La seduzione
della ripetizione
e il mondo
come pura rappresentazione
Non può sorprendere il fatto che esista un antisemitismo 2.0 e che questo sia veicolato dalla rete. Se ne sono occupati, in rapida successione, il World Jewish Congress a Budapest così come il Global Forum for Combating Antisemitism di Gerusalemme. Poiché il medium concorre a fare il messaggio è bene interpretare sia la natura del mezzo di comunicazione che i contenuti veicolatovi. Esiste nell’antisemitismo una lunga tradizione di stereotipi che ne costituiscono, al medesimo tempo, l’ossatura per così dire concettuale e la garanzia che il ripetere certi luoghi comuni sia conforme ad una loro fondatezza empirica e morale. La quale, per essere considerata tale, richiede solo di una lunga durata, quella per l’appunto sancita dal rinnovare certi pregiudizi in forme di dicerie e discorsi ripetuti ossessivamente. Dopo di che, la diffusione degli cliché antisemitici in un ambiente virtuale, ne ha determinato non solo un’insperata fortuna, dovuta alla loro facile fruizione, ma anche una sorta di movimentazione di significato. In altre parole, il web ha permesso di rinnovare la credibilità di quanto appartiene all’immaginario razzista rivestendolo di una patina di modernità così come conferendogli – per così dire – nuovi valori. Quanto meno quelli che derivano dall’essere intesi come espressione di un’identità libera da vincoli che non siano quelli dettati dalla sensazione del momento. Un obiettivo fondamentale, quest’ultimo, poiché si naviga spesso per cercare contatti mediati – e come tali privi dell’onerosità dei legami reali, quelli materiali, fisici – affinché il proprio ego sia avvalorato e confermato nello specchio del monitor. Non a caso è diffuso il fenomeno dell’alterazione sistematica dell’identità personale: al di là dei riflessi penali che eventualmente può generare, ed oltre le stesse intenzionalità, ciò che ad essa presiede è l’obiettivo di farsi un mondo a propria immagine e somiglianza. In mancanza di esso ci si ridipinge per come si vorrebbe essere. Correlativamente, gli altri da sé vengono trasformarti, come in un’immagine ritoccabile a piacimento, con gli strumenti della fantasia virtuale, divenendo una proiezione della propria persona. Tra photoshop e antisemitismo 2.0 ci sono alcune analogie da non sottovalutare, quindi. Nell’ambiente virtuale il relativismo di giudizio è pressoché totale, essendo scambiato per pluralismo delle idee e diritto alla loro immediata manifestazione (e fruizione). Se nelle democrazie moderne l’interrogativo tradizionale si confronta su quale sia la linea di divisione tra il politeismo culturale e il relativismo morale, nella “democrazia del web” il punto di collisione è quello che intercorre tra vero e simulato, tra certo e plausibile, tra esperienza materiale e simulacro del rapporto concreto. In altri termini, tra fattualità e controfattualità, laddove la seconda può risultare non meno convincente (leggasi: seducente) della prima. Un confine tra questi diversi momenti del pensare, del sentire e quindi dell’agire umano è estremamente difficile da porre rispetto alla rete, la cui forza sta nell’intercambiabilità assoluta di atteggiamenti e giudizi. Un assunto fallace, ma ancora condiviso da molti tecno-ottimisti, è che la circolazione delle idee sia di per sé un antidoto al loro deteriorarsi in pregiudizi. Non è così: senza scomodare i teorici dei sistemi informativi e i cibernetici, è risaputo che all’inflazione di parole e di immagini non corrisponda una loro scrematura. Semmai si ha un effetto di intasamento, dal quale deriva poi un riordinamento di significati secondo vecchie gerarchie di senso. L’antisemitismo sta all’interno di questo involucro, essendo al contempo qualcosa di molto vecchio (e quindi una tradizione nei termini di cui si diceva prima) e di nuovo (in quanto capace di adattarsi alle forme, alle modalità e alle pulsioni che emergono dai new media e dai loro fruitori). Il suo elemento basico, vincente è quello di costituire una teoria conchiusa degli eventi umani, per i quali sa fornire sempre – e comunque – una valutazione e un significato ultimativi. L’antisemitismo 2.0 ha poco a che fare con i cascami dell’oscurantismo e della superstizione, anche se dell’uno come dell’altra si alimenta. Piuttosto è una versione patologica dell’ansia positivista di dare ad ogni cosa un senso, di tenere ogni manifestazione umana sotto controllo, di definire un orizzonte di cose e di fatti gestibili. La storia, da questo punto di vista, è e rimane il campo di confronto tra forze contrapposte ma una parte di esse, quelle maligne, sono celate e occulte. È opera dell’antisemita adoperarsi per obbligarle ad emergere, a rendere visibile il complotto che hanno ordito ai danno dei non ebrei. Nel web la propensione alla lettura rovesciata dei fatti, la ricerca, a tratti ossessiva, di una trama nascosta, il gusto di ritenere che qualsiasi narrazione condivisa sia di per sé non solo opinabile ma tale da dovere generare a priori un sospetto di manipolazione, vengono vissuti tutti come elementi del contropotere di cui la rete sarebbe titolare. Si tratta di un autoinganno ma funziona, anche sul piano politico, come si è avuto modo di osservare recentemente in Italia. Più che un’intelligenza collettiva al lavoro parrebbe quindi operare un dispositivo di falsa coscienza. Da ciò va ricavato un giudizio seccamente negativo sulle nuove forme di comunicazione e sui loro vettori? Intanto si parta da un presupposto, ossia che la diffusione delle prime, come degli altri, è oramai un fatto assodato e incontrovertibile. Sarebbe non solo anacronistico ma anche antistorico procedere ad una sorta di requisitoria. Ne deriverebbe solo il mettersi ai margini dei processi di trasformazione che sono in atto e che non possono essere fermati con un pronunciamento di principio. Non di meno, rimane il fatto che la democrazia nel web sia una chimera per più aspetti. Quali sono, allora, i punti di intervento? Un primo passaggi critico è il riconoscere che con la rete ciò che riteniamo «fonte» – e come tale elemento della costruzione della conoscibilità delle cose, presenti e passate – sta subendo una trasformazione. Cosa ad esso possa sostituirsi o affiancarsi, oltre al chiacchiericcio universale, non è dato ancora capirlo bene. Sta di fatto che il mutamento che andiamo conoscendo sia anche una profonda sfida all’idea di conoscenza, e di valore civile che essa riveste, di cui siamo debitori e titolari. Da ciò occorre partire, per cogliere la rilevanza dei compiti da assolvere ai quali si è chiamati.
Claudio Vercelli
(9 giugno 2013)