il ruolo di vittime per antonomasia, vuoi per perpetuare la propria capacità di condizionamento delle coscienze altrui, di fatto ricattandole perennemente, vuoi per non dovere rendere conto delle responsabilità nel conflitto israelo-palestinese. Ma questi elementi da sé non basterebbero se non si considerasse la seduzione della controfattualità, un modo di porsi dinanzi alla storia, ma anche davanti al presente, per cuila realtà non è mai ciò che sembra. Il negazionista dice di sé che vuoleportare alla luce una verità tanto scomoda quanto scandalosa. In fondo, ribadendo un giudizio di senso comune molto diffuso, la narrazione storica sarebbe il mero strumento di potere attraverso il quale si celerebbe, ossia si occulterebbe, la trama degli interessi di gruppi di potere non visibili. Chi nega Auschwitz si sente portatore di un ruolo innovativo, smascherando il “complotto” dei vincitori e denunciandone la sua interna struttura. Poiché, come recita un vecchio adagio, la «storia è scritta dai vincitori». Questo modo di pensare, come già ricordato di radice complottistica, risulta a non pochi agevole. Ha una sua apparente congruenza, è lineare, rassicurante efalsamente razionale. Il negazionismo offre infatti un’interpretazione conchiusa e ultimativa della storia, dove ogni cosa viene, per così dire, messa al suo posto. Tutti i numeri tornano e se i fatti fanno a pugni con le interpretazioni tanto peggio per i fatti medesimi. Dinanzi alla complessità degli eventi il negazionista è come quel positivista che pensa di dovere liberare la scienza dal potere, livellando ogni incongruenza negli eventi e stabilendo una sorta di linearità assoluta: certe cose non si sono mai verificate, se non come finzione. L’umanità può così andare in pace verso il suo futuro. Non a caso egli tenta allora di presentarsi come l’alfiere di uncontropotere, pensandosi al pari di un demiurgo, che azzera il percorso storico. C’è molto di totalitario in tutto ciò, e la tentazione di aderirvi, purtroppo, non è solo il fastidioso lascito di un brutto passato ma l’orizzonte di uno scadente presente. Mai sottovalutare chi si ha di fronte, pensando che il potere della persuasività, della comunicazione, del dialogo e della ragione sia dalla propria parte. Esistono mondi mentali paralleli, che entrano in gioco quando le persone vanno alla ricerca di motivazioni esolidarietà laddove esse sembrano trovarsi a costi meno sostenuti. La libertà di giudizio, infatti, è un prezzo per molti troppo oneroso, tanto più se richiama da subito il principio di responsabilità. Meglio la potenza galvanizzante del mito, che si ripresenta inalterata nei momenti in cui le società ripiegano su di sé.
Claudio Vercelli
(21 aprile 2013)