Vedere l’erba cattiva dalla parte delle sue radici

vercelliIl mercato editoriale europeo e, segnatamente, quello italiano in questi ultimi due decenni e più hanno conosciuto una espansione esponenziale dei titoli che rimandano alla Shoah e, più in generale, alle deportazioni. In molte librerie esiste un apposito settore, in genere inserito tra la storia della seconda guerra mondiale e quella degli ebrei, in cui si raccolgono i volumi più recenti usciti sull’argomento. Come avviene laddove si verificano fenomeni di inflazione editoriale, il tasso di rotazione è veloce, fatto che non permette a certi testi, altrimenti meritevoli di essere presi in considerazione (anche perché non sono libri “consuma e getta”), di ottenere la considerazione necessaria. Non siamo così certo che a questa grande quantità corrisponda una pari qualità – da intendersi come sensibilità – tra tutto il pubblico. Il quale, in genere, si approccia a certi argomenti non diversamente da come farebbe per le opere di fiction, cercando in essi gli elementi di eclatanza, di sensazionalismo o di conferma dei suoi giudizi preconfezionati. D’altro canto gli editori sanno bene che se si vuole ottenere l’attenzione di un acquirente che passi tra gli scaffali della saggistica storica (oggi peraltro in grave crisi di vendite) di una qualsiasi libreria, il mettere in copertina una svastica, come anche un Magen David (e l’accostamento figurativo può produrre cortocircuiti mentali incredibili), può costituire una sorta di valore aggiunto, molto spesso ottenendo il risultato sperato, quello di una captatio benevolentiae. Proprio per questo, cioè per tale eccesso, al quale non è detto che si abbini un affinamento di sensibilità, risultano invece preziose opere di sintesi, basate su di un’asciutta coerenza, così come sulla capacità di dare chiaro riscontro di oggetti storici altrimenti complessi e, quindi, come tali facilmente manipolabili. Sono passati più di una quindicina d’anni dalla sua prima edizione francese ma finalmente in questi mesi è uscita anche in italiano, grazie ad una traduzione efficace e fedele, la “Storia della Shoah” di Georges Bensoussan. La casa editrice che lo offre al pubblico italiano è la benemerita Giuntina, sulla quale non necessita soffermarsi, non almeno per i lettori di questa newsletter. Basti solo ricordare che il suo catalogo raccoglie il meglio dell’ebraismo “a portata di libro” che, da più di trent’anni a questa parte, è entrato a fare parte della cultura italiana. Giuntina ha in parte precorso e poi raccolto e raccontato, con i suoi volumi, quel fenomeno di Jewish Renaissance che ha socializzato il corpus letterario e culturale ebraico e israeliano nella nostra penisola. Il volumetto di Bensoussan, poco più di centocinquanta pagine, è una mirabile sintesi che si risparmia tutti i difetti che in genere lavori di tal fatta invece presentano. La materia stessa in oggetto tende di per sé a debordare, ad aprire mille finestre problematiche, inducendo il lettore a piani inclinati, ossia a porre quesiti (e ciò è un bene) lasciandoli però completamente disattesi nelle risposte. Bensoussan riesce in un esercizio impegnativo: quello di raccontare la progressione di certi eventi, la loro contestualizzazione e le domande che ci consegnano non solo evitando le semplificazioni, se non addirittura le banalizzazioni, ma anche la tentazione di mettere un punto finale laddove il senso ultimo di certe cose è che quel punto non c’è più, se mai è esistito, essendo stato spostato verso un qualche orizzonte che ci sfugge. Non c’è nessun interrogativo metafisico (la Shoah è materia storica, prima di tutto) nel testo ma senz’altro il bisogno di interrogarsi incessantemente. L’autore è peraltro noto tra gli studiosi così come anche tra il pubblico generalista, d’Oltralpe e non solo. Di origine marocchina, storico contemporaneista, allievo di Albert Soboul, già insegnante di liceo e poi direttore di ricerca, si è impegnato particolarmente nella storia delle idee tra il XIX e il XX secolo. Dopo di che si è fatto conoscere soprattutto per le sue numerosissime opere sulla storia dell’ebraismo. Suo è un lavoro imprescindibile quale “Il sionismo. Una storia politica e intellettuale”, tradotto nel nostro paese nel 2007 per i tipi dell’Einaudi. Attualmente occupa il ruolo di responsabile editoriale del Mémorial de la Shoah di Parigi ed di direttore della «Revue d’histoire de la Shoah». Chi lo conosce sa dell’enciclopedicità delle sue competenze ma anche dell’indisponibilità all’erudizione fine a sé. Per Bensoussan la storia implica il costruire nessi, l’identificare relazioni e non l’isolare e l’enfatizzare l’evento come se esso potesse vivere di luce sua propria. A tale riguardo, basti ricordare due altri suoi volumi, il primo dei quali è “L’eredità di Auschwitz” (Einaudi, Torino 2002, dove però la traduzione del titolo in italiano ne ribalta la dimensione problematica, trattandosi in originale di «Auschwitz en héritage? D’un bon usage de la mémoire» (Éditions Mille et une nuits, Paris 1998) e «Genocidio, una passione europea», uscito da Marsilio nel 2009. Non tradotti, ma meritevoli di attenzione, sono altre sue opere come “Génocide pour mémoire. Des racines du désastre aux questions d’aujourd’hui”, (Éditions du Félin, Paris 1989) e “Les territoires perdus de la République: antisémitisme, racisme et sexisme en milieu scolaire” (Mille et Une Nuits, Paris 2002). Scarsamente disponibile alla celebratività e alla convenzionalità Georges Bensoussan può, a ragione, essere ascritto a quell’ampia ed eterogenea corrente di autori che con le loro ricerche si sono adoperati per rileggere i paradigmi della storia contemporanea sfrondandoli delle retoriche commemorative. Non per questa ragione va ritenuto in odore di revisionismo, e neanche di iconoclastia trattandosi, nel suo caso, di ben altro ordine di questioni. Fondamentale è poi uno dei suoi ultimi lavori “Juifs en pays arabe. Le grand déracinement 1850-1975” (Editions Tallandier, 2012). “La storia della Shoah”, di cui consigliamo vivamente la lettura, nel suo asciutto e secco rigore si compone di sei capitoli. Sono articolati secondo un intreccio rigorosamente cronologico, a partire da prima del nazismo per giungere ai giorni nostri, laddove si incontrano con una serie di questioni di ordine logico: il come, il quando, il dove e, nella misura in cui tale quesito sia lecito formulare, il perché. Il nesso di continuità non rinvia alla ripetitibilità dell’evento ma alla sua “lunga durata”, ossia alle sue radici culturali e storiche in un prima ma anche in un dopo. In altre parole, i fatti non si esauriscono nel momento in cui si manifestano ma hanno premesse e conseguenze che, di buon grado, possono essere considerate parte esse stesse del genocidio. Il primo capitolo è un quadro d’insieme sulla condizione degli ebrei europei in età contemporanea. Poche nozioni e alcuni riferimenti di massima per accedere ad una dimensione contestualizzante nel Continente prima che la tragedia si consumasse. Il capitolo successivo identifica i termini di quella che è definita come l’«esclusione legale» operata dalla Germania, che non è tuttavia fatto isolato, ponendosi in rapporto ed interagendo con una vera e propria politica europea dell’abbandono degli ebrei al loro destino, tra l’ascesa di Hitler al potere e l’inizio della Seconda guerra mondiale. Si tratta di un passaggio fondamentale poiché demanda al quadro delle responsabilità indirette che fecero sì che ai nazisti arrivasse l’inequivocabile segnale che del destino delle vittime nessuno se ne sarebbe curato. Plausibile pensare che se le cose fossero state disposte altrimenti il genocidio non si sarebbe compiuto o, almeno, avrebbe avuto dimensioni diverse. La compiacenza e l’omertà fanno sempre da corredo alla morte, tanto più se di massa. Ulteriore passaggio dirimente è quello che si consuma tra l’occupazione dell’Austria, il fallimento della conferenza di Évian sul destino dei profughi e la “Notte dei cristalli”, tre tappe racchiuse nel 1938. L’espansione del Reich è una precondizione per l’enfatizzazione delle violenze. Non è solo una questione numerica quella che si pone alla leadership nazista ma una scala diversa per le operazioni di oppressione e repressione dell’ebraismo europeo in tutte le sue articolazioni. Per i carnefici la questione diventa quella di rielaborare il tema del destino di una comunità dichiarata ostile che non ha solo più un insediamento tedesco ma inizia ad essere percepita come un obiettivo europeo. Va da sé, quindi, che il terzo capitolo si concentri sui tre anni successivi, il periodo compreso tra il 1939 e il 1941, cruciali poiché definiscono i termini politici, culturali ma anche logistici – e poi operativi – della manifestazione di quell’intenzione sterminazionista che, con l’invasione dell’Unione Sovietica, avrebbe poi assunto definitiva sostanza. Dal discorso di Hitler al Reichstag del 30 gennaio 1939, in cui predice la distruzione integrale dell’ebraismo, all’azione degli Einsatzgruppen in Ucraina, Bielorussia e Polonia, i reparti mobili incaricati di fucilare la popolazione civile, il salto di qualità è solo apparente. Ma, per l’appunto, con l’esordio della guerra si è entrati in una nuova dimensione di scala. L’«operazione Barbarossa» scatenata contro la Russia avrebbe infine aperto prospettive «impensabili» (Raul Hilberg) per la dirigenza nazista, disponendo di opportunità uniche nel loro genere: una guerra totale, una mobilitazione collettiva, una esacerbazione senza pari degli animi, il disinteresse verso il destino delle vittime, una Weltanschauungskrieg in buona sostanza, ossia una guerra tra mondi ideologici contrapposti nella quale l’ebraismo era identificato come il vero burattinaio della parte contrapposta. Peraltro, l’intreccio tra dimensione legale del percorso decisionale (chi decise, come, quando, cosa, con quali strumenti normativi e ammnistrativi e quanta legittimazione in ciò) e adattamenti empirici (come le decisioni omicide furono praticate nel concreto) è essenziale per cogliere lo strutturarsi, attraverso ciò che è stata definita una “radicalità cumulativa”, di una volontà criminale a livello di apparati di Stato. Georges Bensoussan ci restituisce il senso sia della complessità di questo progressivo declivio, sia della determinazione che vi fu impiegata. La sua scrittura sfugge quindi al falso, nonché oramai balzano, dilemma tra intenzionalismo (i nazisti volevano da sempre assassinare gli ebrei: tutto era già scritto nel Mein Kampf) e funzionalismo (lo fecero solo in ragione del determinarsi di peculiari condizioni, senza le quali poco o nulla sarebbe invece successo), per riformulare la questione daccapo, ridefinendo i confini tra volontà e occasionalità. Il quarto capitolo dà quindi conto della fisionomia e della natura della “soluzione finale della questione ebraica” in pagine tanto dense e terribili quanto calzanti. La bontà della sua scrittura sta nella costante capacità di unire i dati alla loro contestualizzazione temporale e logica. I due capitoli successivi sono infine dedicati alle vittime, alla storia e alla memoria dello sterminio. Di fatto il volume, che si raccomanda come attendibile introduzione, soprattutto per quanti ancora non hanno messo a fuoco il suo oggetto di riflessione, è ad oggi la migliore sintesi di storia della Shoah disponibile sul mercato italiano. Indispensabile per le scuole, di ogni ordine e grado. Imprescindibile per le università. E non solo.

Claudio Vercelli

(21 luglio 2013)