Time out – Fratture

La scelta di presentare in tutta sorpresa una mozione che permette ai non ebrei di partecipare alle attività Ugei e la volontà di imporla a maggioranza, senza cercare un ulteriore e più ampio confronto sul tema, non rende troppo onore all’ebraismo giovanile italiano. Dovrebbero infatti, essere proprio i più giovani a smarcarsi da certe logiche, a differenziarsi dai più grandi, nel far vedere che si può dialogare anche su temi complessi. Purtroppo questo non è avvenuto e ora l’ebraismo giovanile ne pagherà le conseguenze in termini di unità e coesione. Perché è evidente, che l’intenzione di fare a meno dei criteri halachici per definire la legittimità di partecipazione dei facenti richiesta crea un’evidente frattura che non si è cercato nemmeno di evitare. Il rischio che si percepisce è che questa possa essere l’apertura di un vaso di Pandora il cui obiettivo appare quello di legittimare altre istanze, poco presenti nell’ebraismo italiano, ma che da tempo qualcuno punta a vedere riconosciute. Eppure, oltre le motivazioni, credo valga la pena entrare più nel merito della questione. Esiste una ragione per permettere anche a dei non ebrei, che non hanno nessuna voglia di convertirsi, di partecipare ad eventi per soli ebrei? Credo di no, e non perché, come qualcuno maliziosamente vuole far credere, abbia paura della presenza di persone non ebree. Ciascuno di noi, condivide amicizie, percorsi di vita con amici che non sono di religione ebraica, ma questo nulla c’entra. A non convincere, è innanzitutto la ratio che finisce per essere paradossalmente discriminatoria. Perché essere figli di padre ebreo significa acquisire un diritto ed essere nipote invece no? Siamo davvero sicuri che esista una cultura ebraica svincolata dalle regole religiose? E come la giudichiamo? Dai libri di Philip Roth o dai film di Woody Allen? La risposta non c’è, ed è per questo che la decisione presa non appare né saggia, né lungimirante. Nessuno chiede di chiudere le porte a chi intende avvicinarsi, ma gli eventi per giovani ebrei non possono essere degustazioni di vini, in cui uno passa, assaggia e se gli piace rimane. E se per esempio, qualcuno poi trovasse gradevoli le nostre cene e le nostre feste, pur non continuando ad avere voglia di convertirsi, volendo lo stesso continuare a frequentare, che facciamo lo cacciamo? E secondo quali criteri? A quanto pare, non è dato saperlo, ma basta questo per farmi pensare che la scelta sia stata poco ragionata e non cosciente delle conseguenze che potrà produrre. Non è quindi oscurantismo, né chiusura mentale, richiamare a regole chiare; non lo è tanto meno se queste sono quella della Torah che in fondo, piaccia o meno, ci hanno permesso di essere ancora qui oggi dopo millenni di torture e assimilazioni. Non mi pare poco, o quantomeno, non abbastanza per iniziare a cambiare proprio adesso.

Daniel Funaro

(23 maggio 2013)