L’ambasciatrice del kasher
Il ritorno in pubblico, dopo anni di assenza dalle scene, in occasione del decimo compleanno del centro Chabad di Monteverde. Una ricorrenza festeggiata nella sala congressi di Eataly, il nuovo polo romano della ristorazione di qualità. Sapori, profumi, sensazioni. E un suggestivo contributo halakhico di rav Shalom Hazan a tratteggiare un legame, quello tra ebraismo e cibo, tutto da esplorare. Laura Ravaioli, celebre volto di Sky Gambero Rosso Channel, amatissima da grandi e piccini per carisma, simpatia e chiarezza divulgativa, ha dato un tocco particolare al nuovo incontro con i suoi fan districandosi tra i fornelli con una rilettura originale di alcuni pilastri della cucina ebraica e giudaico-romanesca. Ed è proprio nel cuore della Roma ebraica, il Portico d’Ottavia, che ci incontriamo assieme a Gogo Bonomo, amica inseparabile e organizzatrice dell’evento che l’ha portata sul palcoscenico capitolino. Ravaioli si sofferma sul rapporto con il cibo e con i singoli ingredienti che compongono le sue pietanze, sugli influssi più variegati nelle sue sperimentazioni, sull’importanza di saper coniugare tradizione e nuovi stimoli per superare una certa ortodossia culinaria. Sembra tutto facile ad ascoltarla ma d’altronde questa è la sua forza: comunicare con semplicità, condividere esperienze e aneddoti con un pubblico che sia in grado di reinterpretare e non soltanto di ascoltare passivamente.
L’ebraismo, che da sempre la affascina, permea adesso la sua vita in tutti i sensi. Non solo in cucina, ma anche nell’intimità religiosa e spirituale con un ghiur giunto alla metà del guado.
Un ritorno straordinario accolto da applausi e da una lunga fila di gente per autografi e foto ricordo. Quali le sensazioni di ritrovarsi nuovamente protagonista?
Un’emozione speciale che mi ha permesso di capire come siano ancora in tanti a volermi bene e a fidarsi dei miei consigli. L’incontro con il pubblico è un momento fondamentale nel mio lavoro. Ogni volta ho la sensazione che le persone mi conoscano da sempre e così distanze ed eventuali rapporti verticali del genere professore-alunno si annullano facilmente.
Ad essere declinato, nella tua recente lezione, il singolare rapporto tra cibo ed ebraismo in un mix di falafel, aliciotti e pillole di saggezza estrapolate dai testi della tradizione. Cosa c’è di tuo in questa scelta?
Tutto, perché l’ebraismo è ormai parte integrante della mia vita. All’ebraismo mi sono avvicinata con grande interesse e curiosità trovando in questo mondo, in questa Comunità, una nuova famiglia e tanti amici che mi hanno accolta sin dal primo momento con cordialità ed empatia. Lo stesso calore che ho trovato tra i chabad di Monteverde di cui frequento costantemente le strutture. Dell’ebraismo amo anche una certa visione epica della vita. L’eroismo di quanti, nel corso dei secoli, hanno resistito alle vessazioni e alle persecuzioni. O ancore, venendo a tempi più recenti, le prime immagini del Muro del Pianto dopo il ritorno di una sovranità israeliana sulla Città Vecchia di Gerusalemme con fotografie che pienamente ricostruiscono il pathos di quelle ore. È quindi una vicinanza anche emotiva.
Come coniugare un percorso di conversione come quello che stai affrontando con una professione che rischia continuamente di portarti a contatto con prodotti non kosher?
Ho dato un nuovo volto alla mia cucina facendo sparire la carne e occupandomi esclusivamente di ricette rispettose della normativa alimentare ebraica. La sfida è stata quella di legare la kasherut alle esigenze di produzione. Sembrava impossibile e invece ci siamo riusciti. Il bello è che nessuno, all’infuori del ristretto gruppo che si occupa del palinsesto, se ne è mai accorto – ulteriore dimostrazione di quante possibilità siano offerte dai prodotti del nostro territorio a chi vuole rispettare le regole e allo stesso tempo provare sensazioni sempre diverse. E’ la prima volta che parlo pubblicamente del mio percorso spirituale. In questi mesi sto studiando lo Shulchan Aruch, un testo meraviglioso. Torniamo alla tua professione.
Cosa significa essere cuochi, ambasciatori di tradizioni, in una società che si fa sempre più globale e sfaccettata?
Un insieme di elementi che potrei così riassumere: memoria, territorio, cultura, stile di vita. Nella cucina ho potuto dare sfogo a un’esigenza di manualità che ho sempre avvertito tanto da spingermi a lasciare l’università per lavori caratterizzati da maggiore concretezza. Tutto nasce, come spesso accade, all’interno della sfera familiare. Mio padre non voleva che mi dedicassi a questa attività e io, ovviamente, ho fatto il contrario. Sono della convinzione che attraverso la cucina si aprano le porte del mondo. E io il mondo lo guardo non poggiando su idee granitiche e immutabili ma con la prospettiva di farmi costantemente coinvolgere e contaminare. I risultati che hai ottenuto in una carriera ricca di soddisfazioni fanno capire come la scelta del cuore sia stata quella giusta.
Cosa ti proponi di fare nel prossimo futuro?
Mi affascina l’idea di portare il format di Un cibo per l’anima in altre città. In quanto personaggio pubblico sento una forte responsabilità nelle mie azioni e allo stesso tempo il fatto di poter essere identificata come ambasciatrice di valori costituisce una sfida stimolante anche sul fronte della conoscenza e della reciproca comprensione.
Adam Smulevich, Pagine Ebraiche giugno 2013
(25 giugno 2013)