esilio…
Ha ragione David Bidussa nel suo aleftav di domenica scorsa quando scrive che “l’esilio genera inquietudine e obbliga a cercare risposte”. Nel 1986, nel ricevere il premio Nobel per la pace, Elie Wiesel iniziò il suo discorso ricordando una leggenda chassidica. Il Baal Shem Tov, vedendo i dolori del suo popolo, si diede da fare per affrettare l’avvento del Messia. Per punire il suo tentativo di interferire nella Sua guida del mondo, l’Eterno lo punì e lo inviò in un luogo lontano con il suo servitore. Lì, il Baal Shem si accorse di aver scordato tutti i suoi poteri misteriosi e di non poter quindi far ritorno a casa. Non ricordava preghiere, non ricordava nulla. Finché il suo assistente disse che si ricordava un’unica cosa: l’alfabeto, e cominciò a recitarlo, e il Bal Shem con lui. E con quello il Baal Shem riacquistò la memoria, e con la memoria la capacità di far ritorno a casa. Ma è sempre la letteratura chassidica a fornirci, viceversa, una visione anestetizzante dell’esilio. Rabbì Hanoch di Alexander disse una volta a nome di Rabbì Bunem: “Il vero esilio di Israele in Egitto era l’aver imparato a sopportarlo”. Quando l’esilio si trasforma invece in uno stato di torpore e di assuefazione in cui si perde la consapevolezza della precarietà del proprio stato esistenziale diventa necessario fermarsi per ricordare ciò che è stato. Il lutto stringente iniziato ieri, e che si protrae fino al’uscita del Tishà be Av, dovrebbe aiutarci infatti a mettere in discussione la nostra collocazione, e non solo geografica, per riflettere su dove siamo , ma soprattutto su dove vogliamo andare.
Roberto Della Rocca, rabbino
(9 luglio 2013)